All we have is now

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Canzone consigliata:
"Vivo", Levante

Varcai la soglia con incertezza, con la stessa paura che mi assaliva da studentessa. Mi sentivo osservata, giudicata, era abbastanza ovvio, e scontato, che fossi al centro del gossip.
Non potevo biasimarli, non capitava di certo tutti i giorni che la giovane insegnante si assentasse per un lasso di tempo indefinito, a causa del figlio malato. La malattia tra i 14 e i 19 anni, età dei ragazzi che frequentano di norma il liceo, non è contemplata. Fanno eccezione quei pochi che hanno la sfortuna di viverla, ma in quei casi l'età mentale sfiora range ben più alti di quelli dei coetanei.
Chiamarsi "madre" a ventisette anni poi, rendeva il tutto più intrigante, e più chiacchierabile. Con quell'etichetta si perde, nella società, l'identità di donna, di ragazza, di amante. Il sogno erotico svanisce, compaiono i biberon, i passeggini, e qualche anno dopo i grembiuli e i pastelli colorati.
Avrei voluto urlare a tutti quelli che mi puntavano gli occhi addosso: "Sono sempre Eva, non scopo da tanto, non sorrido da tanto, ma sono sempre io".
Il liceo musicale era una realtà ancora ben poco sviluppata, quantomeno rispetto alle idee rivoluzionarie che si facevano spazio nella mia mente. L'assegnazione del secondo strumento, ad esempio, la reputavo insensata. Ogni suono, che fosse di un fiato, di un arco, di una tastiera, aveva la medesima bellezza: la bellezza soggettiva.
La libertà di scelta avrebbe garantito maggiore ardore e volontà di apprendimento, avrebbe stimolato la crescita personale e chi meglio di me, insegnante di pianoforte, affibbiato alla maggior parte dei musicisti come strumento secondario, poteva saperlo?
Chini sui tasti, stanchi, svogliati. Per una come me, che sentiva la forza, del movimento veloce delle dita e del piede che si muoveva sul pedale, irradiarsi per tutto il corpo, era terrificante.
Cos'altro mi sarebbe piaciuto modificare? L'attenzione dedicata allo sviluppo dell'orecchio relativo. Chi possiede l'orecchio assoluto gode dell'invidia di un gruppo, ben più numeroso, che non è nato con questa capacità. Quante discussioni, in quegli anni, ebbi modo di vedere riguardo all'argomento. Erano pur sempre adolescenti, nei quali l'invidia regnava sovrana, seppur non avrebbe dovuto.
Nessuno gli aiutava a migliorare, c'era sempre qualcos'altro di più importante da fare, da insegnare. Le esigenze venivano ignorare, a favore della burocrazia.
Avevo il desiderio nascosto di essere come Alessandro Gassman in "Un professore", dove la filosofia veniva spiegata attraverso gli eventi quotidiani vissuti dai ragazzi. Ci si sarebbe potuti appellare al fatto che una materia come quella potesse essere insegnata in mille modi, l'unico metodo che non avrebbe funzionato sarebbe stato quello frontale.
Credevo fortemente che lo stesso valesse per la musica, infondo quattro note messe insieme senza enfasi, senza emozione, non diventano musica, restano note.
"Professoressa Benedetti, bentornata" mi accolse in cima alla scalinata Olga, alunna del quinto anno.
Richiamò l'attenzione di molti, il parlottare aumentò. I sorrisi sinceri, quelli forzati, i musi lunghi, aumentarono anch'essi. I colleghi fingevano di esser lieti per il mio rientro, per il fatto che Paulino stesse bene. Proprio loro mi erano stati vicini in quei mesi difficili, ma per quanto ci provassi non leggevo sincerità nelle loro intenzioni, seppur mi sforzassi di trovarla.
Non potevo non considerare che si trattasse soltanto di una mia impressione, che si sarebbe potuta rivelare del tutto errata, d'altronde avevo basato la mia intera vita sulle sensazioni, e la maggior parte delle volte non si rivelavano veritiere.
Mi resi conto che non fosse il momento giusto per tirare gli scheletri fuori dall'armadio, perciò richiusi l'anta con forza, imponendomi che non avrei dovuto riaprirla a lungo.
Prima di voltare l'angolo, dietro il quale si trovava la mia aula privata, sentii un vociare, che non mi era affatto familiare. Capii che di lì a poco sarebbe successo qualcosa che mi avrebbe sconvolto, qualcosa a cui non ero pronta.
Odiavo le sorprese, preferivo architettarle io stessa, proprio perché potevo tenere tutto sotto controllo.
Arrestai immediatamente il passo, guardai l'orologio, ero in ritardo di cinque minuti. Non potevo tergiversare oltre, dovetti dunque fare un respiro profondo e trovare il coraggio di affrontare una situazione che mi avrebbe certamente imbarazzata.
Trovai i muri addobbati a festa, con ghirlande colorate, palloncini a forma di cuore e di stella, e due guantiere di dolci posate sopra al pianoforte.
Vidi i miei ragazzi, che si erano riuniti indistintamente, non badando alla classe o ai gruppi di amicizia. Vidi che sarebbero voluti venire da me, abbracciarmi, ma l'ambiente era troppo formale, ed io troppo distaccata.
Accennai un sorriso, abbassai lo sguardo, poi mi sentii costretta a rialzarlo, perché ero l'adulta della situazione. Avrei voluto trovare le parole giuste affinché intendessero quanto gli fossi grata, ma mi limitai a un "vi ringrazio molto".
Durante le sei ore successive, dedicai ad ognuno di loro un momento speciale, permettendogli di suonare il brano che più gli era piaciuto studiare durante il mio periodo di assenza, promettendogli che non sarebbero stati valutati.
Avevo bisogno di emozionarmi, di vederli emozionarsi.
Fu dura non poter prendere il cellulare e chiedere a Mariagrazia, la vicina al piano di sotto, come stesse il mio bambino, cosa stesse facendo, se sentisse la mia mancanza. Infondo ero consapevole che quel peso appartenesse più a me che a lui, che sapeva adattarsi con naturalezza in tutte le situazioni.
Non avevo ancora avuto la forza d'iscriverlo alla scuola dell'infanzia, sentivo il bisogno di tenerlo stretto a me il più a lungo possibile, seppur sapessi che fosse deleterio per la sua crescita e prima formazione. Mi ripromisi che lo avrei fatto presto, ovviamente dopo un'attenta valutazione.
Avrei scelto l'asilo migliore, quello dove le recensioni sulle maestre erano impeccabili, tentando di proteggerlo almeno da loro, dato che con i compagni mi sarebbe stato impossibile. Ero terrorizzata dall'idea che potesse dover soffrire ancora.
"Va bene tesoro, ripeti gli studi che ci siamo detti e procurati il volume II del libro" le mie parole vennero spezzate dal suono intermittente della campanella, ricevendo come risposta un misero: "Arrivederci prof".
Sospirai, raccolsi le mie cose, e con passo svelto mi avviai all'uscita, proseguendo con finta sicurezza sino alla mia macchina. Non appena mi chiusi lo sportello alle spalle e serrai le porte, la prima cosa che feci fu controllare le notifiche che si erano accumulate in quelle ore.
C'erano delle chiamate, tre della vicina, una di Paulo. Mi assalii il panico.
Controllai i messaggi, soltanto un vocale da parte di Dybala, che recitava: "Nena scusaci, non volevamo disturbarti. Tu comunque non ti preoccupare, Mariagrazia aveva provato a contattarti perché suo marito ha avuto un problema al lavoro e doveva raggiungerlo. Sono andato a prendere Paulino e l'ho portato a casa da me, fammi sapere se passi oppure se preferisci che lo riporti io".
Scrissi: "Arrivo", e tentai invano di calmarmi, prima di mettere a moto e partire spedita.
Mi accorsi di non sapere dove stessi andando, di conoscere l'indirizzo della sua villa ma di non esserci mai stata. Accostai e impostai il navigatore. Ebbi difficoltà a concentrarmi sulla guida e al contempo sull'apparecchio elettronico, che m'indicava dove svoltare, talvolta in anticipo, talvolta con troppo ritardo, costringendosi poi a riformulare l'itinerario, poiché puntualmente sbagliavo.
Quando mi ritrovai su corso Picco rallentai, beandomi della meravigliosa vista. Poi la trovai, la riconobbi da alcune foto che avevo visto su internet quando mi aveva detto di essersi trasferito.
Cercai di parcheggiare con precisione, per quanto mi fosse possibile, e d'ignorare la mia utilitaria in mezzo a macchine di lusso.
Suonai al citofono, venne ad aprirmi personalmente, senza lasciare che il portoncino facesse lo scatto. Mi guidò lungo il sentiero verde che conduceva all'abitazione, attraversammo una porta finestra, e proprio lì dietro c'era il mio cucciolo d'uomo.
"Mamma, mamma! Guarda che bel disegno ho fatto!" mi corse incontro, e non potei fare a meno di chinarmi per carezzargli i capelli, lasciandogli un dolce bacio sulla guancia.
Aveva replicato un quadro ancora appeso al muro, che ritraeva Kaia e Bowen, i due akita della casa.
"È bellissimo, amore".
Mi guardai attorno, l'ambiente era vuoto, ma comunque meno di quanto mi aspettassi, per uno che di lì ad una settimana si sarebbe trasferito stabilmente in una nuova città.
"Abbiamo deciso di non portare via tutto, infondo per ora non venderemo qui, mi piacerebbe tornarci" disse, come se mi avesse sentito.
"È davvero un posto accogliente" mi lasciai scappare con velata ironia. Non avrei mai capito fino in fondo perché avesse abbandonato l'appartamento in via Roma, lo amava così tanto.
"So cosa stai pensando"
"Cosa?"
"Che è incredibile che io sia finito qui"
"Hai ragione, lo stavo pensando"
Era difficile stargli accanto e vedere le nostre vite diventate due universi paralleli, soprattutto ora, che nella mia non era più contemplata la reclusione in ospedale. Forse era stato un po' il mio escamotage per ignorare il suo successo e il mio insuccesso. Odiavo l'insicurezza che mi stava creando.
"Se ci spostiamo in cucina, vorrei parlarti" proferì, e capii che volesse evitare che il piccolo ci sentisse.
Lo seguii, piena d'insicurezza e voglia di scappare. Non ero pronta ad affrontare qualsiasi argomento avrebbe tirato in ballo. Sperai con tutta me stessa che non tornasse su accadimenti passati, sui quali non avevamo mai avuto il coraggio di confrontarci, ed era meglio così.
Si accomodò su uno sgabello, feci lo stesso. Eravamo accanto, sentivo il suo respiro mozzarsi, la calma cedere il posto all'agitazione. Si scrocchiava le dita con gesti compulsivi, nonostante sapesse che dopo la prima volta non avrebbero più fatto "crack".
"Avevamo fatto una scommessa" esordì. Finsi di non sapere di cosa stesse parlando. "Remissione completa e trasloco a Roma" aggiunse.
Non saprei dire come feci a reggere il suo sguardo, cercai di memorizzare ogni singolo cambiamento del suo volto avvenuto in quegli anni: prima di tutto gli cresceva la barba, quasi folta, e non quei paletti orribili che nessuno dei due sopportava. Le rughe d'espressione, a causa del suo continuo aggrottare la fronte, erano leggermente più evidenti. Chissà se usava una crema specifica per evitare che con il tempo peggiorassero, in ogni caso avrebbe dovuto farlo. I suoi occhi modificavano ancora il colore in base allo stato d'animo, quel primo pomeriggio erano tendenti al grigio, significava che era preoccupato, che aveva paura.
Sentii la responsabilità di non doverlo deludere, ma allo stesso tempo non potevo deludere nemmeno me stessa.
"Lo sai come la penso, sarebbe un tuffo di pancia nel passato. Sono dell'idea che non possiamo farci questo"
Meritavamo entrambi molto più di una ricaduta.
"Non sono d'accordo. Mi hai privato di tutto Eva, tutto. Non puoi togliermi anche quello che abbiamo costruito in questi mesi. Tutto quello che abbiamo è adesso, non avremo più altro tempo"
Il cuore fece un tuffo, sprofondò nell'intestino poi risalì, tutto d'un colpo. Ebbi il desiderio di sprofondare, di raggiungere Lucifero nel dimenticatoio dell'Inferno.
"Lasciamo da parte queste cose, ti prego" quasi lo supplicai. Lo capì, che sarebbe bastato poco per distruggermi, e se avesse voluto, avrebbe avuto tutte le carte in regola per farlo.
"Scusami" disse, e gliene fui grata.
"Pensiamo a Paulino, cosa sarebbe meglio per lui?"
Provai a rifletterci, senza abbozzare risposte che non sarebbero state risolutive del problema. Cosa sarebbe cambiato per mio figlio? Che di Torino aveva conosciuto soltanto una minima parte, che non aveva stretto legami, nemmeno miseri, se non con i bambini di oncologia pediatrica.
"Credo che per lui vada bene qualsiasi cosa, ricomincerebbe tutto da capo ad ogni modo" proferii infine, dopo svariati minuti di silenzio.
"Ho ventott'anni ma sono ancora un egoista, io non voglio perderlo, Eva. Mi ha dato una marea di felicità, ho sofferto con lui, pianto con lui, amato con lui. Se andassi via senza di voi, sentirei di starvi abbandonando, e mi si spezza il cuore solo al pensiero"
Incredibile che il soggetto della frase, dalla terza persona singolare, si trasformò alla seconda plurale.
Mancavano pochi mesi, poi avremmo "festeggiato" un anno dalla nostra riconciliazione. Sapevamo bene quante emozioni si potessero vivere in un così breve lasso di tempo, noi che ci eravamo sposati in circa sei mesi. Non potevo condannare i suoi sentimenti, l'unica condanna che attribuì fu nei miei confronti, per aver permesso che ciò accadesse.
Mi ero detta che non lo avrei più fatto soffrire, che non sarei mai più stata la causa dei suoi mali. Invece mi ritrovavo lì, nella sua cucina, costretta a deluderlo per l'ennesima volta.
"Potrai sentirlo quando vuoi, se deciderai di non sparire, saremo sempre a portata di mano"
La mia non volle essere un'accusa di averlo fatto antecedentemente, e fui sollevata che non lo interpretò in quel modo. Dare vita all'ennesima disputa sugli errori del passato, avrebbe accresciuto la distanza che ci eravamo imposti di rispettare in quel momento. Eravamo vicini con il corpo, ma lontani con la mente.
"Voglio poterlo abbracciare, odorare la sua pelle che sa di buono, scompigliargli i capelli per dirgli "bravo", perché per paura non sono mai riuscito a dirglielo a voce. Voglio insegnargli a palleggiare, voglio vederlo giocare con i cani, addormentarsi vicino a loro"
Al sentire quelle parole, dissi qualcosa di cui mi pentii un secondo più tardi averlo pronunciato: "Vuoi fare il genitore, ma Paulino non è tuo figlio, e tu non sarai mai suo padre".

Él 2 ||Paulo DybalaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora