Prologo

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Se saprai starmi vicino
e potremo essere diversi,
se il sole illuminerà entrambi
senza che le nostre ombre si sovrappongano,
se riusciremo ad essere "noi" in mezzo al mondo
e insieme al mondo, piangere, ridere, vivere.

Se ogni giorno sarà scoprire quello che siamo
e non il ricordo di come eravamo,
se sapremo darci l'un l'altro
senza sapere chi sarà il primo e chi l'ultimo
e il tuo corpo canterà con il mio
perché insieme è gioia...

Allora sarà amore
e non sarà stato vano aspettarsi tanto.

Pablo Neruda


Dolore. Quello sì che era un dolore mai provato prima. E pensare che mia madre aveva detto di stare tranquilla, di respirare, perché tutto sarebbe andato bene, tutto sarebbe passato in un attimo. Ma cavolo... a me non sembrava proprio un attimo.
Urlai.
«Respiri profondi, tesoro. Finirà presto, vedrai». La dottoressa al mio fianco ripeté inconsciamente le stesse identiche parole di mia madre e io cercai in tutti i modi di dare retta a entrambe, anche se non risultava molto facile. Continuò a darmi consigli su cosa fare e su cosa non fare, ed io provai a rimanere concentrata sui suoi messaggi di conforto mentre le stritolavo la mano come se fosse il mio unico appiglio, l'unico modo per sopportare quell'immenso dolore. Era una ragazza molto carina, con un corpo minuto ma allo stesso tempo formoso, coperto dalla sua perfetta uniforme da infermiera; aveva un viso dolce e i suoi occhi color zaffiro erano puntati su di me mentre cercava di distrarmi.
Un'altra fitta di dolore mi invase, arrivandomi dritta al cervello e spazzando via tutti i pensieri su cui la mia mente stava vagando. Sollevai la testa e gridai, ancora e ancora. Sentivo umide gocce di sudore scendermi dalla fronte e poi più giù fino al collo. Ero completamente bagnata.
«Forza, signorina Green. Qualche ultima spinta e ci siamo!» Fu un sollievo sentire quelle parole da parte dell'ostetrica. Puntai gli occhi su di lei e la vidi trafficare tra le mie gambe aperte e piegate. I minuti successivi furono atroci... o forse si trattò solo di qualche secondo, ma non potevo saperlo con precisione.
Sentii una voce che mi urlava di spingere con forza, poi un'altra al mio fianco che mi esortava a respirare. Ce la potevo fare. Chiusi gli occhi e abbandonai la testa sul cuscino di quel letto d'ospedale non troppo comodo e confortevole. Per un attimo mi sembrò di aver perso i sensi, poi avvertii qualcosa. C'erano tanti rumori in sottofondo – gente che si muoveva, oggetti metallici che sbattevano, acqua che scorreva – ma uno prevalse sugli altri.
Un pianto.
Il pianto di un bambino.
Fu probabilmente grazie a quello che mi decisi ad aprire gli occhi e a guardarmi attorno attentamente. La vista, leggermente appannata a causa del dolore e dello sforzo che fino a poco prima mi avevano dilaniato, ci mise un po' a mettere a fuoco e a notare la dottoressa che si stava avvicinando al mio letto con un batuffolo azzurro tra le braccia. Ancora non riuscivo a vederlo, perché l'asciugamano color del cielo lo avvolgeva completamente, nascondendolo ai miei occhi.
«È bellissimo». Disse l'infermiera.
E lo era davvero. Presi in braccio quel piccolo batuffolo e, appena il mio sguardò si posò su di lui, il mio cervello andò in tilt. Era una miniatura, in tutto e per tutto. Pochi capelli scuri e sottili gli ricoprivano la testolina, quella testolina che subito accarezzai in un gesto di puro amore. I suoi occhi, piccoli anch'essi, erano leggermente aperti e mi osservavano, quasi estasiati; il colore ancora non si poteva definire, ma io già li trovavo splendidi e così simili ai miei. Sentii i suoi piedini muoversi sotto l'asciugamano e dalla sua bocca uscì un delicato singhiozzo. Si mosse un altro po', fino a quando i suoi occhi non si chiusero completamente, e si addormentò.
«Tommy...». Questa volta fui io a parlare. Fissai il bambino che tenevo tra le braccia, il mio bambino, e sentii lacrime di gioia rigarmi le guance. «La mamma si prenderà cura di te, te lo prometto».
Ed ecco fatto, ero diventata madre solo da pochi minuti e già mi ritrovavo a parlare in terza persona. Ma non riuscii a trattenermi. Cominciai a sussurrare parole dolci vicino al minuscolo orecchio di mio figlio, consapevole che lui non poteva sentirmi né tantomeno capirmi. E in quel preciso istante, tenendo tra le mani quella miniatura di bimbo, capii che il mio cuore era già suo. Capii che tutto il mio amore, tutto l'amore che ero in grado di donare, sarebbe stato rivolto unicamente a lui. Avrei fatto tutto il possibile per renderlo felice, per farlo sentire amato, e mi sarei presa cura di lui a costo della mia stessa vita. Perché era quello il compito di un genitore: amare, donare, dare sé stessi nella maniera più completa possibile.
Ed era proprio quello che avrei fatto io.

Permettimi di amartiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora