Capitolo XVIII

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«Vieni qui!».
«No!».
«Dammi quella busta, Aria».
«Se me lo chiedi per favore, forse potrei pensarci».
«Non c'è bisogno di chiedere per favore. Sei in pace con la tua coscienza, no? Perché dovresti avere paura di farmelo vedere?».
«Perché appena ho detto di aver comprato un bellissimo vestitino con Trixie, hai fatto uno sguardo assassino!».
«È la parola "vestitino" che non mi piace molto. Perché –ino, poi?».
«Perché è un po' –ino, ma è stupendo lo stesso».
«Dammi quella cazzo di busta!».
«Non urlare o sveglierai Tommy!».
«Allora tu non farmi ripetere le stesse cose». Quella frase la sputò fuori a denti stretti, spazientito e leggermente arrabbiato. Dentro di me risi, perché quella circostanza mi stava particolarmente divertendo.
La situazione era questa: quel giorno ero andata a fare shopping con la mia migliore amica e, come dire... Ci eravamo date un po' alla pazza gioia. Quando avevo visto quel vestito, non avevo esitato a spendere buona parte del mio stipendio per acquistarlo. Era pazzesco. Dirlo a Kade, però, non era stato altrettanto pazzesco.
Ora ci trovavamo a casa mia, era sera, Tommy era già nel suo letto a dormire mentre io bisticciavo con l'uomo ossessivamente esagerato dagli occhi immensamente blu e belli.
«Se lo facessi, non sarebbe altrettanto divertente». Lo presi in giro, cercando di non scoppiare a ridere.
«Sto perdendo la pazienza».
«Adoro quando perdi la pazienza».
«E per quale motivo?!».
«Perché è molto più soddisfacente fare sesso, poi».
«Aria...».
«Dimmi». Lo interruppi subito, alimentando la sua rabbia e il suo nervosismo.
«Vuoi che ti rincorra per tutta casa? Non ho problemi a farlo». Alzai platealmente gli occhi al cielo.
«Sei sempre il solito». Gli dissi. «Mettiti seduto e te lo faccio vedere». Inizialmente non mi diede retta, indeciso lui stesso su cosa fare. Avendo di fronte agli occhi una donna irremovibile, però, alla fine si arrese e poggiò il culo sul mio divano. Molto bene.
Una volta presa una certa distanza di sicurezza da lui e dalle sue mani lunghe, posai la busta del negozio a terra e tirai fuori l'oggetto della nostra discussione.
Lo tenni per gli estremi superiori e glielo mostrai. Quel fantastico indumento non aveva spalline ed era uno dei motivi che mi aveva spinto a comprarlo. Lasciava le spalle completamente scoperte. Il seno era coperto solo da due fasce che si intrecciavano sul davanti e andavano a finire dietro, legandosi in un piccolo fiocco delicato. Il sotto, invece, era molto semplice: corto e attillato.
L'abito, che ovviamente avevo provato, aderiva perfettamente al mio corpo, esaltando tutte le mie forme e facendomi sembrare anche più figa del solito, tanto che Trixie era rimasta a bocca aperta quando mi aveva vista.
Nonostante tutti quegli stratosferici dettagli, però, nessuna delle qualità che avevo appena elencato nella mia mente corrispondevano al vero motivo per cui lo avevo scelto.
Ciò che mi aveva spronato ad acquistarlo era il fatto che quel fantasmagorico, stupendo e meraviglioso vestito avesse il colore delle iridi dell'uomo che avevo proprio di fronte. O almeno, era ciò che avevo pensato appena lo avevo visto. Mi ricordava lui, ragione per il quale non ci avevo pensato due volte a farlo mio. Non era una cosa dolcissima? Già... Forse non per Kade, però.
«Non mi piace. Non mi piace per niente». Disse lui. Appunto.
«Sì che ti piace. Il problema è che ti piace troppo». Calcai il tono sull'ultima parola prima di piegare il vestito e rimetterlo con cura nella sua busta, lontano da occhi indiscreti.
«No, Aria. Non mi piace».
«A Trixie piaceva un sacco, invece. Ha detto testuali parole: ti sta da Dio, farai cadere ogni uomo ai tuoi piedi, vorrei assistere all'espressione di Kade quando lo vedrà e...».
«Ho capito! Ho capito!». Mi interruppe lui, non permettendomi di esporre completamente tutti i commenti fatti dalla mia migliore amica. Kade posò i gomiti sulle ginocchia e si prese la testa fra le mani, accarezzandosi i capelli ben rasati. Un uomo distrutto.
«L'ho scelto per te, sai? Ha lo stesso colore dei tuoi occhi». Adottai un'altra tecnica per convincerlo e calmarlo. Mi avvicinai al divano, lo spinsi per le spalle sullo schienale e gli montai sopra a cavalcioni.
«Non farai altro che peggiorare la situazione, così».
«Dicendoti che mi ha ricordato il colore dei tuoi occhi o seducendoti?». Lo stuzzicai. In quello ero proprio eccezionale.
«Entrambe le cose!».
«Suvvia! Non fare tutte queste storie. Lo metterò esclusivamente in tua presenza, d'accordo?». Cercai di andargli incontro, divertendomi veramente un mondo.
«Se sarò presente esclusivamente solo io, allora sono d'accordo».
«E quando lo dovrei mettere, secondo te? Quando siamo a cena a casa senza nessun altro intorno?». Risi, trovando alquanto buffa quella sua richiesta.
«Perché no?».
«Sei incorreggibile, Kade Acker».
«E tu sei una provocatrice, Aria Green».
E la serata proseguì così, tra bisticci e carezze, tra battibecchi e risate, tra scontri di parole e scontri di baci. Poi ancora, tra labbra e denti, tra baci e abbracci, tra sorrisi e sospiri, completamente ignari di ciò che il futuro ci avrebbe riservato.

***

«Ma guardati! Hai gli occhi innamorati!».
«Non è vero!».
«Oooh, sì che è vero. Non puoi mentire alla tua migliore amica». La sculacciai con la pezza che avevo in mano prima di continuare a pulire il bancone.
«È solo che... Stiamo bene insieme. È innegabile». Ribattei, lavando via una macchiolina di caffè e raccogliendo le briciole dei pasticcini consumati dai clienti.
«Già... Sei diventata mielosa, non ci posso credere! E io che ancora vado a caccia di bocconcini!».
«Beh, potresti dedicarti ad una certa persona invece di andare a caccia tutte le sere».
«E chi sarebbe questa persona? Illuminami». Mi chiese lei, senza guardarmi. Fece finta di non capire, ma io non ci cascai. Lo sapeva benissimo.
«Vediamo se indovini. Inizia per "J" e finisce per "E". Ti viene in mente qualcuno?». Trixie voltò la testa di scatto, puntandomi addosso due occhi infuocati.
«Sei una brutta persona, Aria». Scoppiai a ridere, portando a casa la vittoria. Ci avevo preso!
«Ti dico solo la verità!». Mi fece la linguaccia e poi si dedicò al cliente appena entrato, felice di poter interrompere quella conversazione. Io finii di pulire e mi diressi in cucina per tirare fuori dal forno croissant e donuts. La mattina servivamo anche quelli e, c'era da dirlo, andavano proprio a ruba.
Posai le teglie sul tavolo e spalmai glassa e zuccherini sulle ciambelle, stando molto attenta a fare un buon lavoro. Impiegai circa un quarto d'ora a decorarle tutte e a correggere le imperfezioni che non mi piacevano, mentre Trixie continuava a servire la clientela. All'improvviso, però, suonò il telefono fisso della pasticceria distraendoci entrambe dal nostro daffare.
«Vado io!». Urlò la mia migliore amica ed io non mi mossi. Piuttosto, guardai le ciambelle una ad una per vedere se ci fosse altro da sistemare.
«Aria?». Trixie fece il suo ingresso in cucina con un'espressione tra il confuso e il curioso.
«Sì?».
«Ti vogliono al telefono».
«Chi?».
«Una certa Elizabeth». Elizabeth? La mamma di Kade? Non era possibile. Cosa voleva da me?
«Oh». Esclamai, stupita quanto lei. Accettai il cordless che mi porse Trixie – immaginando già mille scenari – e, titubante, me lo portai all'orecchio.
«Io continuo a servire di là». Prima di dileguarsi, Trixie prese le due teglie appena sfornate e le portò via con sé. Io deglutii e, decisamente confusa, mi decisi a parlare.
«Pronto?».
«Ciao, Aria». Rispose una voce dall'altro capo, voce che riconobbi subito come quella di Elizabeth. «Mi dispiace aver chiamato la pasticceria, ma non ho il tuo numero e l'unico contatto trovato su Internet corrispondente alla Green's Bakery è questo».
«Non si preoccupi». Le risposi. Piuttosto dimmi il perché di questa chiamata, pensai. «Va tutto bene?». Le chiesi, un po' vaga. Non volevo essere troppo diretta, ma pretendevo spiegazioni. Era passata poco più di una settimana dal nostro famoso pranzo domenicale, quindi non credevo volesse dirmi qualcosa riguardo a quell'occasione. In tal caso avrebbe chiamato prima, no?
«Sì, va tutto bene, grazie. Prima di tutto, volevo farti le mie scuse riguardo al nostro primo incontro. Delle volte mio marito può risultare un po'... indisponente, ecco». E indisponente era fargli un complimento, ma tenni quell'opinione per me.
«Non ce n'è bisogno, davvero...».
«Non è questo il motivo per cui ti ho contattata, però». Mi interruppe lei. «Ho bisogno di incontrarti, Aria».
«Ah». Non esitai ad esternare il mio stupore, ma Elizabeth non parve accorgersene. «E perché?».
«È un discorso alquanto delicato, cara. Non posso parlarne al telefono. Ci dobbiamo vedere. Urgentemente».
«Cosa intende per "urgentemente"?».
«Intendo ora». Cazzo. Ma cosa aveva in testa, quella donna?
«Io... Io non posso adesso. Sto lavorando».
«Non puoi allontanarti per qualche ora? C'è la tua collega, no?».
«Sì, ma...». Mi bloccai. Non sapevo neanche cosa dirle. «Qual è il problema, Elizabeth? Cosa succede di così importante? Non posso mollare tutto qui senza neanche sapere il perché».
«Non c'è bisogno di sapere il perché, Aria. È una cosa di vitale importanza. Il mio tempo è prezioso, non lo sprecherei inutilmente». Sospirai, cominciando a camminare a destra e a sinistra. Più andava avanti quella conversazione, più mi salivano l'ansia e la necessità di sapere cosa si celasse dietro quelle parole tanto criptiche.
«Va bene». Decisi infine, pentendomene subito dopo. «Cercherò di liberarmi il prima possibile. Dove ci incontriamo?».
«Sceglierò un bar nelle vicinanze della pasticceria così da non farti spostare troppo. Dammi il tuo numero. Ti invierò l'indirizzo tramite SMS». Le dettai il mio numero, aspettando che se lo scrivesse da qualche parte. «Ah, un'altra cosa, Aria».
«Sì?». Domandai, già stremata da tutte quelle richieste.
«Non dovrai farne parola con mio figlio». Cosa?
«Sta scherzando, vero?».
«Non scherzo mai su questo genere di cose. Mi aspetto serietà da parte tua, perché quello di cui andremo a parlare sarà qualcosa di vero e concreto, non una storiella qualsiasi. Rispetta questa mia decisione e, per il bene di Kade, non dirgli nulla. Ci vediamo tra mezz'ora. Ti mando l'indirizzo. A tra poco». Detto quello, attaccò. Per qualche secondo rimasi con la bocca aperta, pronta a dire qualcosa, e con il cordless ancora all'orecchio. Non riuscivo a muovermi, bloccata dalle sue parole e da tutto quel mistero che non riuscivo a decifrare. Perché non dovevo parlarne con Kade? Cosa doveva dirmi di così importante? Ero talmente confusa che neanche la mia mente riusciva a produrre pensieri sensati. Dopo un po' riuscii a posare il telefono sul bancone e a fare un respiro profondo. Il cuore mi batteva forte a causa dell'ansia. L'ansia per l'ignoto, l'ansia di dover mentire o comunque omettere all'uomo che avevo al mio fianco riguardo ad un incontro con... con sua madre.
«Aria?». Mi chiamò Trixie. La sentivo lontana, come se mi stesse parlando a distanza di kilometri, quando in realtà era nella stessa stanza in cui mi trovavo io. «Aria, tutto bene? Che voleva quella donna?».
«Io...». Cercai di parlare, senza riuscirci. Avevo lo sguardo fisso nel vuoto mentre gli ingranaggi del mio cervello giravano, giravano e rigiravano, provando a comprendere e a trovare risposte che però, da sola, non potevo darmi. «Io devo andare». All'improvviso ripresi conoscenza, come se qualcuno avesse premuto un bottone sul mio corpo facendolo rivivere e dandogli la forza di muoversi. Mi sfilai il grembiule verde della pasticceria e tirai fuori il cellulare dalla tasca posteriore dei jeans. Sul display apparve un messaggio di un numero non memorizzato. Elizabeth. Come promesso, mi aveva inviato la posizione che subito aprii per controllare. Si trattava di un bar a cinque minuti a piedi da qui. Fantastico. Almeno non avrei dovuto prendere la macchina.
«Dove devi andare?». Insistette Trixie con lo sguardo corrucciato.
«Ti spiegherò tutto dopo. Devo proprio scappare, adesso». La superai, uscendo dalla cucina per recuperare felpa e borsa.
«Aria, mi stai preoccupando».
«Sta' tranquilla. Davvero». Mi voltai verso di lei e le presi le mani, cercando di calmarla e di infonderle quella sicurezza che in realtà, in quel momento, non mi apparteneva per niente. «Ti chiedo solo un favore. Se Kade chiama, digli che sono impegnata. Non gli dire che sono uscita».
«Ma cosa stai dicendo? Sicura che vada tutto bene?». Annuii, comprendendo a pieno la sua confusione, ma sperando che rispettasse la mia richiesta.
«Sì. Fidati di me. Non ci metterò molto!». Le diedi le spalle, scendendo lo scalino e lasciandola sola dietro al bancone.
«E se invece di chiamare, si presenta qui? Cosa faccio in quel caso?». Mi domandò, alzando il tono di voce per farsi sentire sopra le voci dei clienti che, seduti al tavolo, mangiavano e chiacchieravano tranquillamente, senza quasi accorgersi di noi.
«Inventati qualcosa!». Fu quella l'ultima cosa che dissi prima di dileguarmi. Mi dispiaceva mollare Trixie in quel modo, ma una piccola parte di me – quella più pazza e incosciente – mi convinse a rispettare le parole della mamma di Kade. Forse stavo commettendo un grandissimo errore, chi poteva saperlo? Scoprire la verità, però, mi spinse ad ignorare quel pensiero e ad andare avanti verso un qualcosa a me sconosciuto.
In soli quattro minuti raggiunsi la posizione che mi era stata mandata, seguendo le mappe del telefono. Avevo camminato così velocemente da avere il fiatone, ma non me ne curai. Piuttosto entrai e cominciai a guardarmi intorno, cercando una donna di mezza età dagli occhi azzurri che, ahimè, non trovai. Probabilmente non era ancora arrivata.
«Posso aiutarla, signora?». Mi chiese un cameriere, avvicinandosi a me. Non badai al fatto che mi avesse dato della signora e gli domandai se vi era la possibilità di accomodarsi ad un tavolo. Lui mi sorrise cordialmente e mi invitò a sceglierne uno qualsiasi.
«Grazie». Gli dissi. «Devo incontrarmi con una persona quindi aspetterò che arrivi per ordinare».
«Non c'è nessun problema. Prego». Mi feci strada da sola per i tavoli, scegliendone uno in fondo, un po' appartato, lontano dalle vetrate attraverso le quali si poteva intravedere l'interno. Date le circostanze, era meglio non esporsi troppo e non farsi notare.
Mi accomodai su una poltroncina bianca prima di posare la borsa sulla seduta al mio fianco. Avevo le spalle rivolte verso il muro e lo sguardo fisso sulla porta, in attesa che Elizabeth facesse il suo ingresso. Ero arrivata molto prima rispetto all'orario indicato da lei, ma non me ne importava. Incrociai le braccia e cominciai a mordermi l'unghia del pollice in un chiaro segno di agitazione. Per cercare di distrarmi, presi il telefono e controllai se mi fosse arrivato qualcosa. Da lei nessun messaggio e, per mia fortuna, neanche da Kade. Spero che non mi contatti neanche dopo, non vorrei che si preoccupasse o sospettasse che...
«Ciao, Aria». Una voce interruppe il flusso dei miei pensieri. Alzai lo sguardo dal display del cellulare e lo puntai sulla donna che avevo di fronte. Elizabeth indossava un tailleur beige molto elegante, accompagnato da un trench dello stesso colore. Appesa al braccio aveva una borsetta bianca, perfettamente in tinta con le poltroncine del bar. Dopo avermi salutata, si tolse elegantemente gli occhiali da sole mostrandomi così i suoi occhi azzurri che non tanto mi ricordavano quelli del figlio.
«Salve, Elizabeth». La salutai educatamente, senza ricambiare il suo sorriso rigido e gelido.
«Devo presentarti una persona». Non mi diede il tempo di metabolizzare ciò che aveva appena detto che si spostò, permettendomi di vedere un uomo che ancora non avevo notato.
«Signorina Green». Disse lui, porgendomi poi la sua mano. «Avvocato Louis Lechter, piacere di conoscerla». Si presentò ed io rimasi interdetta con un groviglio di pensieri che si intrecciavano tra loro senza trovare un accordo, incapaci di produrre riflessioni di senso compiuto.
Trovando, da qualche parte, uno spiraglio di forza, allungai il braccio per stringere la mano di quell'uomo. Non parlai. Era inutile sprecare fiato dato che, a quanto pareva, l'avvocato era già a conoscenza del mio nome. Prese posto di fianco a Elizabeth e poggiò i gomiti sul tavolo in una posa formale e imperiosa. Indossava un completo tipico della sua professione, aveva i capelli pettinati alla perfezione e gli occhi scuri a formare uno sguardo che, con una sola occhiata, era capace di fulminarti e studiarti allo stesso tempo.
«Desideri qualcosa? Un caffè? Cappuccino?». Mi chiese Elizabeth. Sicuramente un bicchiere di vino mi avrebbe più che aiutata, ma decisi di rimanere leggera e di fare la brava.
«Una bottiglietta d'acqua è sufficiente, grazie». Avevo bisogno di riprendermi o non sarei stata capace di assorbire tutto quello che aveva – anzi, che avevano – da dirmi.
Ascoltai Elizabeth ordinare al cameriere due caffè per loro e una bottiglietta d'acqua per me. Aspettammo che l'ordine ci venisse servito prima di cominciare una vera e propria conversazione.
«Mi dispiace averti fatta venire qui in tutta fretta, Aria, ma non potevo aspettare». Si spiegò Elizabeth. L'uomo al suo fianco non accennò alcuna espressione. Rimase immobile, con lo sguardo fisso verso di me ad osservare ogni mia mossa.
«Non fa niente. Ora sono qui, comunque. La ascolto». Cercai di arrivare al dunque, non capendo il perché di tutta quella urgenza. Per non parlare poi del fatto che ci fosse anche un avvocato con noi.
«Già...». Elizabeth sospirò, finendo in un sorso il suo caffè e incrociando le mani sul tavolo. «Prima di iniziare, dovresti vedere una cosa». L'istinto fu quello di alzare gli occhi al cielo, stanca di tutte quelle premesse, ma resistetti, contai fino a dieci e attesi. La madre di Kade voltò la testa verso l'uomo al suo fianco e gli fece un cenno come a dire "è arrivato il momento". Louis Lechter si diede subito da fare, afferrò la sua valigetta nera, la aprì e tirò fuori un foglio che, con precisione, posizionò di fronte ai miei occhi.
«Cos'è?». Chiesi subito, senza sprecare energie per leggere.
«Un accordo di riservatezza». Rispose Elizabeth. «Se vuoi delle risposte dovrai firmarlo, per proteggere me stessa ma, soprattutto, mio figlio. Una volta firmato, sarai obbligata a non farne parola con nessuno. E quando dicono nessuno, Aria, intendo proprio nessuno. Nemmeno la persona di cui più ti fidi al mondo». Si prese una pausa, poi proseguì. «Se violerai questo accordo, sarai costretta a pagare un'immensa somma di denaro che neanche in dieci anni di lavoro riusciresti a raccogliere, quindi... A te la scelta». I miei occhi si fissarono in basso, sul foglio che mi era stato messo di fronte. Non lessi una parola di quello che c'era scritto. Mi bastò solo guardare la cifra di cui aveva parlato Elizabeth – composta da talmente tanti zeri da non riuscire a contarli – per crederle. Un accordo di riservatezza... Era così necessario? Ciò di cui mi doveva parlare era così... riservato? Io non ci stavo capendo più niente. L'emicrania cominciava a farsi sentire, tanto che fui costretta a massaggiarmi le tempie con le dita per cercare di placarla e di placarmi a mia volta.
«Perdonami se sono parecchio confusa, Elizabeth. La mia domanda è molto semplice. C'è davvero bisogno di tutte queste precauzioni?».
«Assolutamente sì». Rispose subito, senza togliermi gli occhi di dosso.
«Ma perché? Perché Kade non ne deve sapere nulla? Firmerò questo stupido accordo se lo ritieni così necessario, ma voglio sapere il motivo per il quale dovrei mentire a tuo figlio».
«Perché andremo a parlare di una cosa che riguarda proprio lui, Aria. Mi sembra abbastanza ovvio». Viste le sue frasi criptiche, non sembrava tanto ovvio. Ad ogni modo, il mal di testa quasi sparì e la mia attenzione venne rivolta interamente a quella donna che, a piccoli passi, cominciava a darmi qualche informazione.
Elizabeth, vedendomi particolarmente interessata, mi porse una penna incitandomi a firmare. Io la presi in mano, ma aspettai. Non ero ancora convinta al massimo.
«È per il suo bene?». Domandai, dimenticandomi della presenza dell'avvocato al suo fianco che stava assistendo a tutto.
«Non ti seguo». Ribatté.
«Quello che stiamo facendo... Quello che mi dirai... È per il bene di Kade? Se mi assicuri questo, allora firmerò, altrimenti non riuscirò a mentirgli o a non fargli parola del nostro incontro». Chiarii le mie intenzioni. In risposta, Elizabeth mi guardò intensamente, come se stesse valutando le mie parole o, addirittura, il mio rapporto con il figlio.
«Certo, Aria. Ho basato la mia intera vita sul bene dei miei figli». Lo disse con una serietà tale che mi spinse a crederle. Soppesai le sue parole, studiai il suo sguardo – dal quale non traspariva alcuna emozione – e poi spostai gli occhi sull'avvocato. Riflettei su ciò che stavo per fare. Mi chiesi se fosse la cosa giusta, se stessi agendo a fin di bene, anche se non potevo saperlo con certezza. L'unica cosa che potevo fare era fidarmi della donna che avevo di fronte, nonché madre del mio uomo, e ascoltare le sue rilevazioni.
Presi la penna e firmai. Per farlo, dovetti spengere un attimo il cervello e obbligare il mio corpo a trascrivere Aria Green su quel maledettissimo foglio. Elizabeth annuì come a dire "hai fatto la cosa giusta". L'avvocato, invece, si mosse subito per riprendersi l'accordo siglato e rimetterlo nella valigetta.
«Allora?». Esclamai. «Adesso che ho firmato, la ascolto». Mi tirai indietro, poggiandomi comodamente sullo schienale, e aspettai. Accavallai le gambe, per evitare che quella destra continuasse a saltellare in segno d'ansia, e concentrai tutta la mia attenzione su Elizabeth.
«Cominciare a parlarne è... difficile». Disse lei, quasi esitando.
«Perché?». Mi venne da chiederle.
«Perché non so da dove iniziare». Ammise sinceramente.
«Ci provi». La spronai. Sentii il cuore battere forte, come se lui fosse già a conoscenza di quello che stavo per sapere, ma cercai di ignorarlo. Così come ignorai la presenza del signor Lechter che seguiva attentamente il nostro discorso.
«Va bene». Elizabeth spostò lo sguardo in basso, concentrandosi sulle sue mani intrecciate sopra il tavolo, e rimase in silenzio. Non riuscii a quantificare il tempo in cui restò così perché sembrò quasi un'eternità. Quando finalmente parlò, non mi parve vero. «Kade ti ha mai parlato dei suoi problemi di...».
«Gestione della rabbia?». La interruppi, vedendola un po' in difficoltà. «Sì, me ne ha parlato».
«Bene. Non ne parla mai con nessuno, se non con le persone a lui più care, quindi presumo che tu sia molto importante per lui». A quell'affermazione decisi di non rispondere. Dentro di me sorrisi, grata di considerarmi speciale per Kade, ma all'esterno rimasi impassibile e in attesa di un continuo. «Vorrei partire proprio da questo. Come ben saprai, mio figlio iniziò ad avere problemi molto presto, tra i nove e i dieci anni circa». Si fermò. Così facendo, non saremmo arrivate tanto lontano, quindi pregai che si desse una mossa, o sarei impazzita per l'agitazione. «All'inizio non demmo molto peso alla cosa, associandola ad un semplice tratto comportamentale che, secondo noi, sarebbe scomparso col tempo. Ma non fu così. Gli eccessi di rabbia aumentarono, si fecero sempre più frequenti, sia a scuola che a casa. Un giorno, Kade... Lui... Insomma, ci fu un brutto incidente con Chloe, così Raymond decise di prendere dei provvedimenti. Mio figlio intraprese un percorso psicologico che durò anni, Aria. Anni». Non mi stupì ascoltare tutte quelle cose dato che ne ero già a conoscenza.
«So già tutta la storia, Elizabeth».
«Non proprio tutta». La sua risposta fu secca, seria, autorevole. La preoccupazione cominciò a salire, così chiusi la bocca e lasciai che parlasse. «Nel giorno del suo sedicesimo compleanno, avrei dovuto confessare a Kade una cosa di grande importanza. Per tanto tempo, io e Raymond abbiamo custodito un segreto che ci imponemmo di rivelargli al raggiungimento di quella che noi consideravamo la giusta età. Non prima».
«Ho la sensazione che ci sia un "ma", adesso». Elizabeth abbassò di nuovo lo sguardo, quasi provasse vergogna.
«Ma...». Disse, confermando la mia ipotesi. «Non andò così. A sedici anni continuava ad andare dalla psicologa. Delle volte migliorava mentre, altre volte, reagiva come se non avesse fatto alcun passo avanti, come se avesse annullato tutti quei progressi che invece sembrava aver portato a termine. Ed io non ebbi il coraggio di dirglielo, Aria. Confessargli quella cosa... Rivelargli quel segreto... Non avrebbe fatto altro che mandarlo in crisi l'ennesima volta ed io non volevo. Non potevo. Capisci?». No, non capivo per niente. Di cosa stava parlando? A quale segreto si riferiva? «Parlai anche con la sua psicologa. Inizialmente mi disse che avrei dovuto parlargliene lo stesso ma poi, non notando in lui grandi miglioramenti, mi consigliò di aspettare. Di attendere il momento giusto». Si bloccò un'altra volta, facendo un bel respiro profondo prima di proseguire. «Ma quel momento non arrivò mai. Kade continuò a crescere e i nostri rapporti con lui non fecero altro che peggiorare. Non potevo allontanarlo da me, non più di quanto già non lo fosse. Raymond mi convinse a rimanere in silenzio, ma adesso... Adesso non ho altra scelta».
«Cosa intende, Elizabeth? Qual è questo segreto?». Mi protesi in avanti, non riuscendo più a star ferma o a rimanere calma e tranquilla.
«Raymond...». Si fermò per prendere un altro respiro. Non abbassò lo sguardo, piuttosto mi guardò dritta negli occhi. Non aveva paura, almeno così sembrava. Non era indecisa se dirlo o meno, era quella l'impressione che dava. Semplicemente non riusciva a trovare le parole giuste per confessare una cosa che, da quel che avevo capito, Kade non sapeva.
«Cosa? Raymond, cosa?». Insistetti, spingendola un po' malamente a confidarsi.
Le mani cominciarono a sudarmi, il cuore a palpitare, la mente a esplodere.
Respirai affannosamente, cercando aria che però non trovavo. Attorno a me il bar scomparve e, con quello, anche l'avvocato che mi sedeva di fronte. L'unica cosa che riuscivo a vedere era Elizabeth, con le sue iridi azzurre fisse nelle mie. L'unica cosa che riuscivo a sentire era la sua voce, che ancora non rivelava nulla.
Per un attimo, pensai a Kade. A cosa stesse facendo, se stesse lavorando oppure se mi stesse cercando. Il mio pensiero, per un attimo, fu riservato a lui e a lui soltanto, e un po' riuscii a tranquillizzarmi. Poi, però, l'immagine di Kade scomparve nella mia testa, spazzata via da alcune parole. Parole che, dopo un tempo infinito, uscirono dalla bocca di sua madre.
«Raymond non è il vero padre di mio figlio».

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