Capitolo XX

298 16 3
                                    

Da brava codarda quale ero, evitai Kade per tutta la settimana.
Vigliacca.
Debole.
Meschina.
Vile.
Pusillanime.
Fragile.
Bugiarda.
Quelli erano solo alcuni degli insulti che avevo rivolto a me stessa tutti i giorni, per tutto il giorno, senza smettere mai. Soprattutto l'ultimo. Bugiarda. E lo ero davvero, perché avevo continuato a mentire e mentire, non perché volessi, ma perché ero obbligata.
Per evitare Kade avevo inventato ogni scusa possibile, ma la principale rimaneva quella in cui gli dicevo che ero stanca, che il lavoro mi stava distruggendo e che dovevo pensare a Tommy. Lui ci provava a convincermi ad uscire, imperterrito, ma io, irremovibile, rifiutavo.
Quando chiamava durante il giorno, quasi mai rispondevo. In pasticceria, vivevo col terrore che potesse venire a trovarmi, cogliendomi alla sprovvista. Ero sicura che se mi avesse guardata negli occhi, anche solo per un istante, ci avrebbe colto dentro tutta la verità, perché nelle mie iridi – ormai di un verde spento – si leggevano la paura, l'angoscia, la sofferenza.
Mi concedevo di rispondergli solo la sera quando ero a casa, già sotto le coperte, con la sicurezza che non l'avrei potuto vedere e che avremmo interagito unicamente per telefono.
In chiamata parlavamo delle nostre giornate, di ciò che avevamo fatto, di quanto ci mancavamo l'un l'altra. Ma nel mentre che dalla mia bocca fuoriuscivano un susseguirsi di parole sconnesse, la mia mente vagava altrove, si sintonizzava su quel famoso incontro con la madre, su quelle tremende rivelazioni, influenzando il mio stato d'animo e, di conseguenza, il mio rapporto con lui.
Un'altra cosa che mi torturava profondamente era quella lettera. Non l'avevo ancora letta, no. Leggerla avrebbe significato tradire ulteriormente Kade ed io non me la sentivo di farlo. Non ne avevo il diritto. Dove potevo trovare il coraggio di aprirla, di scoprire cosa ci fosse scritto, di introdurmi in qualcosa di probabilmente molto intimo, proveniente da un padre – quel vero padre – che il mio uomo ancora non aveva conosciuto? No. Era totalmente escluso. Proprio per quel motivo, l'avevo nascosta nella tasca interna della mia borsa, custodendola segretamente per giorni, senza più tirarla fuori, per evitare di cedere alla tentazione e alla curiosità.
Dopo una settimana di lavoro e tormenti, arrivò sabato. Come al solito, quella mattina avevo portato Tommy da Cooper e mi ero diretta in pasticceria. Prima di scendere dalla macchina avevo indossato l'armatura – fatta di finti sorrisi ed enormi bugie – e avevo raggiunto Trixie a cui era toccata l'apertura. Per mia grande fortuna, ero riuscita a superarla e ad entrare in cucina senza ricevere domande, dato che era impegnata a servire un cliente. Ora mi trovavo proprio lì, a sfornare pasticcini su pasticcini, sfogando le mie ansie e i miei dispiaceri su quelle povere prelibatezze e...
«Ora basta, Aria. Ho resistito fin troppo a lungo». Trixie fece il suo ingresso in cucina, vestita in perfetto stile Green's Bakery, interrompendo violentemente i miei pensieri. Si stava asciugando le mani con un canavaccio, lo stesso che sbatté sul ripiano dove stavo finendo di decorare i cookies con le gocce di cioccolato. Mi corrucciai, fingendo di non sapere a cosa si riferisse, e la guardai. Aveva le mani puntate sui fianchi mentre mi fulminava col suo sguardo tagliente.
«Che intendi?». Le chiesi, puntando i miei occhi sui biscotti, sul cioccolato, sulla teglia, sulle mie mani, insomma... su tutto tranne che su di lei.
«Che intendo? Sei strana da giorni. Pensi che non me ne sia resa conto? Io ti conosco bene, amica mia, e so che qualche rotellina nel tuo cervello non sta girando bene. Che ti prende, eh?». Cercò il mio sguardo con insistenza, ma io non glielo concedetti. Mi concentrai esclusivamente su ciò che stavo facendo e tentai di convincerla del contrario.
«Ma che dici? Non ho niente. Sto bene, davvero. Non devi preoccuparti». Nulla di tutto quello era vero, ma era meglio non pensarci.
«Mi prendi per il culo? Stai ignorando Kade da giorni. Ha chiamato addirittura me, chiedendomi se fosse successo qualcosa perché ti sentiva strana!».
«Ha chiamato te? E tu cosa gli hai detto?». Quelle domande uscirono fuori con troppa velocità, foga ed interesse, spazzando via tutti i dubbi di Trixie. Beccata.
«Gli ho detto che sei solo stanca, la scusa che continui a rifilare anche a me. Ora che ti ho parato il culo, però, pretendo delle spiegazioni!». Sospirai, abbandonando i cookies a loro stessi e concentrandomi sulla mia migliore amica. Per la prima volta, dopo giorni, le mostrai la tristezza che portavo negli occhi, la stessa che spegneva il colore delle mie iridi una volta lucenti e bellissime.
«Comunque il lavoro ci sta dando parecchio da fare e...».
«Aria!». Mi rimproverò lei mentre tentavo di giustificarmi per l'ennesima volta. «La verità!».
«Non posso dirti la verità, Trixie». Sussurrai, abbassando di poco l'armatura che ancora mi ostinavo ad indossare.
«Cosa vuol dire questo?». Indagò, avvicinandosi a me.
«Io...». Tentennai. Cosa potevo dirle? «Io... Vorrei tanto parlartene, te lo giuro. Ma non posso». La mia voce sconfitta parve colpirla nel profondo perché, improvvisamente, cambiò registro e si addolcì.
«È successo qualcosa quel giorno, vero?».
«Quale giorno?».
«Martedì. Dopo quella stramba chiamata sei scappata via e quando sei tornata hai blaterato qualcosa riguardo ad una stupida sorpresa. Chi era quella donna, Aria?». Per lei, Elizabeth era una semplice signora che mi stava aiutando ad organizzare la famosissima finta sorpresa per Kade. Quante balle che avevo raccontato.
«La mamma di Kade». Confessai in un mormorio, incapace di dire altre bugie. D'altronde, non stavo ancora violando nessun accordo. E non l'avrei neanche fatto.
«Ti sei vista con lei, quindi?». Annuii, abbassando la testa e fissando la punta delle mie scarpe, vergognandomi di me stessa. «Ti ha detto qualcosa di sconcertante?». Annuii un'altra volta. «Lui lo sa?». Scossi la testa.
«E non può saperlo». Aggiunsi. «Promettimi che non glielo dirai». Trixie si fece ancora più vicina, posandomi le mani sulle spalle e trasmettendomi, attraverso quel suo tocco, un po' di forza.
«Certo che non glielo dirò, Aria. Sono o non sono la tua migliore amica? Nulla uscirà dalla mia bocca, se tu non lo vorrai». Non mi meritavo il suo rispetto, la sua dedizione, il suo sostegno. Non mi meritavo nulla di tutto ciò, perché non avevo fatto altro che mentirle, buttando al cesso anni e anni di amicizia solo per uno stupidissimo accordo.
«Mi dispiace, Trixie. Avrei voluto tanto parlarti, raccontarti tutto, sfogarmi con te, ma lei me lo ha impedito e io... Sto una merda. Non ho fatto altro che dirti bugie e ignorarti, facendo lo stesso con Kade. Insomma, mi sono comportata malissimo. Sono un'amica schifosa e se ti senti delusa da me lo capisco perfettamente perché...».
«Aria! Dio, frena quella lingua! Ma che diavolo stai dicendo? Io delusa da te? Santo Cielo, vieni qui». Trixie allungò le braccia e mi strinse a sé, unendo il mio corpo al suo e confortandomi col suo calore e le sue carezze sulla schiena. Gli occhi mi si riempirono di lacrime e diventarono rossi per quanto mi stavo sforzando di trattenerle. L'armatura, ormai, era andata a farsi fottere, e con lei anche tutte le bugie, sostituite da semplici omissioni dovute. «Non capisco il motivo per il quale tu ti stia distruggendo in questo modo, ma se non puoi dirmelo lo comprendo. Non sei un'amica schifosa, non pensarlo nemmeno. Sei un'amica meravigliosa, cavolo. Sei mia sorella e non potrai mai deludermi. Cerca di stare tranquilla, okay? La verità verrà a galla. E se hai paura della reazione di Kade, non averne, perché sono sicura che capirà, proprio come ho fatto io». La strinsi forte, dimostrandole la mia gratitudine per quelle parole. Non aveva la minima idea della grande verità di cui stavamo parlando, ma non mi importava, perché il suo conforto mi arrivò lo stesso, dritto al cuore, e mi liberò leggermente da quel peso che stavo portando da giorni sulle spalle.
«Sei la migliore amica del mondo, lo sai?». Le dissi, tenendo la testa poggiata sulla sua spalla.
«Oh, sì che lo so. Sono unica e rara». Sorrisi leggermente, scostandomi per guardarla negli occhi e per farle capire con una sola occhiata quanto le volessi bene. «Comunque, mai fidarsi delle suocere. D'ora in poi sarà il motto della mia vita». Oltre ad un lieve sorriso, Trixie riuscì a strapparmi anche una risata, dandomi un'ulteriore conferma di quanto fosse speciale.
«Lo terrò a mente». Ribattei io.
Dopo aver risolto di poco quella situazione, tornammo al lavoro. Da quel momento in poi, la giornata trascorse tranquillamente. Non ricevetti alcuna chiamata da Kade e la mia mente ne fu felice. Il mio cuore, d'altra parte, soffriva lo stesso, perché anche se non gli avrei mai risposto, mi avrebbe comunque fatto piacere vedere il suo nome apparire sul display.
Quando si fecero le quattro del pomeriggio, mandai via Trixie. La convinsi ad andare a riposarsi, tranquillizzandola e promettendole che avrei pensato io alla chiusura. Quando arrivò l'ora di chiudere i battenti, però, non andai a casa. Non volevo rinchiudermi in quelle quattro mura da sola, a piangere e a disperarmi. Non che in pasticceria avessi tanta compagnia, certo, ma almeno potevo tenermi impegnata in cucina. Nel mio appartamento, invece, non avrei fatto altro che consolarmi con del gelato al pistacchio – che avrei subito smesso di mangiare perché mi avrebbe ricordato Kade – e buttarmi nel letto a interrogarmi sulla vita. Già... Decisamente meglio rimanere qui.
Solo verso le sette, quando vidi il sole cominciare a tramontare e la luce farsi meno accesa e brillante, decisi che era arrivato il momento di dileguarmi. Riordinai la cucina e il bancone, diedi una spazzata all'intero locale, recuperai la borsa e uscii. Nel girare la chiave nella toppa, mi presi un secondo per guardare il mio riflesso sul vetro. Indossavo dei jeans chiari e attillati molto semplici, accompagnati da un maglioncino di cotone bianco che mi proteggeva dalla leggera brezza della sera. I capelli mi cadevano sulle spalle, risaltando sul colore chiaro del maglione. Non avevo avuto la forza di passare la piastra quindi li avevo lasciati al naturale, leggermente mossi ma non troppo. In generale, il mio aspetto non era poi così male. Il mio viso, invece, era tutto un programma. Ero pallida e anche un po' sciupata, non avendo mangiato molto in quei giorni, e non vi era assolutamente l'accenno di un sorriso o di un'espressione gioiosa o...
«Ehi».
«Oddio!». Sussultai, spaventata da quell'improvvisa voce che mi aveva salutato alle spalle. Non fu necessario girarmi per capire di chi si trattasse, avendo già riconosciuto la persona in questione.
«Scusa. Non volevo spaventarti». Mi voltai e il paradiso si aprì di fronte ai miei occhi.
Kade portava una felpa con cappuccio firmata Armani. Era completamente nera, ma la scritta bianca Emporio Armani spiccava al centro, occupando gran parte della stoffa, accompagnata anche dal logo a forma di aquila. I jeans scuri gli ricoprivano le gambe, aderendo perfettamente ai suoi muscoli, e il look era poi ultimato da un paio di scarpe da ginnastica molto casual.
Vestito di tutto punto, con la barba appena accennata e i lineamenti del viso pronunciati a conferirgli una virilità unica, si dimostrò essere un'incredibile visione.
Notai un sorriso leggero spuntare sulle sue labbra mentre mi guardava, aspettando probabilmente che dicessi qualcosa, ma dalla mia bocca non uscì nulla. Ero troppo concentrata sulla sua presenza – o meglio, sulla sua tremenda bellezza – e sui pensieri che affollavano la mia testa.
Solo in quel momento, avendolo davanti, mi resi conto di quanto mi fosse mancato. Erano più o meno quattro giorni che non lo vedevo ma, cazzo, sembrava esser passata una vita. Mi persi in quegli occhi, in quelle iridi blu così belle e profonde, del colore dell'oceano, e mi venne quasi da piangere, perché mi ero privata di tutto quello. Mi ero privata di lui, e me ne pentii amaramente.
Presa da un istinto e da un'impulsività incredibili, mi fiondai su quell'uomo, coprendo la poca distanza che ci separava, e lo abbracciai. Gli circondai il collo con le braccia e lo strinsi a me, facendolo leggermente indietreggiare a causa di quel gesto per lui inaspettato.
Con un urgente bisogno di toccarlo ovunque, gli accarezzai la schiena con la mano sinistra mentre, con la destra, affondai le dita nei pochi capelli che aveva in testa. La felpa risultava morbida al tatto e rendeva quell'abbraccio ancor più bello ed emozionante. Avrei preferito averlo pelle contro pelle, tastarlo senza nessun ostacolo tra noi, ma mi accontentai. Dopotutto, già averlo così, era un bel traguardo.
«Mi sei mancata tanto anche tu». Disse Kade, capendo perfettamente quello che stavo provando. Affondò il viso nel mio collo e mi strinse forte, avvolgendomi con le sue braccia grosse e possenti. Il suo profumo inondò le mie narici, ricordandomi un'altra cosa di cui mi ero volontariamente privata.
«Pensavo stessi a casa ma passando ho visto la tua macchina e mi sono fermato. Hai staccato adesso?». Chiese ed io annuii. Non volevo parlare, volevo solo toccarlo, stringerlo, sentirlo. Volevo riprendermi quello che avevo ignorato, recuperare il tempo perso. Volevo riaccendere la luce spenta dei miei occhi anche se, lo sapevo, non ci sarei riuscita così facilmente. Dimenticarsi delle cose che mi erano state dette era impossibile, ma evitare di parlare era una buona idea.
«Vogliamo rimanere così tutta la sera? Perché, per quanto mi riguarda, va benissimo». Riuscii a sorridere un po', mentre lui parlava con la bocca attaccata alla mia pelle, baciandola e mordendola a fasi alterne, facendomi venire i brividi. In risposta, lo strinsi ancora più forte, quasi stritolandolo. Poi feci leva sulle sue spalle e gli circondai la vita con le gambe, fregandomene dei passanti che ci guardavano strano. «Dio, Aria. Ho bisogno di abbracciarti di più. Nel mio letto. Nuda. Voglio sentirti ovunque». Le sue parole mi scaldarono, incendiandomi di una passione che, per giorni, era rimasta nascosta. Sollevai la testa e lo guardai, i palmi sulle sue guance, il volto a pochi millimetri di distanza dal suo.
«Portami via, allora». Sussurrai, proferendo finalmente parola. E lui non se lo fece ripetere due volte. Mi portò via, tenendomi ancora stretta al suo corpo mentre camminava verso la sua macchina. Mi infilò dentro, adagiandomi con cautela sul sedile del passeggero e allacciandomi la cintura, come se fossi una bambina bisognosa di cure e di affetto. In realtà, però, era proprio così.
Non parlai. Per tutto il tragitto feci un discorso a me stessa, obbligando la mia mente a svuotarsi, a non riflettere o ragionare, perché avevo bisogno di stare con Kade nella maniera più spensierata possibile. Avrei lasciato i pensieri per dopo. Avrei riservato la sofferenza per un secondo momento, quando mi sarei ritrovata da sola nella mia stanza, a piangere tutte le lacrime nel mio letto. Ma con lui no. Con lui sarei rimasta me stessa, gli avrei chiesto scusa per averlo evitato e gli avrei donato la parte migliore di me, l'unica parte rimasta viva e accesa, felice e istintiva.
In una decina di minuti raggiungemmo la destinazione. Appena Kade parcheggiò la sua BMW, scesi dalla macchina e mi diressi alla porta. Attesi che lui la aprisse e, una volta dentro, buttai la borsa per terra e lo guardai. Eravamo uno di fronte all'altra. Lui spalle alla porta. Io spalle al salone. Lessi nel suo sguardo una certa indecisione. Probabilmente non sapeva cosa fare, se parlarmi, se offrirmi qualcosa da mangiare, se arrivare direttamente al dunque. Ma io non avevo voglia di conversare, non avevo voglia di mangiare, avevo solo voglia di lui, così decisi per entrambi e mi feci avanti. Un passo, poi un altro.
«Aria, io...».
«No». Lo interruppi subito. Non volevo iniziare una conversazione che non avrei potuto proseguire. Non in quel momento. «Non parlare, Kade». Gli arrivai vicino, vicinissimo. I nostri corpi si sfioravano solo in alcuni punti mentre i nostri occhi erano incatenati gli uni agli altri. Blu contro verde. Verde contro blu. «Baciami. Baciami e basta». Mormorai, quasi soffrendo nel dirlo. Forse mi stavo comportando da egoista. Forse stavo pensando solo a me stessa, a come farmi sentire meglio, a come non sentirmi in colpa, ma me ne fregai. Tutto andò a puttane quando le sue labbra toccarono le mie in un bacio disperato e così tanto atteso. Con gli ultimi brandelli di forza che mi rimanevano in corpo, spinsi il tasto OFF del mio cervello, lasciai i problemi fuori dalla porta e mi dedicai a lui. Solo e unicamente a lui.
Mi beai delle sue mani su di me e della mia lingua a contatto con la sua mentre, insieme, indietreggiavamo verso la camera da letto. Infilai le dita sotto la sua felpa, alzandogliela e strattonandogliela per fare in modo che lui se ne sbarazzasse. E fu così. Quando si sfilò via quel primo ostacolo, io feci lo stesso e mi levai il maglioncino bianco. Poi, guidati dalla stessa passione, ci riunimmo in un abbraccio frettoloso, riprendendo a toccarci come se ne dipendesse la nostra vita.
Dopo aver raggiunto il letto ci liberammo degli altri fastidiosi indumenti. In pochi secondi mi ritrovai con la schiena sul materasso, completamente nuda, e lui sopra, completamente nudo, così come ci eravamo immaginati entrambi. Sentii la sua possente erezione premere sul mio basso ventre, già pronta e dura per me. Sospirai, avvolgendogli la vita con le gambe e spingendomi verso di lui, bramandolo, desiderandolo, anelandolo. Gli morsi il labbro inferiore, cercando di attirarlo al mio corpo. Kade inizialmente me lo permise, poi prese il comandò e cominciò a fare di testa sua. Mi baciò la bocca, poi il collo, poi il seno. Si dedicò ai miei capezzoli, leccandoli e riservandogli le attenzioni che meritavano.
Dopo qualche minuto, ritenendosi soddisfatto del proprio lavoro e di quello che mi stava facendo provare, scese ancor di più. Mi baciò la pancia, poi l'ombelico e poi...
«Dio!». Esclamai quando la sua bocca finì proprio lì, sul mio sesso liscio e chiaro. Kade mi tenne le gambe aperte con le mani mentre, con quella sua fantastica lingua, mi dava piacere. Me la leccò lentamente, soffermandosi più del dovuto sul clitoride, stuzzicandolo e torturandolo. Nel momento in cui i suoi denti strinsero un lembo di pelle in quella zona così delicata non riuscii a trattenermi e urlai, invasa da una passione anormale. Gemetti intensamente, tenendogli la testa ferma proprio su quel punto dove mi stava facendo impazzire.
«Kade... Oh, Kade...».
«Erano settimane che desideravo farlo». Confessò, continuando a muovere la bocca in un modo meraviglioso. Sentendo l'orgasmo farsi sempre più vicino decisi di agire, pronta a dare piacere anche a lui. Mi sollevai, lo presi per le spalle e gli chiesi di sdraiarsi. Kade obbedì ed io gli montai a cavalcioni, pronta a dominarlo come lui aveva fatto con me. Presi il suo membro tra le mani e lo indirizzai verso la mia apertura.
«Aria... Cazzo!». Kade imprecò quando lo impalai in un solo e unico movimento. Lo sentii dentro in tutta la sua grandezza e imponenza. A seguito di quella spinta violenta mi ci volle un attimo di pausa per riprendere fiato e per abituarmi alla sua presenza. Quando ripresi coscienza, cominciai a muovermi lentamente, flettendo le ginocchia per andare su e giù, giù e su.
I suoi gemiti si mischiarono ai miei, diventando sempre più intensi e pronunciati. Kade posò le mani sui miei fianchi e mi aiutò a trovare il ritmo giusto, il tempo perfetto per incastrare i nostri corpi in un legame vigoroso e speciale.
La situazione, poi, si ribaltò. Kade riprese il comando, mi rigirò sul letto e cominciò ad affondare più audacemente, sostituendo i gemiti con le urla. E così venimmo, raggiungendo quasi nello stesso momento l'apice del piacere più intenso della mia intera esistenza.
Quando l'orgasmo si affievolì, sentii il mio uomo cadermi addosso. I nostri corpi sudati e stanchi aderirono perfettamente, il suo sopra, il mio sotto. Lo abbracciai, grata che il suo peso coprisse un po' quello che invece portavo sulle spalle e nel cuore da giorni.
«Tutto bene?». Mi chiese lui, spostandosi da un lato e tenendomi stretta col braccio destro. Avevamo le teste poggiate sullo stesso cuscino mentre ci guardavamo, naso contro naso, fronte contro fronte.
«Sì». Gli risposi, senza aggiungere altro. Gli posai una mano sulla guancia e mi godetti quel tocco. Caldo, sincero, amorevole.
«Aria, cosa c'è?». Mormorò Kade. Io rimasi in silenzio, attendendo che si spiegasse meglio. «Capisco che sei stata occupata con il lavoro questa settimana, ma sento che c'è dell'altro. Perché sei così strana? Perché mi hai evitato?». Me le sarei dovute aspettare, quelle domande, ma presa com'ero dalla situazione, ero realmente riuscita a spegnere la mente e a godermi l'attimo. In quel momento, però, la realtà venne fuori, colpendomi in pieno petto, attirandomi a sé e ricordandomi la verità, quella nascosta, quella crudele, quella indelebile.
«Non ti ho evitato. Mi dispiace se hai pensato questo, ma... Non c'è nient'altro, davvero». E finsi. Finsi di non sapere quello che, in realtà, avevo inciso nella mente. Finsi di star bene, mentendogli per l'ennesima volta. Avevo perso il conto delle bugie che gli avevo detto, o forse fingevo di averlo perso, perché non volevo tenere a mente un numero che sapevo sarebbe aumentato. E aumentato. E aumentato.
«E allora dov'è finita la mia bellissima ragazza?». Quella richiesta fu la più inaspettata di tutte. I suoi occhi color del cielo mi scavarono dentro cercando parole non dette, verità nascoste, segreti necessari. Decisi di assecondare quel suo sguardo, senza sottrarmi alla sua vista, e gli risposi.
«È proprio qui. Con te». Sussurrai, portando il viso ancora più vicino al suo. Gli sfiorai le labbra e, rimanendo su di esse, dissi: «Non è mai andata via».
«Io ti credo, Aria. Mi fido cecamente di te e sono sicuro che, se mai dovessi dirmi qualcosa, lo faresti». Il mio cuore perse un battito nel momento in cui Kade mi dichiarò la sua fiducia, perché sapevo di non meritarla. Mi sentivo così impotente, così sbagliata... E non avevo idea di come affrontare un discorso che non potevo rivelare.
«Sei mai stato obbligato a mantenere un segreto?». La mia domanda venne fuori spontaneamente. Mi tirai su dal cuscino e mi misi a pancia in sotto, poggiandomi coi gomiti sul materasso per guardarlo meglio.
«Non capisco dove vuoi arrivare». Ribatté lui, giustamente.
«Rispondi e basta».
«Non... Non credo che "obbligato" sia la parola giusta, ma... Una volta Chloe marinò la scuola ed io la beccai. Aveva una paura fottuta di farsi scoprire da nostro padre, così mi chiese di non dire nulla ed io lo feci. Questo può considerarsi un bel segreto?». Cercai di ignorare le parole "nostro padre" e passai oltre.
«Beh, ce lo facciamo andare bene». Sorrisi leggermente, contagiando anche lui. «I tuoi l'hanno mai saputo?».
«Non penso. Io non ho mai detto niente e neanche Chloe. Dovevamo?». Chiese, non sapendo dove stessi andando a parare.
«No, no! Però possiamo prenderlo come esempio». Lo guardai, attirando la sua attenzione su di me e sul mio discorso.
«Ti ascolto».
«Bene. Immagina la situazione... Hai appena saputo che Chloe ha marinato la scuola e lei ti ha chiesto di mantenere il segreto. Se tu andassi da tuo padre o tua madre e gli dicessi cosa ha fatto tua sorella, come pensi che la prenderebbero?». Ci ragionò qualche secondo, poi rispose.
«Credo non molto bene. E comunque, non avrei mai fatto la spia».
«Ovviamente. Ma concentriamoci sulla prima parte. Hai detto: "non molto bene". E ora immagina questo. Se Chloe andasse dai genitori e confessasse ciò che ha fatto, ignorando le conseguenze che comporterebbe quella sua rivelazione, sicuramente loro la prenderebbero meglio. O sbaglio?».
«Mh... Sicuramente apprezzerebbero la sua sincerità, quindi sì, sono d'accordo con te». Disse Kade, tracciando con un dito il mio avambraccio in una carezza delicata e sensuale. «Cosa vuoi dire con tutto questo, però?».
«Io voglio dire che...». Non sapevo neanche io cosa mi stesse dicendo la testa in quel momento, ma guardare quelle due pozze blu che erano i suoi occhi mi diede l'ispirazione. «Voglio dire che, delle volte, i segreti prendono un valore e un significato diversi a seconda delle persone che hai davanti e che si prendono la briga di confessarteli. Questo, ovviamente, non vale per tutti i segreti, ma... Credo sia importante rispettare certe rivelazioni, perché solo determinate persone riusciranno a raccontare la vera realtà dei fatti. Non bisogna mai parlare per altri, non bisogna mai sottrarre ad altri la possibilità di esporre la loro versione. Sarebbe ingiusto e disonesto. Le persone narreranno sempre le stesse storie in infiniti modi diversi, poi spetta ad ognuno di noi scegliere la versione che più ci rappresenta e quella alla quale credere». Kade mi guardò intensamente e rimase in silenzio. Passarono talmente tanti secondi che mi chiesi se avessi detto qualcosa di sbagliato. Credeva che avessi un segreto, ora? Merda... Sarei dovuta rimanere zitta invece di fare discorsi stupidamente filosofici spuntati fuori dal nulla.
«È tornata, allora». Si limitò a dire, sorridendo in una maniera incredibile.
«È tornata chi?».
«La mia bellissima ragazza». Sussurrò prima di ribaltarmi sul letto. Scacciai un urletto per quel repentino cambio di posizione, ma fu piacevole sentire di nuovo il suo corpo caldo sopra al mio. «Quella intelligente, quella divertente, quella provocatrice e attraente e pensierosa e folle e meravigliosa e testarda e sorprendente e incantevole. La mia bellissima ragazza. Quella che...».
«Quella che...?».
«Quella che amo». Tre parole. Tre brevi e semplice parole formarono una frase che mi colpì in pieno petto.
Quella che amo. Come potevano delle parole causare tanto turbamento?
Quella che amo. Come potevano delle parole spazzare via tutti i problemi, le sofferenze, i pensieri?
Quella che amo. Come potevano delle parole, le sue parole, non arrivarmi dritte al cuore?
«C-cosa hai detto?». Balbettai, incapace di fare ogni altra cosa, eccetto guardarlo.
«Ho detto che ti amo, Aria Green. E non m'importa se è troppo presto. Non m'importa cosa dirai, cosa penserai o se ricambierai. So che ti amo perché ti tengo nella mia mente tutto il giorno, tutti i giorni. Amo il tuo modo di fare, la tua persona. Amo la mamma che sei. Amo il modo in cui guardi Tommy, come se fosse la tua unica ragione di vita. Amo quando ti arrabbi e mi guardi male, cercando di farmi capire il tuo punto di vista. Amo quando mi provochi e, Dio... mi fai così incazzare, ma amo vedere i tuoi occhi brillare di una luce diversa, dispettosa. Amo la forza che hai e che ti contraddistingue. Amo quando ti impunti, quando prendi decisioni per conto tuo anche solo per il gusto di contrastarmi. Amo quando ridi, quando piangi, quando sogni. Amo quando ti ecciti, quando mi dai piacere, quando vieni tra le mie mani, solo per me, solo con il mio tocco. Amo quando mi salti addosso, quando mi abbracci perché ti sono mancato, proprio come hai fatto oggi. Perché anche tu mi manchi quando sei lontana, quando non sei al mio fianco. Ti amo, Aria, e un giorno lo urlerò al mondo intero, ma adesso ho bisogno di dirlo solo a te. Te lo sussurrerò all'orecchio, quando dormirai. Te lo ripeterò continuamente, quando ti farò mia. E lo griderò a tutti, quando saremo pronti».
Se usate nel modo giusto, le parole possono emozionare, possono far battere il cuore ed entusiasmare. Sentendo quello che Kade mi stava rivelando, il mio, di cuore, intraprese una corsa folle, riaccendendosi e palpitando impazzito. Dai miei occhi cominciarono a scendere lacrime, non tristi, non sofferte, non malinconiche. Lacrime di felicità. Gioia. Stupore. Amore.
Mi protesi verso di lui, abbracciandolo e aggrappandomi al suo corpo.
Le nostre pelli si unirono, prese dalla stessa voglia di toccarsi.
Le nostre labbra si sfiorarono, attratte dalla stessa passione.
I nostri occhi si incatenarono, trovandosi nello stesso momento.
E i nostri cuori pulsarono, colpiti dalla stessa incredibile emozione.
«Anche io ti amo, Kade Acker».

Permettimi di amartiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora