Capitolo XXIV

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«Kade». Sussurrai, ripetendolo per la seconda volta.
Non è possibile.
Mi portai una mano al petto e lo sentii alzarsi e abbassarsi freneticamente. Era l'ansia? La sorpresa? O la consapevolezza di esser pazza?
Non è possibile.
Mi strofinai gli occhi con le dita tremanti ma la sua figura rimase lì, di fronte a me, continuando a fissarmi allo stesso modo in cui lo stavo facendo io.
Non è possibile.
Dato lo shock, mi presi del tempo per studiarlo. Indossava una maglietta bianca a maniche corte – senza scritte o figure, solo bianca – accompagnata da un pantalone della tuta grigio, anch'esso semplice e anonimo. I capelli, quei capelli un tempo rasati, ben curati e perfetti, erano ora più lunghi, trasandati e... bellissimi. La barba scura gli colorava le guance, donandogli un tocco ancora più disordinato, ma sempre virile e attraente.
Sembrava non essersi preso molta cura di lui. Nonostante quello, però, riusciva a rimanere...
Sveglia, Aria! Parla!
La mia mente, ogni tanto utile a qualcosa, mi obbligò a risvegliarmi, invitandomi a parlare. Scossi leggermente la testa e incatenai il mio sguardo al suo. Vecchie emozioni riaffiorarono ma decisi di ignorarle, o aprire bocca sarebbe stato impossibile.
«Cosa ci fai qui?». Fu quello che riuscii a dire.
Kade non rispose subito. Mi guardò, mi guardò e mi riguardò, chiedendosi probabilmente se fossi reale. Ed io mi persi, dopo tanto tempo, come tante altre volte era successo, nei suoi occhi. Quegli occhi color del cielo, del mare, dell'oceano, ancora un po' tetri e spenti, ma sempre stupendi. Sentii il mio cuore ridotto in frantumi fare un saltello, piccolo e appena accennato, leggermente rinvigorito dal calore di quello sguardo che, ahimè, mi era mancato.
«Lo dovrei chiedere a te, dato che questa è una delle mie proprietà». Non potei bearmi del suono della sua voce, così intenso e roco, perché lo sgomento di quella frase mi investì come un fiume in piena.
«Cosa?». Chiesi, sbigottita. «No...». Sussurrai. «Non è possibile!». Dissi, alzando la voce.
Volendo confermare i miei fatti, mi voltai e frugai nella borsa per trovare quel maledetto foglio. Gli avrei mostrato le mie prove, perché non ero pazza. Qualcosa non tornava e le possibilità erano due: o avevo sbagliato casa, oppure stavo veramente avendo le allucinazioni.
«Eccolo!». Pescai il foglio della mail dalla tasca interna e glielo mostrai. Era un po' stropicciato, ma si leggeva benissimo. «Questa è la prenotazione. Guarda!». Glielo passai e lui lo prese, stando attento a non sfiorarmi. Lesse con attenzione ciò che c'era scritto prima di riportare lo sguardo su di me, facendomi quasi sussultare.
«Non esiste nessuna Dream's House, Aria». E il mio cuore fece una capriola, nel sentire il mio nome pronunciato da lui. O forse l'avevo solo immaginato? «Questa prenotazione non è valida. L'indirizzo è giusto ma la casa non è... prenotabile. I contatti in fondo alla pagina sono chiaramente falsi». Una strana idea prese forma nella mia mente, un'idea che non considerai possibile. Non poteva essere.
«È impossibile!». Espressi i miei pensieri ad alta voce. «Questa vacanza è un regalo di compleanno da parte di Trixie e...».
«Questa mail l'avrà scritta lei, allora. A quanto pare voleva farci incontrare». La realtà mi cadde addosso, violenta e decisa, confermando quell'idea che mi era passata in testa e che ora, invece, aveva preso totalmente la sua forma.
Non è possibile.
Continuai a ripetermelo, ancora e ancora, illudendomi e ripensando a quella mail, al momento in cui mi era stata data, allo sguardo d'intesa di Trixie e Jesse, alla loro felicità nel vedermi partire.
No... Non è possibile.
Non potevano aver organizzato tutto, non potevano avermi ingannata così, non potevano averlo fatto.
Ma, a quanto diceva Kade, lo avevano fatto eccome.
Kade... Il suo nome nella testa mi parve nuovo. Non lo avevo pronunciato per mesi ed ora che lo avevo davanti, che lo vedevo, che lo chiamavo, che lo pensavo... Era troppo. Era tutto troppo.
«Io... Me ne vado». Arrivai ad una conclusione. Rimanere lì con lui non era un'opzione plausibile, così gli strappai il foglio dalle mani e mi voltai per recuperare tutto. Buttai il telefono insieme a quella falsa prenotazione nella borsa prima di mettermela in spalla e avviarmi alla porta.
«Dove vai?». La sua voce mi colpì alle spalle, bloccando ogni mio movimento.
«Torno a casa. Evidentemente c'è stato un errore. Mi dispiace averti disturbato». Gli parlai senza voltarmi, concedendogli solo la vista del mio profilo. La sua risposta fu il silenzio. Non pensavo di aspettarmi qualcosa e mi chiesi il perché della mia delusione. Volevo rimanere? Volevo che mi fermasse? Volevo che mi accogliesse in casa sua? No, no e no. La scelta migliore era andarsene e chiedere spiegazioni a quella traditrice della mia migliore amica.
Misi una mano sul pomello e mi chinai per afferrare il trolley, ma non riuscii ad andare oltre perché l'ennesima frase pronunciata dalla sua bocca distrusse la mia abilità di movimento.
«Come pensi di tornare a casa?». La sua domanda mi sorprese, nonostante il tono sempre freddo e piatto. Si stava interessando a me, per caso? Girai la testa, senza voltarmi completamente, giusto per poterlo guardare ancora un po'.
«Allo stesso modo in cui sono venuta».
«E come sei venuta?». Mi corrucciai, stupita dalla sua insistenza.
«Col taxi».
«È tardi per il taxi, adesso».
«Chi lo dice?».
«Io». Quella conversazione cominciava ad irritarmi. Lui non sembrava provare alcuna emozione. Era totalmente indifferente a me, alla mia presenza, alla mia vista, però continuava a fare domande senza senso, come se il suo scopo fosse quello di trattenermi lì. Ma era solo una sensazione, ovviamente.
«Dubito che i tassisti la pensino come te. Buona serata, Kade». Riportai l'attenzione alla porta con l'intenzione di andarmene per davvero. E lo stavo facendo, ci stavo riuscendo, se non fosse che sentii il suo tocco.
La sua mano afferrò il mio gomito, bloccandomi, impedendomi di uscire ma anche di respirare. Spostai lo sguardo su quel contatto con gli occhi quasi spalancati. Osservai le sue dita avvolgere il mio braccio e sentii la pelle bruciare in un incendio di emozioni.
Brucia. Brucia. Brucia.
Lo sentivo solo io? O lo percepiva anche lui?
«Puoi restare». Il viso di Kade, a poca distanza dal mio, mi parve una visione. Il blu delle sue iridi mi incantò – avrei mai smesso di rimanerne impressionata? – e quando continuò a parlare dovetti sforzarmi di ascoltarlo. «È meglio non andare in giro di notte. Domattina penserai a cosa fare». E un'altra volta quel senso di delusione mi invase. Voleva che restassi, sì, ma solo per farmi andare via il giorno dopo.
«Non voglio arrecarti alcun disturbo, davvero. Posso tranquillamente...».
«Ti faccio vedere la camera degli ospiti». Mi interruppe, mollando il mio braccio senza esitazione. Al posto del fuoco, ora, sentivo solo freddo.
Kade non aspettò una mia risposta. Con freddezza, senza lasciar trasparire alcuna emozione, si chinò e prese il trolley al posto mio, voltandosi e facendomi strada. Era così sicuro che non avrei protestato? Era certo che avrei accettato?
Senza altra scelta lo seguii e mi guardai intorno per studiare l'ambiente. Il ripiano su cui avevo posato le mie cose scoprii essere il tavolo della cucina, proprio come avevo immaginato: una cucina open space molto grande, con scaffali in legno e piastrelle in pietra di un color beige chiaro. Alla mia sinistra c'era il salone, ampio, moderno e ben strutturato, anche se avvolto nel buio. L'unica fonte di luce era lo schermo della televisione ancora accesa, posizionata di fronte ad un divano angolare a più piazze, affiancato da due poltrone dello stesso stile. All'esterno la casa era sembrata vuota e inabitata perché, da ciò che potevo intuire, Kade stava guardando la tv a luci spente.
Il rumore del parquet che ticchettava sotto le mie scarpe mi distrasse dalla mia perlustrazione. Mi concentrai su di lui che, davanti a me, cominciò a salire le scale, anch'esse in legno scuro, lo stesso degli scaffali presenti in cucina.
Guardando la sua schiena e le sue gambe che tracciavano la mia strada i ricordi mi invasero, trasportandomi ad uno dei nostri primi incontri.

«Sono Kade». Si avvicinò e mi tese la mano per presentarsi. «Kade Acker». Austin continuava a lavorare dietro la sua immensa scrivania, ignorandoci.
«Aria». Ci pensai qualche secondo di troppo, poi gli strinsi la mano a mia volta. Dovevo smetterla di comportarmi da teenager arrapata e cercare di fare l'adulta sana di mente quale ero.
«Seguimi». Con un cenno della testa mi indicò una porta sulla sinistra di quel famoso corridoio che stava per diventare il mio incubo. Proseguii dietro di lui, silenziosamente, cercando di non far scendere lo sguardo sul suo fondoschiena.

Scossi la testa, cacciando quei pensieri lontano da me, dalla mia mente e dal mio cuore. Mi obbligai a fissare i suoi capelli e a non abbassare lo sguardo, impedendomi di godere di quella vista.
Quando arrivammo al piano superiore, ebbi la conferma che il legno regnava totalmente in quella casa.
Kade mi condusse ad una porta – indovinate? Di legno – e la aprì, rivelandomi quella che immaginai fosse la camera degli ospiti. Un letto matrimoniale riempiva la stanza, arredata con un comodino, una cassettiera, un armadio e una scrivania con tanto di sedia. Essenziale ma bella. Semplice ma elegante. Era... accogliente.
«In fondo a destra trovi il bagno. La mia camera è qui affianco, invece». E con un braccio indicò la sua sinistra. La sua camera è accanto alla mia, pensai subito. «Le lenzuola le trovi nel secondo cassetto». Kade continuò a darmi le giuste informazioni, prima di posare la valigia sul pavimento e avviarsi alla porta.
«Grazie». Fui capace di dire, seguendo con lo sguardo la sua uscita.
«Buonanotte, Aria». Non si voltò per parlarmi. Rimase di spalle, il tono piatto, la voce fredda. Mi privò dei suoi occhi e del suo viso, mostrandomi solo la schiena rigida e contratta, dove immaginai il serpente sotto la maglietta muoversi insieme ai suoi muscoli, indifferente anche lui alla mia presenza.
Non aspettò una risposta. Se ne andò e si chiuse la porta alle spalle, lasciandomi sola e incompleta.
«Buonanotte, Kade». Lo sussurrai al nulla, fissando quella porta chiusa, quell'ostacolo materiale che mi divideva da lui, fisicamente e mentalmente.
Lo sussurrai lo stesso, consapevole che non mi avrebbe sentita ma con la speranza che mi avrebbe pensata perché io, sicuramente, l'avrei fatto.

***

Quando la mattina dopo mi svegliai, fu come se non mi fossi mai addormentata.
Una volta che Kade aveva lasciato la stanza, mi ero data da fare. Avevo preso il pigiama e lo spazzolino dalla valigia, lasciandola aperta sul pavimento ed evitando di sistemarla, vista la situazione. Ero andata di corsa in bagno a lavarmi, con la speranza vana di rivederlo ma, allo stesso tempo, con la voglia di non incontrarlo.
Mi ero lavata in estrema solitudine, soffrendo nel vedere i suoi oggetti sparsi per il suo bagno. Perché sì, erano i suoi oggetti, il suo bagno, la sua fottutissima casa, in cui ero finita senza neanche sapere il perché.
Dopo aver finito le cose da fare, ero stata costretta a sdraiarmi nel letto, con le lenzuola pulite e profumate di lavanderia. E lì, in quell'esatto momento, in quella buia e desolata camera, la mente aveva iniziato a vagare.
Il silenzio era stato riempito da mille pensieri e centinaia di domande, alternato agli attimi in cui mi ero bloccata e mi ero messa sull'attenti, in attesa di un rumore, di un qualcosa che mi dicesse che lui c'era, anche se da un'altra parte, anche se circondato da altre quattro pareti. In risposta, però, avevo ricevuto solo altro silenzio. E i pensieri avevano ripreso a vagare, accompagnati da altrettante domande.
Perché Trixie mi aveva fatto questo? Perché mi aveva mandata in casa sua? Jesse l'aveva aiutata? Erano a conoscenza dei fatti?
E poi, perché Kade si era rinchiuso lì? Perché non si trovava a Southampton? Stava male? Era ancora triste? Certo che lo era. Ma quanto?
Non ero riuscita a darmi alcuna risposta. Mi era venuta voglia di piangere, urlare, scappare ma restare. La confusione non mi aveva dato tregua, causandomi un mal di testa che non mi aveva permesso di dormire.
E così, dopo neanche tre ore di sonno, avevo aperto gli occhi e mi ero fissata a guardare le prime luci dell'alba entrare dalla finestra, fino a quando non avevo deciso di alzarmi e di fare qualcosa per spegnere la mente.
Guardai l'ora sul display del telefono. 6:45 a.m. Ci si poteva svegliare così presto? Sospirai e, ormai già in piedi, non considerai l'opzione di rimettermi a letto. Sistemai la camera e mi vestii, indossando un pantacollant e una maglietta larga e coprente. Dopo aver fatto una coda alta e aver sbuffato nel vedere le mie occhiaie pronunciate a causa della notte insonne, presi il cellulare, aprii la porta e uscii in corridoio. Con le ciabatte ai piedi cercai di camminare silenziosamente e, nel sorpassare la camera di Kade, tesi le orecchie per capire se fosse sveglio. Ma no che non è sveglio, non sono neanche le sette! Di fatti, non percepii alcun rumore, così mi arresi e scesi le scale.
«Un caffè. Ho bisogno di un caffè». Sussurrai ad alta voce, dirigendomi in cucina. Ne avrei dovuti prendere tre, di caffè, per svegliarmi completamente, ma poco importava.
Arrivata davanti agli scaffali, cominciai a muovermi per cercare tutto l'occorrente. Aprii il primo in alto e ci trovai le pentole, tutte pulite e talmente luccicanti da sembrare inutilizzate. Aprii quello affianco e vidi solo bicchieri, tazze e piatti vari. Presi una tazza e lo richiusi. Il caffè dov'era, però? Lo scaffale successivo rispose alla mia domanda. Afferrai la confezione di caffè macinato e mi corrucciai, perché insieme ad esso non c'era altro, se non una bottiglia di olio per metà piena e un pacco di sale ancora intatto. Posai la tazza e il caffè vicino al lavello e cominciai a controllare tutti gli altri scaffali con una strana idea in testa. Con grande stupore trovai la moka e notai altri strani utensili da cucina, ma di cibo nessuna traccia.
Cosa diavolo mangiava Kade?
Avendo tempo e voglia di sbirciare, aprii il frigo, sperando di trovarci qualcosa, ma non fu così. L'unico alimento presente lì dentro era la birra. Decine e decine di bottiglie riempivano lo spazio freddo, lasciandomi a bocca aperta. Davvero si nutriva solo di birra? Mi accucciai e frugai in mezzo alle bottiglie di vetro, trovando giusto del bacon a fette e del formaggio confezionato. Non potevo crederci... Presa dalla mia indagine, continuai l'ispezione e arrivai ad aprire il surgelatore. Quello che vidi, però, non mi piacque molto.
Se nel frigo c'erano solo birre, lì trovai solo... «Gelato». Mormorai un po' scioccata, perché non si trattava di un gelato qualsiasi, ma di confezioni e confezioni di nocciola e pistacchio. Pistacchio e nocciola.
E un altro ricordo mi investì, irrefrenabile e travolgente, senza darmi il tempo di evitarlo.

«Allora che ne dici se sabato, dopo aver finito all'Ink, vieni a stare da me? Ci prendiamo una pizza, ci vediamo un film e ci facciamo le coccole sotto una coperta come due adolescenti del liceo. Ti va?». Mi seguì mentre io tornavo alla mia postazione per riprendere il lavoro che lui aveva dolcemente interrotto.
«Ci sarà il gelato al pistacchio?».
«Ovviamente sì».
«Ci sto».
«Comincerò ad essere geloso del gelato al pistacchio, sai?». Proprio come aveva fatto prima, mi circondò da dietro con le sue braccia muscolose e tatuate e mi posò il mento su una spalla.
«Non ti dimenticare di quello alla nocciola. La combo perfetta». In risposta, mi diede un leggero morso sul collo che mi fece ridere, facendo tremare anche la mia sac à poche.
«Noi anche siamo la combo perfetta».
«Stai dicendo che siamo due gelati?».
«Perché no? Tu pistacchio e io nocciola».
«O io nocciola e tu pistacchio».
«Ma il pistacchio è troppo buono. Batte di gran lunga la nocciola, quindi merita il tuo nome». Continuò a stuzzicare il mio collo con le labbra e con i denti senza smettere di parlare.
«Forse hai ragione. Ma anche la nocciola è deliziosa». Ribattei, prendendo le difese di uno dei miei gusti preferiti e continuando il suo gioco.
«La nocciola è buona, sì. Nulla in contrario. Ma non trovi che raggiunga il massimo quando è accompagnata dal pistacchio? Non trovi che siano perfetti insieme?». Non potevo vederlo perché si trovava alle mie spalle, ma immaginai le sue iridi blu illuminarsi e sorridere. Ormai non capivo più se stesse ancora parlando di pistacchio e nocciola, o se invece si riferisse a noi due, a quanto stessimo bene insieme e a quanto fossimo... perfetti?

Di scatto chiusi il surgelatore e con esso i miei occhi, da cui non lasciai scappare alcuna lacrima. Mi veniva da piangere, sì, ma mi trattenei. I ricordi erano così dolorosi.
Riportare alla mente quel senso di felicità e spensieratezza mi faceva soffrire, perché ero consapevole di non provarle più, quelle emozioni. Di non essere più felice e spensierata, perché lui non c'era, mi odiava e non mi voleva.
E allora per quale motivo si riempiva casa di confezioni di gelato? Mi pensava? Gli mancavo?
Non potevo saperlo, e probabilmente non l'avrei mai saputo, però lo odiai per avermi condotto ad un pensiero come quello, a dei ricordi come quelli, a delle emozioni ormai inesistenti, assenti, lontane.
Una volta credeva che fossimo perfetti insieme mentre adesso di quella perfezione non se ne parlava proprio. Di noi rimanevano solo cuori infranti e menti distrutte. Nient'altro.
Sconfitta e affranta, mi diressi verso il lavello e cominciai a preparare la moka. Quella giornata era iniziata nel modo peggiore possibile e, secondo il mio modesto parere, non sarebbe neanche migliorata.
Quando l'odore del caffè cominciò ad aleggiare nell'aria quasi mi rilassai, pregustando il momento in cui l'avrei bevuto. Una volta pronto, lo versai nella tazza e lo diluii con dell'acqua. Decisi di lasciarne un po', giusto nel caso in cui Kade si fosse svegliato e l'avesse voluto.
Con la tazza bollente in una mano e il cellulare nell'altra uscii sul portico, godendomi le prime luci del sole e la leggera frescura del mattino. Non essendo più notte, ebbi modo di riuscire a vedere cosa mi circondava. Il portico era lungo tanto quanto la casa e anche abbastanza largo. Sul lato destro c'erano un tavolo con delle sedie mentre, dall'altro lato, una deliziosa panchina a dondolo su cui subito mi fiondai. Posai il telefono al mio fianco e cominciai a spingere la mia seduta con il piede, tranquillizzandomi visibilmente.
Lo spiazzo di fronte la villa era grande e inevitabilmente mi chiesi dove fosse la macchina di Kade. Non avevo visto alcun garage, ma non avevo ancora ispezionato il retro della casa, quindi immaginai fosse lì.
Mi persi a guardare gli alberi che circondavano la casa, intravedendo tra di essi le strade che formavano la città di Hempstead. Mi lasciai avvolgere dai rumori delle auto che passavano e dai pochi uccelli che canticchiavano sui rami, bevendo quel caldo caffè che mi aiutò a risvegliarmi.
Dopo aver finito la tazza, mi dissi che era arrivato il momento. Guardai l'ora. 7:04 a.m. Probabilmente Trixie dormiva, ma io non potevo più aspettare. Avevo voglia di parlarle e di farlo da sola, senza Kade in giro, e quella era l'occasione perfetta. Aprii la rubrica e cliccai sul suo nome, attendendo una risposta.
«Ehi». Rispose al terzo squillo e dalla voce non mi sembrò troppo addormentata. Magari si era svegliata da poco.
«Ciao». Le dissi solo, non riuscendo ad andare avanti.
«Ero sicura che mi avresti chiamata ieri sera. Devo ammettere che mi hai stupita». Ribatté, col suo solito tono scherzoso. Io, però, rimasi seria.
«Non ci trovo nulla di divertente in tutto questo». Sussurrai, non volendo fare troppo rumore. «Quindi è vero? Non esiste nessuna Dream's House?».
«No...».
«Non ci credo, Trixie!». La interruppi subito. «Ma come ti è venuta in mente una cosa del genere? Jesse ti ha aiutata?».
«Lo abbiamo deciso insieme. Aria, noi... eravamo preoccupati per voi». Mi sollevai dal dondolo e cominciai a camminare avanti e indietro, cercando di alleviare il nervosismo.
«Cosa vuol dire che eravate preoccupati per noi? Ci siamo lasciati, Trixie. Da due mesi. E voi organizzate una vacanza scrivendo una finta mail, me la regalate e mi convincete a partire solo per farci incontrare?». Il mio tono di voce cominciò ad alzarsi ad ogni parola. Mi fermai e andai verso la ringhiera che contornava il portico per poggiarci una mano e stringere il legno con forza. Respira, mi dissi. E lo feci, ma la calma non si impadronì di me.
«Sì, sì e sì!». Esclamò la mia migliore amica, sorprendendomi col suo disappunto. «Solo io e Jesse sappiamo come siete stati. Abbiamo visto il vostro malessere per due lunghi mesi e siamo arrivati a non sopportarlo più. Tu puoi raccontarmi tutte le cazzate che vuoi, Aria. Puoi fingere di stare bene e di essere felice, ma io te la leggo negli occhi la sofferenza. Ti conosco da anni e mi basta uno sguardo per comprenderti. Quando Jesse mi ha detto che Kade sarebbe andato via da Southampton per prendere un po' d'aria, ho colto la palla al balzo e gli ho proposto la mia idea». Fece una pausa per riprendere fiato prima di proseguire. Io continuai a stringere con violenza la ringhiera, sfogando lì la mia frustrazione. «Sono stata avventata, è vero, ma non me ne pento. Avete bisogno di passare del tempo insieme, di parlare, di chiarirvi, di discutere, e questo era l'unico modo per farvelo fare». Alzai lo sguardo e mi fissai sulla distesa di alberi, sospirando rumorosamente.
«Capisco la tua preoccupazione, ma avresti dovuto dirmelo. E poi, credi davvero che Kade mi voglia qui? Lui pensa che me ne tornerò a casa oggi!».
«E tu fregatene e rimani lì!». Urlò Trixie. La sentii inspirare ed espirare più volte, come se anche lei stesse cercando quella calma di cui entrambe avevamo bisogno. Quando proseguì, parlò in un sussurro. «Una settimana, Aria. Si tratta solo di una settimana. Puoi passare del tempo con lui e riallacciare i rapporti, oppure puoi ignorarlo e rilassarti per sette lunghi giorni. Niente lavoro, niente impegni, niente distrazioni. Solo relax e divertimento. Divertimento e relax».
«Trixie, io non...».
«Ascoltami». Mi interruppe ed io mi tappai la bocca, pronta ad ascoltarla. «Dovete mettere un punto a questa storia. Sta a voi decidere cosa fare. La prossima settimana potrai tornare con lui o senza di lui, Aria, ma tornerai, e nel caso della seconda opzione, beh... Allora andrai avanti con la tua vita, come hai sempre fatto». Abbassai lo sguardo e chiusi gli occhi, terrorizzata da quella "seconda opzione". Dopo tutto, Trixie aveva ragione. C'era bisogno di porre una fine, di concludere un qualcosa che, in realtà, si era concluso da tempo, ma non per me, non per la mia mente, non per il mio cuore.
«Ma cosa gli dico? Non posso intrufolarmi in casa sua e restarci una settimana!». Quello era un bel problema che, nel caso avessi deciso di rimanere, non sapevo come risolvere.
«Non ti caccerà mai di casa! Resta da lui e cerca di parlargli perché vi mancate a vicenda. Fidati di me». E avrei voluto chiederle tante di quelle cose. Aveva parlato con Jesse? Kade aveva detto al suo migliore amico che gli mancavo? Portai una mano sulla fronte e sentii le tempie pulsare. Maledetto mal di testa!
«Vedrò cosa fare. Non ne sono molto sicura. E comunque, riferisci a Jesse che sono arrabbiata con entrambi!». Le dissi, non troppo seria. Trovavo difficile provare rabbia per la mia migliore amica.
«Glielo riferirò con piacere. Ti voglio bene, lo sai?». La sentii sorridere e non riuscii a non fare lo stesso. Era folle, pazza, precipitosa e a tratti imprudente, ma non avrei mai smesso di amarla incondizionatamente.
«Ti voglio bene anch'io, scema. E ora dimmi, come sta Tommy?». Cambiai discorso, preoccupandomi per mio figlio.
«Oh, sta da Dio. Stamattina si divertirà con nonna May, mentre il pomeriggio lo passerà con zia Trixie e zio Jesse! Dopotutto, siamo i suoi zii preferiti». Inevitabilmente risi. Passare dalla tristezza alla gioia in pochi minuti era tipico per chi aveva un'amica come lei.
«Questo perché siete i suoi unici zii, Trixie». Ribattei, distruggendo ogni suo sogno.
«Ah, sì? Glielo chiederò e ti farò sapere, allora. Donna di poca fede!». Scossi la testa, divertita dalla sua teatralità.
«Per qualsiasi problema chiamami, d'accordo?».
«Lo farò. Vale anche per te, però!». Annuii, nonostante non potesse vedermi.
«Ci sentiamo presto».
«A presto. Sii te stessa, Aria, e vedrai che andrà alla grande». Quella fu l'ultima frase che sentii prima di chiudere la chiamata e prendere un respiro profondo.
Che situazione assurda... Non sapevo neanche cosa desiderassi veramente. Volevo restare? Volevo andare via? Kade cosa avrebbe voluto che facessi?
Sospirai. Ero stanca di farmi centinaia di domande e di non trovare alcuna risposta. Forse aveva ragione Trixie. Avrei dovuto godermela e basta. Divertirmi e rilassarmi. Rilassarmi e divertirmi.
Passare una settimana in casa da sola con Kade mi metteva un po' d'ansia, ma cos'altro avrei potuto fare?
Sette giorni. Solo sette giorni. Poi sarei tornata, con lui o senza di lui, ma sarei tornata e avrei smesso di soffrire.
In sette giorni, era possibile ritrovare un sentimento perduto?
Ma soprattutto... In sette giorni, era possibile smettere di amare?

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