Capitolo XIX

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Confusione. Disordine. Incomprensione. Ansia. Preoccupazione. Inquietudine.
Quel mix di emozioni era nulla in confronto a ciò che stavo provando in quel momento.
Scossi la testa velocemente come se volessi riprendere coscienza e risvegliarmi da un sogno che, però, non era altro che la realtà.
Dischiusi le labbra per prendere fiato, cercando di calmare le palpitazioni e il batticuore, ma fallii miseramente.
Guardai l'avvocato. Poi Elizabeth. Poi di nuovo l'avvocato. Poi di nuovo Elizabeth.
Li guardavo senza osservarli veramente. Era un semplice e inconsapevole spostamento di testa. Di fronte a me non c'erano loro, no. Di fronte a me avevo solo l'immagine di Kade che, nella mia mente, sedeva al tavolo di casa, davanti ad una torta con le candeline a forma di sedici, aspettando i regali, gli auguri, gli abbracci e una rivelazione che, ahimè, non era mai arrivata.
Mi imposi di parlare, di dire qualcosa, ma dalla mia bocca non uscì alcun suono. Riuscivo a malapena a respirare.
«Aria? Tutto bene?». La voce di Elizabeth mi arrivò distante, come l'eco in una grotta grande e buia. Inaspettatamente, allungò una mano per toccare le mie unite sopra al tavolo ed io mi ritrassi di scatto. Quel gesto servì a risvegliarmi da un incubo ad occhi aperti. Cercai di riprendere possesso del mio corpo e della mia mente, poi parlai.
«No». Dissi, scorbutica e diretta. «Non va affatto tutto bene». Ed era chiaro a tutti. Presi la bottiglietta d'acqua e bevvi un sorso, sentendo il bisogno di dissetarmi e di concentrare le mie azioni su altro. Dopo aver riacquistato un po' di consapevolezza, tentai di dire qualcosa. «Di cosa stai parlando, Elizabeth?». Le chiesi, non credendo ancora alle sue parole. Una parte di me, una minuscola e impercettibile parte, sperò che quella affermazione non fosse vera. La mia testa si rifiutava di accettarla, di incamerarla, di acquisirla ed elaborarla, perché si trattava di una brutta verità. Una verità troppo grande che probabilmente non sarei riuscita a trattenere.
«Ascoltami, Aria. Sto facendo un grande sforzo per raccontarti tutto questo. È una cosa molto delicata. Troppo delicata. Ho bisogno che tu sia lucida. Non devi dire niente. Devi solo sentire quello che ho da dirti».
«Allora parla, Elizabeth. Perché, per quanto mi riguarda, la stai facendo troppo lunga, e più tempo ci metti più non sarò in grado di rimanere lucida». Calcai il tono sull'ultima parola, quasi fosse un insulto, un'accusa. Chiedeva a me di essere lucida. Si pavoneggiava, sottolineando il suo sforzo nel raccontare tutta quell'assurda situazione, quando a me non importava un cazzo del suo stato d'animo. L'unica cosa di cui mi importava davvero era Kade che, nonostante fosse il protagonista della storia, non era minimamente a conoscenza dei fatti reali della sua vita.
«Bene. Cercherò di essere breve, allora». Per un attimo guardai l'avvocato, cercando nel suo sguardo delle risposte che non arrivarono. Lui continuava ad essere freddo, impassibile, indifferente, uno spettatore passivo della nostra conversazione. «Devi sapere che... Avevo più o meno la tua età quando, per la prima volta nella mia vita, mi innamorai. E parlo di quell'amore che ti coinvolge, ti fa battere il cuore, ti spinge a fare cose stupide e avventate. Quell'amore che, beh... non si scorda mai». Immaginai già la fine di quel racconto, ma decisi di rimanere in silenzio e di ascoltare. «Lui era un uomo fantastico. Ti accorgevi della sua presenza anche se non parlava e non si muoveva. Era capace di conquistarti con un solo sguardo e fu proprio quello che successe a me. Mi guardò ed io caddi ai suoi piedi. Passammo tre lunghi anni insieme... Anni pieni di amore, di complicità, di affetto, di sentimento. Ero felice, Aria. Lo ero davvero. Il mio cuore batteva solo per lui». Negli occhi di Elizabeth lessi una sorta di commozione. Un velo di tristezza scese su di lei, dandomi modo di intravedere la sincerità in ciò che stava svelando. «Ma come ogni grande amore che si rispetti, anche il nostro, ad un certo punto, appassì. Non starò qui a raccontarti le motivazioni per cui non riuscimmo più ad andare avanti. Ti basti sapere che, insomma... Volevamo cose diverse dalla vita. Davanti a noi si aprirono due strade. Io scelsi quella che volevo percorrere e sperai che lui mi seguisse, ma non fu così. Amare una persona non vuol dire solo starci bene. Amare una persona vuol dire appoggiarla, supportarla, tenerla per mano nelle difficoltà e non abbandonarla. Mai. Anche quando non sei d'accordo con le sue scelte. Perché se ami davvero una persona, allora amerai anche i suoi sbagli, i suoi difetti, le sue cadute, le sue imperfezioni. Avevamo passato tre fantastici anni assieme e quando la nostra relazione finì, beh... ci rimasi molto male. Ma il colpo più grande arrivò dopo un mese, quando scoprii di essere incinta di Kade». Trattenei il fiato e chiusi gli occhi, lasciando che solo le mie orecchie assistessero a quella parte della storia. Sapevo cosa stava per succedere, me lo sentivo, anche se non volevo accettarlo. «E fu durante la mia gravidanza che incontrai Raymond. Lui mi accolse nella sua vita nonostante la complicata situazione e si infatuò di me quasi subito. Io anche ne ero attratta, come lo sono tutt'ora. Non fu un amore a prima vista, ovviamente. Avevo provato sensazioni troppo grandi e ripeterle era impossibile. L'amore vero si incontra una sola volta nella vita. Se sei capace di innamorarti intensamente due volte, secondo me, devi essere parecchio fortunato. Ad ogni modo, oggi credo... Credo di amare Raymond. Dopo tanti anni passati assieme, non provare affetto sarebbe impossibile». Elizabeth si fermò, come se dovesse riordinare i pensieri prima di continuare, ma io non resistetti. La mia pazienza era ormai esaurita.
«Cosa successe poi? Il padre di Kade? Lui sa che...». Non riuscii a completare la frase, no. Non riuscii a dire quelle parole che tanto premevano di uscire ma che rimasero bloccate ad un passo dall'obiettivo.
«Lo scoprì poco tempo dopo. Non fu facile convincerlo a... a...». Si bloccò un'altra volta. La mia gamba ricominciò a saltellare in preda all'agitazione, in attesa di un proseguimento.
«A cosa, Elizabeth?».
«A non far parte della vita di suo figlio». Il mio cuore perse un battito, assorbendo quelle parole e accusando un colpo che mi fece male al petto. Come un proiettile che ti perfora e ti rimane dentro, indelebile, doloroso, soffocante.
«Non ci posso credere». Sussurrai, ma lei parve ignorarmi, perché riprese a parlare come se nulla fosse.
«Concordammo insieme sul fatto che glielo avremmo detto, prima o poi. Aspettavamo solo il momento giusto e per questo durante i primi mesi concedemmo al padre di venire a trovarlo qualche volta, di tenerlo in braccio, di guardarlo dormire, di essere diciamo... presente».
«E poi?». Domandai, sentendo la rabbia scorrere nel mio sangue. «Poi glielo avete semplicemente strappato dalle braccia? Gli avete chiuso le porte, non permettendogli più di vederlo? Dio, Elizabeth...». Sospirai. In quel momento le emozioni che provavo nei confronti di quella donna non erano affatto belle. Riuscivo a malapena a guardarla negli occhi.
«Tutto quello che ho fatto... Tutte le scelte che ho preso, io... Ho sempre pensato al bene dei miei figli. Ho messo loro al primo posto e lo farei di nuovo, ancora e ancora».
«Lei crede davvero di aver fatto il bene di Kade non permettendogli di conoscere il suo vero padre?». L'indignazione che le stavo riversando addosso era sincera e voluta.
«Non ti chiedo di capire, Aria, perché non servirebbe. L'unica cosa che ti chiedo è di non giudicare le mie scelte». Risi. Una risata amara, spiacevole e cupa, e decisi di rimanere in silenzio. Se avessi parlato, l'avrei insultata. «Comunque, durante gli anni continuammo a tenere il padre aggiornato sulla vita di Kade. Quando arrivò il momento di dirglielo, però, come ben sai, non ci riuscimmo. E ci tengo a precisare che lui era d'accordo con la nostra decisione. Lui voleva solo il bene di suo figlio, così come lo volevamo noi, e pensò che rivelarglielo non avrebbe fatto altro che peggiorare la situazione già precaria di Kade». Scossi la testa senza capire – o meglio, senza voler capire – il perché di quelle scelte prese al posto del diretto interessato.
«Non doveva andare così». Lo dissi più a me che a lei, guardando in basso e scuotendo la testa.
«Volevamo solo dargli una vita normale. Volevamo farlo vivere in una famiglia unita, con due genitori felicemente sposati e una sorellina nata dal nostro amore».
«Sorellastra, vorresti dire». La corressi, rigirando il dito nella piaga. Non volevo farla soffrire, non era quello il mio intento. Volevo solo sbatterle in faccia la dura realtà. «A proposito, lei la sa tutta la storia?».
«No, Chloe ancora non sa nulla». Ovviamente. «È del tutto comprensibile il tuo disprezzo, Aria». Aggiunse poi.
«Non capirò mai le vostre scelte. Non le approvo e non le rispetto, ma non posso fare niente per cambiare il passato. Ormai il danno è fatto. L'unica cosa che mi chiedo è: perché adesso, Elizabeth? Cosa è cambiato? Se non siete riusciti a dirglielo quindici anni fa, perché pensate di riuscirci ora?».
«Ora siamo obbligati a farlo, perché...». Mi protesi leggermente, come se così facendo potessi tirarle le parole fuori a forza. «Perché il padre di Kade è morto». Quel colpo arrivò dritto allo stomaco. Sentii il fiato venire a mancare, come se qualcuno mi avesse dato un pugno sulla pancia. Sentii la bile salire, come se mi stessi per sentire male proprio lì, davanti a quei due e al resto dei presenti. Lo sguardo si fece sfocato, inondato non da lacrime ma da un dolore dovuto all'impatto con la realtà dei fatti, con una brutale verità che desideravo cacciare via dalla mia mente, ma che invece ero obbligata a trattenere contro la mia volontà. Se prima ero rimasta scioccata dalle sue parole, adesso ero completamente paralizzata, incapace di intendere e di volere. «Sono venuta a saperlo poco più di una settimana fa e... Io non pensavo stesse male, lo giuro. Non mi aveva mai detto di avere il cancro e non ne comprendo il motivo. Ora... Ora glielo devo dire. Kade dovrà parlare con l'avvocato Lechter riguardo la sua eredità e tutti i possedimenti che...».
«È questo il motivo principale, Elizabeth?». La interruppi violentemente, trovando non so dove la forza di parlare. «È per questo che si sente obbligata a dirglielo? Per fargli sapere quante cose belle e prosperose gli ha lasciato il suo vero padre? E pensi che lui le accetterà? Andiamo, Elizabeth! Non riesco a capire se lei si renda veramente conto della situazione».
«Me ne rendo conto benissimo e...».
«Ah, davvero?». Rabbia. Vedevo solo una cieca e tremenda rabbia. «Io non credo. Suo figlio è vissuto nella falsità, Elizabeth. È cresciuto con un padre che non era il suo e con una madre codarda, che giustifica il proprio comportamento semplicemente pensando di aver fatto del bene. E ora cosa vuole fare? Andare da lui e dirgli: "Figlio mio, devi sapere una cosa. Non te l'ho detto prima perché non avevo le palle ma... Raymond non è tuo padre, sai? Il tuo vero padre è un altro, peccato che sia morto". Ma come le viene in mente?!». Le sputai contro tutto quello che provavo, tutto il fuoco che avevo dentro e che scorreva nelle mie vene.
«Non ho mai giustificato il mio comportamento, Aria. Ho vissuto con questo peso sulle spalle per un'intera vita e ora pensi che non abbia paura? Paura di dirglielo? Di perderlo? Di deluderlo? Questo pensiero mi tortura costantemente, giorno e notte, e non farò altro che pentirmi delle scelte che ho preso, ma non ti permetto di dire che non abbia agito pensando a loro. Ho solo cercato di fargli vivere una vita normale e felice...».
«Ed è proprio qui che sbaglia, Elizabeth». Le parole vennero fuori in un sussurro, quasi provassi dolore nel pronunciarle. «Lei si ostina a parlare di vita normale, con una coppia di genitori... Com'è che ha detto prima? Ah, sì. Con due genitori felicemente sposati. Beh... Non sono molto d'accordo con lei. Crede che i bambini con genitori separati non siano felici e spensierati? Crede che loro non abbiano una vita normale, uguale a quella di tutti i loro coetanei?».
«Non fraintendere, Aria. Io non intendevo...».
«Stronzate». Le dissi, senza lasciarla parlare. «Lei pensa che sia stato facile per me crescere un figlio da sola? Crede che non ci abbia pensato almeno un centinaio di volte a quello che stavo facendo? Le posso assicurare che non è così. Ho passato nove mesi di gravidanza a piangere, a disperarmi, a chiedermi se potessi farcela e se fosse giusto. Ho sempre desiderato seguire tutte le tappe: fidanzarmi, sposarmi, metter su famiglia. Ma la vita è inaspettata. La vita è capace di scombinare tutti i tuoi piani e così, in un battito di ciglia, mi sono ritrovata in sala parto, coperta dal sudore e dalle lacrime, con la voce rotta e il cuore infranto, e poi... Mi bastò guardare quel batuffolo che mi misero tra le braccia e tutti i problemi che mi avevano torturato per mesi semplicemente svanirono, perché ciò a cui riuscivo a pensare era solo e unicamente a quel dono che proprio la vita mi aveva fatto: mio figlio». Mi fermai, asciugandomi le guance umide a causa dell'emozione. «Ha ragione. Tommy non crescerà con i suoi due genitori insieme, felicemente sposati sotto lo stesso tetto. Ma sa cosa le dico? Che non me ne importa niente, perché Tommy è felice. Felice di vivere con la sua mamma e di andare a trovare ogni sabato il suo papà. Felice di vivere nella nostra famiglia che unita non è, ma che è comunque una famiglia. Lui sta crescendo nella verità, Elizabeth, con due genitori che non si amano ma che amano lui alla follia. E sono sicura che se un giorno a scuola gli chiedessero di rappresentare la sua famiglia in un disegno, lui disegnerebbe noi che siamo i suoi veri genitori, anche se separati, anche se non sposati». Presi un respiro profondo, caricandomi di ossigeno prima di continuare. «Lei avrebbe dovuto dire la verità a Kade non a sedici anni, non a dodici, non a dieci né tantomeno a cinque. Lei avrebbe dovuto fargli vivere la sua vita fin da subito, così che non sarebbe dovuta arrivare a tanto. Lui non se lo meritava, no... Lui si meritava di essere felice».
«Kade è felice». Disse Elizabeth, aprendo bocca dopo tanto tempo.
«Glielo ha mai chiesto?». Domandai e lei rimase in silenzio. «Ecco la sua risposta».
«Non ho intenzione di perdere altro tempo, Aria. La nostra conversazione si è già dilungata troppo». Affermò, scrollandosi di dosso l'emozione e risollevando l'armatura, ritornando ad essere impassibile e indifferente. «Hai firmato l'accordo di riservatezza, quindi ti ricordo che non puoi parlarne con nessuno. Ti ho rivelato tutto ciò per volere del padre, e non chiedermi il motivo perché tutt'ora non ne ho idea, ma anche perché quando arriverà il momento potrai aiutarmi a confessare la verità a Kade. Ora rimane solo un'ultima cosa». Non servì dire altro. L'avvocato si mosse subito. Riprese la valigetta e cominciò a frugarci dentro.
«Non firmerò altri stupidi accordi». Dissi, pensando che si stesse riferendo a quello.
«A lei, signorina Green». Louis Lechter mi porse una busta. Inizialmente esitai, poi la presi e me la rigirai tra le mani. Era ben sigillata e di un bianco così lucente da far male agli occhi. A macchiarla c'era solo una scritta presente su uno dei due lati, perfettamente centrata e composta da solo quattro lettere: Aria.
«Cos'è?». Chiesi istintivamente, tenendo lo sguardo fisso sul mio nome scritto in un corsivo elegante e bellissimo.
«Una lettera. È da parte del padre di Kade. Ne ha lasciate molte anche al figlio». Mi informò Elizabeth. «Non mi spiego come abbia saputo della tua esistenza ma la cosa non mi sorprende. Lo controllava spesso, quindi avrà visto che eri presente nella sua vita e avrà indagato su di te. È l'ipotesi più plausibile». Quella era una delle tante cose che non mi sarei mai aspettata da quell'incontro. Non solo ero venuta a conoscenza di una verità fuori dal comune, ma ora, in aggiunta a tutto ciò, avevo tra le dita la lettera di un padre che non era neanche il mio.
«Io non... non capisco».
«Non c'è niente da capire. Adesso devi solo metabolizzare tutto quello che ti è stato detto. Per quanto riguarda la lettera, invece... Fanne pure ciò che vuoi. Puoi leggerla o meno, a me non importa. La scelta spetta a te». Sentii Elizabeth alzarsi, seguita a ruota dall'avvocato Lechter. «Ci sentiamo presto, cara».
«Arrivederci, signorina Green». Con quei saluti si congedarono, ma io nemmeno li guardai andar via, bloccata a fissare il mio nome inciso su quella lettera indirizzata a me.
Dopo un tempo che sembrò infinito, riuscii a trovare la forza di alzarmi. Sollevai il mio corpo e obbligai le mie gambe a muoversi come un automa, un robot comandato da chiunque ma non da me. Pagai la parte del conto che mi spettava e uscii.
L'aria esterna mi sbatté contro la pelle del viso proprio come il sole che mi illuminò, anche se solo esternamente, poiché all'interno, nel profondo del mio cuore, mi sentivo completamente spenta. Buia. Appassita. Prosciugata.
Feci qualche passo – forse tre, forse cinque – per poi infilarmi in un vicolo isolato e sconosciuto, incapace di proseguire. Poggiai la schiena alla parete e le mani sul cuore.
Tum-tum. Tum-tum. Lo sentii battere forte mentre cercavo di riprendere fiato.
Metabolizzare. Elizabeth aveva detto di metabolizzare. Ma come potevo farlo? Era una situazione assurda, qualcosa che non mi sarei mai aspettata quando un'ora prima avevo accettato di incontrarla. Se avessi saputo, non le avrei mai detto di sì.
In quel momento sentii il peso della verità schiacciarmi, con tanto di accordo di riservatezza che mi impediva di dire anche una sola parola al riguardo. Per sentirmi meglio avrei potuto sfogarmi con Trixie, ma non potevo. Avevo le mani legate da una corda invisibile che sentivo anche attorno al collo e che mi soffocava.
Tum-tum. Tum-tum. Presi un altro respiro profondo, ma riuscii a incamerare solo ansie su ansie. Le gambe cedettero, costringendomi ad accucciarmi e a strusciare la schiena sul muro che graffiò la mia pelle coperta da una felpa e una T-shirt. Mi coprii il viso con le mani cercando di scappare dalla realtà, ma quando chiusi gli occhi vidi solo Kade, coi suoi occhi bellissimi e il suo sorriso mozzafiato. Li riaprii di scatto, ma anche lì, in quel vicolo fuori dal mondo, circondata da secchi dell'immondizia e un forte odore di spazzatura, riuscii a veder solo il mio uomo, così felice, divertente, simpatico, splendido, e poi triste, deluso, arrabbiato, distrutto. Scossi la testa e circondai le gambe con le braccia, stringendomele al petto per darmi conforto da sola.
Tum-tum. Tum-tum. Troppe cose circolavano nella mia mente. Troppi pensieri. Troppe preoccupazioni. Nonostante tutto, però, non piansi. Non potevo permettermelo. Sentivo le lacrime spingere, sforzandosi di uscire, ma le trattenei. Sarei dovuta tornare alla pasticceria, relazionandomi con Trixie. Poi ancora, sarei dovuta andare a prendere mio figlio a scuola per riabbracciarlo e portarlo a casa con me. Non potevo permettermi di cedere alla tristezza, al dolore, allo sconforto. Dovevo sollevare l'armatura, proteggermi e non lasciare che gli altri capissero cosa si celava sotto di essa.
Mi alzai e tirai fuori il cellulare dalla borsa per controllarlo. Sul display apparve un SMS e una chiamata persa da Kade.
Tum-tum. Tum-tum. Lentamente e con la massima cautela aprii il messaggio, come se quell'aggeggio elettronico dovesse esplodermi tra le mani da un momento all'altro.

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