Capitolo XXV

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Per un'altra mezz'ora rimasi fuori a godermi il silenzio e il calore del sole che cominciava ad affacciarsi tra i rami degli alberi. Poco prima delle otto decisi che era arrivato il momento di un altro caffè e mi diressi in cucina. Nell'afferrare la moka mi domandai se Kade stesse ancora dormendo, ma smisi di chiedermelo quando sentii un rumore di passi scendere le scale. Oh, Dio... È sveglio.
«Buongiorno». La voce di Kade mi fece trasalire e il caffè strabordò leggermente dalla mia tazza.
«Buongiorno». Gli risposi di spalle, utilizzando il suo stesso tono piatto. Riportai la moka sul gas spento e mi voltai, sorseggiando il caffè nella speranza di trovare la giusta forza per guardarlo.
Kade indossava un paio di pantaloncini da calcio neri, una T-shirt sportiva dello stesso colore e un paio di scarpe da ginnastica. Per un attimo mi concedette i suoi occhi e restammo qualche secondo fermi ad osservarci. Era sempre così bello, nonostante il suo look atletico e i capelli in disordine.
Fui io a interrompere il contatto dei nostri occhi perché essi, involontariamente, scesero e si fissarono sul suo braccio destro dove il serpente lo stringeva e mi ammaliava. Mi era mancato anche quello. «Vuoi del caffè?». Gli chiesi per smorzare l'imbarazzo.
«No, grazie». Si limitò a dire. Freddo. Gelido. Indifferente. Lo vidi dirigersi verso il frigo e aprirlo, chinandosi per osservarne il contenuto. Inutile che controlli, ci sono solo birre! Pensai, ma evitai di dirlo. C'era un impellente bisogno di andare a fare un po' di spesa o sarei morta di fame. Aspetta, quindi ho deciso di rimanere? Scossi la testa, cercando di non distrarmi e di rimanere concentrata su di lui.
«Vai in palestra?». Domandai mentre prendeva un bicchiere e lo riempiva con dell'acqua. Era quella la sua colazione?
«No, vado a correre. Non ci metterò molto». Kade si trovava di fronte al lavello e mi dava le spalle. Io mi sedetti su uno degli sgabelli in cucina e mantenni gli occhi fissi sulla sua schiena, in silenzio, non sapendo cos'altro dire. «Ti sei svegliata presto stamattina?». Mi fece la sua prima domanda mattutina senza neanche guardarmi, ma decisi di farmelo andar bene lo stesso. Era già qualcosa.
«Sì, io...». Glielo dico o non glielo dico? Glielo dico o non glielo dico? «Ho chiamato Trixie poco fa e...». Glielo dico? Non glielo dico? Cazzo! «Penso di rimanere per tutta la settimana». Ecco, gliel'ho detto. Kade, che stava per riporre il bicchiere nel lavello, si bloccò a mezz'aria, probabilmente scioccato dalla mia rivelazione. Si trattò di qualche secondo, forse tre, poi parve tornare in sé. Sistemò il bicchiere e si voltò, studiandomi con le sue magiche pozze blu.
«Rimani?». Lo chiese come se fossi pazza e, diciamocelo, non aveva tutti i torti. La sera prima sarei voluta scappare via, mentre adesso gli dicevo di voler rimanere. Ero pazza sul serio?
«Se per te non è un problema, ovviamente. Trixie pensa che io abbia bisogno di staccare la spina e... forse ha ragione. Voglio solo passare una settimana in estrema tranquillità. Non ti disturberò, lo prometto». Dissi, sperando di convincerlo e di non sembrare opprimente. Kade continuò a guardarmi per un po', riflettendo sul da farsi e sulle mie parole. Poi, improvvisamente, si staccò dal lavello e si diresse verso l'uscita, parlando senza degnarmi di uno sguardo.
«Non m'importa. Se ci sei o non ci sei non mi cambia nulla, quindi fa' come ti pare». E se ne andò, sbattendosi la porta alle spalle talmente forte da far tremare il muro e, con esso, i frammenti del mio cuore.
Se ci sei o non ci sei non mi cambia nulla.
Sospirai a fatica, consapevole che quella frase si fosse già incisa nella mia mente, indelebile e indimenticabile.
«Bella mossa, Aria». Sussurrai a me stessa, finendo di bere il mio secondo caffè senza altre interruzioni. Dopo aver terminato anche quello, decisi di lavare le poche stoviglie utilizzate per passare il tempo. Mi ci vollero cinque minuti, poi mi guardai intorno e mi chiesi cosa fare. In realtà, una cosa importante a cui provvedere era la spesa. Avrei dovuto aspettare Kade? Chissà quanto ci avrebbe messo a correre, però. Sarei potuta andare a piedi? Quella poteva essere un'idea, anche se di camminare non mi andava. Accantonando la pigrizia, presi il telefono e cercai il supermercato più vicino, dandomi una possibilità. Dalle mie ricerche venne fuori che il più accessibile a livello di distanza era a dieci minuti dalla mia posizione. Dieci minuti di macchina equivalevano a troppo tempo a piedi, almeno per le mie abitudini e il mio fisico poco allenato.
Sbuffai, delusa e amareggiata di non potermi muovere, almeno non senza... «No!». Esclamai a voce alta, frenando i pensieri che non stavano prendendo una buona strada. «Non pensarci neanche». Mi dissi in un mormorio, tralasciando il fatto che stessi parlando da sola come una pazza.
Mi guardai ancora intorno e, inevitabilmente, posai gli occhi sull'attaccapanni vicino all'entrata sopra il quale era appesa la giacca di Kade. Una di quelle giacche a vento leggere ed estive in cui sicuramente avrei trovato... «No!». Affermai di nuovo, ma le mie gambe si stavano già muovendo e la mia testa era già andata oltre, azionando il corpo e ignorando le parole. Stai facendo una cazzata, Aria. Stai facendo una grandissima cazzata. Invece che frenarmi, però, quei pensieri mi spinsero ad andare avanti e in un batter d'occhio mi ritrovai di fronte all'attaccapanni. Sollevai un braccio e infilai la mano nella tasca destra. Vuota. Bene. Se non le trovo, non cedo. Con un po' di esitazione, infilai la stessa mano nella tasca sinistra e... «Cazzo!». Imprecai, consapevole di star per cadere in tentazione. Fissai le chiavi che avevo tra le mani e, in particolare, mi concentrai sul simbolo della BMW che se ne stava lì, perfetto e luccicante, spingendomi a cascare in quel tranello che la mia mente aveva già ideato. «No, no, no!». Alzai gli occhi al cielo e cominciai a camminare per il salone, stringendo quelle maledette chiavi tra le dita. Avrei potuto prendere la macchina di Kade e andare al supermercato, certo, ma lui come l'avrebbe presa? Male! Sicuramente male! Però era l'unico modo per riempire quella casa di cose commestibili e digeribili. Cacciai un urlo frustrato al soffitto e presi una decisione, quella più sbagliata e incosciente, ma la presi e cominciai a darmi da fare.
Corsi al piano di sopra, indossai un jeans e un top rosa chiaro, mi sistemai alla bell'è meglio i capelli sulle spalle e afferrai la borsa prima di tornare al piano terra. Uscii sul portico e scesi le scalette in legno, sbrigandomi a fare il giro della casa. La macchina doveva stare lì. Doveva starci per forza.
Il retro si rivelò tanto ampio quanto il davanti. Un grande spiazzo divideva la villa dagli alberi e proprio lì, sul lato destro, trovai l'oggetto delle mie ricerche: la maestosa e magnifica auto di Kade.
Con calma cominciai ad avvicinarmi, studiando ogni particolare. Il nero lucido e ben pulito della carrozzeria mi sbatté sugli occhi, quasi accecandomi. Era rimasta perfetta e senza neanche un graffio, uguale a come l'avevo vista l'ultima volta. Si poteva tenere una macchina in modo così maniacale? A quanto pareva sì, se ti chiamavi Kade Acker.
Sbuffai sonoramente, chiedendomi se stessi facendo la cosa giusta. Andiamo, Aria! È solo una macchina e tu stai solo andando a fare la spesa. La mente giocò a suo vantaggio, spingendomi ad andare minimizzando la situazione. Utilizzai le chiavi per aprire l'auto e montai sopra. «Oddio». Sussurrai. Non ero mai salita da quel lato e iniziai ad avere l'ansia. Strofinai le mani leggermente sudate sui jeans e mi lasciai avvolgere dal profumo di Kade che subito invase l'abitacolo, penetrando le mie narici.
Dopo aver preso un respiro profondo, sistemai il sedile per arrivare ai pedali e lo specchietto retrovisore per vedere meglio, poi accesi il motore e allacciai la cintura. Impostai il navigatore inserendo la via del supermercato trovato su Internet e puntai gli occhi di fronte a me. «Ce la puoi fare». Mi dissi. «Sai guidare, no?». Mi sfottei da sola, posando le mani sul volante e stringendo forte. La mia macchina aveva dimensioni nettamente inferiori rispetto a quella che stavo per portare, ma cercai di non pensarci. Spinsi col piede sull'acceleratore e finalmente partii. «Ohhh». Il pick-up di Kade si rivelò molto sensibile ai comandi e anche abbastanza veloce, dati i suoi cavalli e la sua potenza. Andando il più piano possibile, feci il giro della casa e imboccai la strada sterrata da cui ero arrivata con il taxi, pregando che la corsa di Kade durasse almeno due ore. Magari sarei riuscita a fare tutto senza che se ne rendesse conto.
Seguii il navigatore passo dopo passo, rispettando ogni limite e non superando i 70 Km/h.
Dopo poco più di dieci minuti, il cartello del supermercato mi apparve come una visione. Cercai il parcheggio più grande possibile e mi ci fiondai, stando attenta ad entrarci bene. Quando scesi dalla macchina, tirai un respiro talmente profondo che i miei polmoni chiesero pietà.
Non era stato difficile, ma aver preso l'auto di Kade senza il suo permesso si stava rivelando un'ansia troppo forte da sopportare. Cercando di spegnere la mente mi avviai all'entrata, controllando almeno dieci volte che la macchina fosse realmente chiusa.
Una volta entrata al supermercato, però, mi dimenticai di tutto. Fare la spesa mi calmava e, a dirla tutta, mi piaceva pure. Girare tra gli scaffali deliziandomi con la vista del cibo ben confezionato e ordinato mi permetteva di staccare la mente e di concentrarmi solo su ciò che serviva o su ciò che mi andava di comprare.
Dolci! Avrei potuto fare un bel dolce, quello sì che mi avrebbe fatta rilassare!
«Relax e divertimento. Divertimento e relax». Bisbigliai, ripetendo come un mantra le parole di Trixie.
Come prima cosa, mi fiondai nel mio reparto preferito e presi un bel pacco di biscotti per fare colazione. Successivamente, mi occupai di prendere l'occorrente per preparare qualche dolce. Feci scorta di farina, zucchero, burro, lievito, uova, diversi tipi di olio e... Cosa manca? Pensai, continuando a girare.
«Il latte!». Esclamai ad alta voce quando passai davanti al frigorifero. C'era bisogno di una bella scorta di latte, sì. Infilai tre bottiglie nel carrello e proseguii, sfilando per le corsie del supermercato. Mi diressi al reparto dei surgelati e cominciai fornirmi anche di quelli. Stavo per afferrare una bella busta di patatine da friggere quando il cellulare squillò, interrompendo le mie intenzioni. Aprii per metà la borsa e lo pescai dall'interno, pensando subito a mio figlio. Il nome che lessi sul display, però, mi lasciò senza fiato.
Kade.
Merda, merda, merda. Si era accorto solo della mia assenza o anche della macchina? Oh, Dio... Tentennai e mi guardai attorno, come se avessi paura che qualcuno mi sentisse. Data l'ora, però, girava poca gente quindi quel problema non si poneva. Presi un respiro e risposi, pregando per me stessa.
«Pronto?».
«Dove cazzo sei?». Kade mi aggredì senza neanche salutarmi. Non iniziamo bene.
«Ciao anche a te». Ironizzai, spostandomi in un angolo per dar meno nell'occhio.
«Ti ho fatto una domanda, Aria». S'impose, autoritario e rigido.
«E io ti ho dato una risposta, Kade. Dovresti iniziare le conversazioni in modo più educato, sai?». Lo stuzzicai, masochista quale ero.
«Te lo dico subito, non farmi perdere la pazienza. Ora dimmi dove cazzo sei andata con la mia fottuta macchina!». Disse, alzando il tono di voce e svelando i miei dubbi.
«Te ne sei accorto, allora».
«Pensavi davvero il contrario?».
«Ci avevo sperato». Ribattei. «Sei già tornato dalla corsa?».
«Aria, dove sei? Mi sto innervosendo». La sua insistenza cominciò ad infastidirmi a tal punto che cominciai ad alterarmi.
«Ma dove vuoi che sia? Al supermercato! Solitamente cosa mangi durante il giorno? Il nulla? Perché in casa tua non c'è traccia di cibo e avevo bisogno di fare la spesa! Problemi?». Gli sbattei in faccia la realtà senza preoccuparmi di tenere a freno i toni. Mi stava stufando!
«Ho problemi, sì, visto che frughi tra la mia roba e mi rubi pure la macchina!». Alzai gli occhi al cielo, esasperata.
«Non ti ho rubato un bel niente, Kade. Ho solo preso in prestito l'unico mezzo disponibile per spostarmi di qualche kilometro!». Lo sentii sbuffare e lo immaginai andare avanti e indietro sul portico, sudato per la corsa e furioso per le mie parole.
«Dimmi dove sei». Ordinò.
«Ma cosa t'importa? Se la finisci di rompermi le palle, magari riesco a tornare per l'ora di pranzo!». Ripresi il carrello e tornai a passeggiare tra le corsie, sperando che quella chiamata s'interrompesse presto.
«Frena quella fottutissima lingua che ti ritrovi!». Mi rimproverò, ricordandomi quanto fosse fissato col mio linguaggio. «Se non mi dici dove sei, ti faccio fuori con le mie mani appena ti vedo e...».
«Va' a farti fottere!». Glielo dissi staccando il cellulare dall'orecchio e urlando contro il display, prima di attaccargli in faccia e buttare con rabbia quell'aggeggio elettronico in borsa. Non mi curai della gente che mi guardò malamente e proseguii con la spesa. Ma chi si credeva di essere? Dove sei, dove sei, dove sei. Ci teneva così tanto alla sua macchina da non poter starle lontana neanche un quarto d'ora? Roba da matti.
Sentii il cellulare vibrare almeno altre tre volte, ma lo ignorai. Riempii il carrello di verdura e carne, sbattendo le cose con violenza a causa del nervosismo. Era riuscito a farmi arrabbiare con una sola telefonata. Fantastico!
Dopo una decina di minuti mi ritrovai a girare tra i reparti senza meta, pensando solo alla rabbia che mi aveva provocato e che ora sentivo scorrere nelle vene. Si poteva essere così arroganti? Avrei fatto il giro più lungo per tornare a casa solo per farlo attendere un po' di più!
Mentre ideavo i miei piani diabolici, mi accorsi che una cosa mancava all'appello: la pasta. Non ero la migliore a prepararla, ma un piatto di pasta ogni tanto mi avrebbe risollevato il morale. Non che ci voglia tanto, visto il prepotente che devo sopportare!
Mi fermai ad osservare lo scaffale, cercando di distrarmi nel leggere i nomi dei formati e nello scegliere il migliore. Avevo sempre preferito la pasta corta agli spaghetti, così mi concentrai su di essa, aguzzando la vista per trovare un pacco che fosse di mio gradimento. Eccolo! Mi alzai sulle punte, allungando la mano verso un formato che, nonostante la sua posizione alta, aveva attirato la mia attenzione.
«Scaffali un po' più bassi no, eh?». Bisbigliai, lamentandomi con il nulla e aggrappandomi ad uno dei ripiani per sollevarmi meglio. Ci stavo riuscendo, avevo quasi raggiunto l'obiettivo sconfiggendo la mia scarsa altezza, quando una mano sostituì la mia e afferrò il pacco di pasta, fregandomelo sotto agli occhi. Non fu necessario voltarsi per capire di chi si trattava. Il corpo del serpente tatuato sul suo braccio fu la prima cosa che notai, ma non di certo l'unica. Come cavolo ha fatto a trovarmi?!
Mi girai di scatto e me lo ritrovai di fronte, a pochi centimetri di distanza dal mio corpo. Il suo odore mi avvolse quasi subito, un misto di deodorante e dopobarba, e il suo aspetto, beh... Indossava gli stessi identici vestiti di quella mattina – T-shirt sportiva e pantaloncini da calcio – solo che in quel momento era decisamente più sudato e spettinato. Aveva i capelli tirati indietro, probabilmente bagnati di acqua e sudore. La maglietta gli si era appiccicata alla pelle, accentuando i suoi pettorali e risaltando ogni suo maledetto muscolo. Conciato in quel modo, risultava così virile, eccitante, attraente e...
«È così facile trovarti in un supermercato, Aria. Il reparto della pasta è il tuo preferito?». Ironizzò, riferendosi sicuramente ad uno dei nostri primi incontri, quando mi aveva beccata al supermercato con mio figlio. Prepotente! Virile, eccitante, attraente e prepotente, diamine!
«Cosa diavolo ci fai qui?». Gli chiesi, scocciata e stizzita. Gli strappai il pacco di pasta tra le mani e lo infilai nel carrello, dandogli le spalle e ignorandolo.
«Sono venuto a riprendere ciò che è mio». L'istinto fu quello di spalancare la bocca, ma mi trattenei. Ciò che è mio... Sentii il cuore fare un saltello nel petto. Non parla di te, stupida!
«E come sei venuto?». Gli domandai, fingendo interesse solo per zittire la mia mente.
«Correndo, ovviamente». Mi bloccai a metà corsia, guardandolo come se fosse un alieno.
«Tu sei pazzo». E glielo dissi senza alcuna esitazione.
«Attenta a come parli, Aria. In questo momento sono particolarmente suscettibile e altamente incazzato». Il suo tono rigido e serio non mi scalfì. Ripresi a camminare, dimostrandogli tutta la mia indifferenza.
«Non me ne frega un ca...». Non riuscii a terminare la frase. Il fiato mi si mozzò in gola quando Kade mi afferrò violentemente per un braccio e mi sbatté sul primo scaffale disponibile, senza curarsi della gente o del carrello mollato in mezzo alla corsia. Si avvicinò a me, il viso a pochi millimetri di distanza, la mano poggiata tra il collo e il seno per tenermi ferma.
«Correndo fino a qui ero riuscito a sbollentare la rabbia, anche se di poco. Quando sono entrato e ti ho vista ho deciso di comportarmi bene, di rimanere calmo e tranquillo, ma se ti azzardi a dire un'altra parolaccia o a rispondermi male te ne farò pentire, Aria. Hai capito?». Il suo respiro affannato mi colpì il viso. A quella distanza riuscii a bearmi della vista dei suoi occhi, ora meno spenti, ora più accesi e luccicanti. Pur volendolo, non mi lasciai tentare dalla bellezza delle sue iridi e mi concentrai sulle sue minacce. Poggiai le mani sul suo petto e lo spinsi via con forza, allontanandolo da me e avvertendo subito la mancanza del suo calore. Che si fottesse!
«La vuoi sapere una cosa?». Sussurrai, desiderando di attaccarlo in qualche modo. Mi avvicinai nuovamente al suo corpo e mi sollevai sulle punte, mormorandogli nell'orecchio una sola e unica parola: «Puzzi». Detto quello, mi staccai e ripresi il carrello, sperando di averlo colpito e affondato. Poco dopo, però, me lo ritrovai affianco.
«Non è vero». Rispose solo, senza aggiungere altro ma guardandomi male. E aveva ragione, cavolo se aveva ragione. Nonostante avesse corso e fosse sudato, il suo odore era rimasto buono, piacevole, profumato, ma ovviamente lo tenni per me.
«Credi quello che vuoi». Gli dissi, mantenendo il punto ed evitando il suo sguardo. «Come hai fatto a trovarmi, poi?».
«Ho un'applicazione sul telefono che mi dà la posizione della macchina». Maledetto. «Devi prendere altro, comunque? Direi che hai fatto un buon rifornimento». Esclamò, fissando il carrello colmo di roba.
«Quello che faccio non deve interessarti». Ribattei, utilizzando il suo stesso tono distaccato.
«Aria...». Mi rimproverò lui.
«Aria un corno. L'hai visto il tuo frigo?». Lo guardai e me ne pentii immediatamente. Kade alzò un braccio e si tirò i capelli indietro, aggiustando un ciuffo sfuggito al suo controllo. Ancora non mi ero abituata al suo nuovo look. Più tempo passavo in sua compagnia, però, e più mi veniva voglia di infilare una mano tra le sue ciocche per giocarci e tirargliele. Notai i muscoli del braccio flettersi e i suoi occhi incastrarsi ai miei. Socchiusi le labbra in cerca d'ossigeno. Si poteva essere così belli?
«Smettila di guardarmi così». Sussurrò Kade, afferrando poi il carrello per tenerlo dritto, dato che non stavo più prestando attenzione alla nostra direzione. Mi insultai mentalmente e riportai lo sguardo sul davanti, evitando distrazioni.
«Cosa mangi durante il giorno?». Gli chiesi, ignorando la sua precedente affermazione. «Seriamente, Kade. Non puoi vivere di birra e gelato». Calcai il tono sull'ultima parola e con la coda dell'occhio lo vidi irrigidirsi. Beccato!
«Quello che faccio... Anzi, quello che mangio non deve interessarti». Ribatté, copiandomi palesemente. Alzai gli occhi al cielo e non risposi. Prepotente.
Ci muovemmo in qualche altro reparto in assoluto silenzio. Presi altre due cose essenziali per i miei dolci – le gocce di cioccolato e la granella di nocciole – e cominciai a dirigermi verso la cassa.
«Tu vai, io arrivo subito». Ordinò lui col suo solito tono indifferente. Io non aprii bocca e andai verso le casse, scegliendo la numero quattro perché era quella con meno gente. Avevo il carrello strapieno, era vero, ma almeno per qualche giorno non sarei più dovuta tornare al supermercato.
Il vecchietto davanti a me ci mise molto poco, avendo in mano solo una bottiglia di latte e un pacco di biscotti, così il mio turno arrivò in un attimo.
«Buongiorno». La cassiera mi salutò un po' scontrosa. Il malumore gli si leggeva in faccia, ma non gli diedi peso. Si trattava di una ragazza giovane: capelli biondi e accuratamente piastrati, occhi chiari, labbra piene e seno formoso. Era seduta, quindi la mia vista non poté andare oltre, ma le sue tette ben in mostra attirarono controvoglia la mia attenzione. Indossava una camicia bianca con lo stemma del supermercato, ma pareva aver preso una taglia in meno solo per farla risultare scollata, così che i bottoni tirassero, lasciando poco all'immaginazione.
«Salve». La salutai di rimando, cominciando a caricare la roba sulla cassa e chiedendomi cosa diavolo stesse facendo Kade.
«Eccomi». I miei pensieri sembrarono invocarlo e lui comparve alle mie spalle, con una confezione di birra tra le mani.
«Stai scherzando?». Guardai quasi schifata la cassa contenente sei birre medie. «Non ti bastano quelle che hai a casa?». Lui fece per rispondermi, ma una voce acuta e odiosa lo interruppe.
«Kaaaade!». Mi voltai verso la cassiera, spalancando la bocca davanti al suo sguardo incantato. Lo conosceva?
«Ciao, Chantal». Di scatto girai la testa verso Kade, stupita e leggermente contrariata. Si conoscevano? Lui le sorrise – un sorriso di quelli che ti fanno bagnare e svenire allo stesso tempo – ed io... io... La gelosia cominciò a montare. Una gelosia furiosa, carica di rabbia e fastidio, che invase la mia mente e scacciò ogni briciolo di razionalità.
«Finalmente ci rivediamo! Dove eri finito?». La mitica Chantal si protese in avanti, sistemandosi la camicetta e tirandola più in basso solo per mostrare ancor di più le sue tette. Razza di...
«Sono stato un po' impegnato in questi giorni». Le rispose Kade, interrompendo i miei pensieri poco gentili. Il tono indifferente e piatto che utilizzava con me era scomparso, lasciando spazio ad una voce sensuale e provocante. Anche il malumore di Chantal sembrava sparito. Ora i suoi occhi erano solo per lui.
«Facciamo un conto unico?». Rivolsi quella domanda a Kade senza nascondere la mia gelosia, ponendogliela solo per far capire alla cassiera che non era da solo.
«State insieme?». Domandò infatti lei, guardandomi come fossi un animale a tre teste da far fuori seduta stante.
«Sì, siamo...».
«Cugini». Mi interruppe Kade ed io mi voltai verso di lui, gli occhi fuori dalle orbite. Sta scherzando? «Lei è mia cugina». Ripeté, fissandomi con sfida, come a voler dire "Prova a contraddirmi". Ed io volevo farlo, volevo urlare a tutti che non era vero, che stava mentendo, ma non lo feci. Rimasi in silenzio, carica di odio, e continuai a sistemare le cose sulla cassa.
«Ah, che bello!». La voce stridula di Chantal mi fece male alle orecchie. Kade mi superò e le fece vedere la confezione di birra in modo che potesse segnarne il codice sul display. «Allora, quando me la offri una birra, dato che ne compri sempre così tante?». La biondina ci provò spudoratamente ed io non potei fare a meno di sfogarmi a gesti, visto che a parole non potevo. Me la presi con il povero pacco di farina, che sbattei sul ripiano senza preoccuparmi di dare nell'occhio o di fare una scenata. Percepii lo sguardo di Kade addosso, ma lo ignorai. Che si fottesse due volte!
«Anche domani sera, se sei libera». E a quella risposta, la mia vittima fu il pacco di biscotti. Li sentii frantumarsi a causa della botta, ma me ne fregai. Respira, Aria. Respira, mi dissi. Lo trovavo alquanto difficile, però, perché Kade aveva appena preso un appuntamento con Miss Belle Tette. Non ci posso credere.
«Ma certo! Facciamo a casa tua?». Lasciai perdere la spesa e guardai il diretto interessato, attirando il suo sguardo sul mio viso. Non mi vergognai di dimostrargli il mio disaccordo, la mia rabbia e il mio dispiacere. Non mi vergognai di niente e lo pregai, in silenzio, senza parlare. Lo pregai di rifiutare, glielo chiesi con gli occhi e con la mente, sentendo il cuore già pronto a trasformarsi in cenere.
«Sì». Rispose invece, senza smettere di fissarmi. «Va bene a casa mia». E il mio cuore, già distrutto, perse un battito prima di disintegrarsi totalmente. Non può fami questo, pensai. Ma lo aveva già fatto e non c'era modo di tornare indietro. Nonostante fosse consapevole della mia presenza in casa, stava organizzando un appuntamento con la cassiera del supermercato che conosceva... Da quanto? Due settimane? Non ci posso credere.
Mi concentrai nel caricare la cassa e ignorai la loro successiva conversazione. Dopo aver finito di svuotare il carrello, passai dall'altra parte e sistemai tutta la spesa nelle buste. Distrattamente vidi Kade offrirsi di pagare il totale e lo lasciai fare. Non mi importava più di nulla, ormai.
Riempii il carrello con quattro buste piene di roba e mi avviai all'uscita senza neanche aspettarlo, ma passò solo qualche secondo prima di sentirlo nuovamente al mio fianco.
«Dove hai messo la macchina?». Ebbe il coraggio di chiedermi. Io non gli risposi e continuai per la mia strada, mostrandogli concretamente dove fosse la sua auto. Arrivata al pick-up, pescai le chiavi dalla borsa e lo aprii. Di sua spontanea volontà Kade prese le buste e le caricò nel cassone, così io afferrai il carrello vuoto e lo riportai indietro, rimettendolo al suo posto. «Le chiavi». Mi disse lui quando tornai alla macchina. Non lo chiese gentilmente. Anzi, non lo chiese proprio. Lo ordinò e basta ed io lo accontentai. Gli lanciai le sue stupide chiavi che lui prese al volo, contrariato e incazzato. Che si fottesse TRE volte!
Senza degnarlo di uno sguardo, mi voltai e mi diressi verso la portiera lato passeggero. Stranamente, però, non andai molto oltre. Kade mi prese per un gomito e mi fece girare bruscamente, impedendomi di salire. «Che ti prende, eh?». Sorvolai sul suo tono scontroso e mi concentrai nel non far trasparire alcuna emozione.
«Niente». Dissi solo, cercando di isolare la mente e di non pensare alla sua mano sulla mia pelle.
«Non dire cazzate».
«Non ho niente».
«Aria...».
«Lasciami in pace, okay?». Lo interruppi, tirando via il braccio dalla sua stretta. «Tu hai la tua vita, io la mia. Stare sotto lo stesso tetto non ci obbliga ad interessarci l'uno dell'altro. Se ci sono o non ci sono non cambia nulla, no?». Gli dissi, ripetendo l'espressione utilizzata da lui quella mattina. «Quindi fa' quello che vuoi perché io farò ciò che voglio». Gli diedi le spalle e montai in macchina, sentendo a malincuore un bruciore nell'esatto punto in cui, poco prima, c'era stata la sua mano.

***

Per tutto il resto della giornata io e Kade non ci parlammo.
Una volta rientrati a casa, avevo deciso di chiudermi in camera e di sistemare la valigia per distogliermi dall'idea di strozzarlo con le mie stesse mani. Ero uscita soltanto verso l'ora di pranzo e, grazie a Dio, non l'avevo trovato in giro. Ignorando totalmente la sua assenza, avevo preparato un po' di verdura ed ero tornata in stanza. La stessa cosa si era ripetuta a cena, con l'unica differenza che l'avevo beccato sul divano a bersi una birra. Che novità. Non gli avevo chiesto se avesse fame. Non gli avevo domandato se volesse mangiare qualcosa. Avevo semplicemente finto di non averlo notato e mi ero cucinata un hamburger. La fame era passata, ma mi ero obbligata lo stesso ad ingerire qualcosa o avrei faticato a dormire, quella notte. Dopo aver ultimato il mio insulso pasto, ero salita nuovamente in camera e mi ero sbattuta la porta alle spalle, tanto per sottolineare il mio disappunto.
Ora mi trovavo sul letto, la schiena poggiata alla testiera e il pigiama estivo di pizzo già indosso. Per combattere la noia, mi ero scaricata un gioco con cui mi stavo intrattenendo. Cos'altro potevo fare, se non quello? Di vedere la tv non mi andava. Di scendere ed incontrarlo tantomeno. Avevo già chiamato mia madre per sentire come fosse andata la mattinata con Tommy. Poi avevo chiamato Trixie e avevo parlato sia con mio figlio che con i suoi "zii preferiti". Almeno con loro ero riuscita a farmi due risate. Non avevo raccontato alla mia migliore amica l'avventura del supermercato. Il solo pensiero di quella Chantal mi faceva... «Fanculo!». Sbattei un pugno sul materasso e sospirai. Come mi sarei dovuta comportare il giorno dopo? Non riuscivo neanche a immaginarmi la scena. Si sarebbero accomodati sul divano a bere la loro pietosissima birra, e io? Sarei rimasta a guardare? Gli avrei fatto compagnia? Dio... Probabilmente mi sarei chiusa in camera, maledicendoli per tutta la sera. Lo odio. Lo odio. Lo odio. Non facevo altro che ripetermelo in testa, sperando di odiarlo davvero e fallendo miseramente. Avrei potuto pensarlo anche un centinaio di volte. Dentro di me, però, già sapevo che non sarei mai riuscita ad odiarlo sul serio.
Mi coprii il viso con le mani, esasperata. «Cos'ho fatto di male per meritarmi questo?». Borbottai, con i palmi premuti sulla bocca. «Sto delirando». Pensai ad alta voce, alzandomi dal letto con aria affranta. Era meglio andarsi a lavare e mettersi a dormire. Magari sarei riuscita a spegnere la mente...
Senza preoccuparmi del mio aspetto, presi il beauty case contenente i detergenti e le creme e uscii dalla stanza. Feci qualche passo verso il bagno, ma mi bloccai immediatamente quando sentii la voce di Kade invadermi le orecchie. Mi voltai e puntai gli occhi sulla porta della sua camera, accostata e non chiusa. Mh... Comandata dall'istinto e dalla curiosità piuttosto che dalla razionalità, mi avvicinai cautamente a quella porta percependo la voce di Kade sempre più chiara e comprensibile. Per un attimo mi sfiorò il pensiero di tornare indietro, ma lo ignorai totalmente. Arrivai di fronte alla sua camera e mi avvicinai per cercare di vederlo attraverso lo spiraglio lasciato aperto.
Kade era sdraiato sul suo letto, viso al soffitto e gambe mezze piegate. Indossava la tuta con cui lo avevo visto nel pomeriggio e aveva il telefono poggiato sul petto. Sembrava stesse parlando con qualcuno utilizzando il vivavoce, così cercai di non farmi distrarre dalla sua figura e mi concentrai sulla conversazione.
«Mi ha preso la macchina, ti rendi conto? Se n'è andata tranquillamente al supermercato senza dirmi un cazzo! Ti sembra una cosa normale?». Il mio interesse arrivò a livelli incredibili quando capii che stava parlando proprio di me. Attaccai l'orecchio alla porta e trattenei il respiro, continuando ad ascoltare.
«È un portento, quella ragazza. Io la adoro!». La voce di Jesse mi arrivò un po' ovattata e attutita, ma indubbiamente riconoscibile.
«Ma finiscila, stronzo!». Sentii dire da Kade. «Ancora non capisco cosa vi sia passato per la testa a te e a Trixie».
«Stiamo solo cercando di fare del bene per i nostri amici. Avete bisogno di chiarirvi, non credi?».
«Non lo so. Non credo più a niente io». Il tono in cui lo disse mi distrusse. Chiusi gli occhi già lucidi e deglutii a fatica, ma non mi mossi da lì.
«Capisco il tuo stato d'animo, Kade». Lo compatì Jesse. «Ti consiglio di non trattarla male, però. Non se lo merita».
«Cosa intendi per "non trattarla male"?».
«È molto semplice. Non devi comportarti da coglione!».
«E come dovrei comportarmi? Non le ho chiesto io di venire qui a rompere le palle per una settimana».
«Lo vedi? Ti stai comportando da coglione».
«Se proprio la vuoi sapere tutta, domani ho un appuntamento con una ragazza».
«Mi prendi per il culo?».
«È Chantal, la cassiera del supermercato. Mi ha chiesto di offrirle una birra a casa ed io ho accettato».
«Viene lì a casa? E Aria?».
«Aria farà ciò che vuole. Chantal pensa che sia mia cugina».
«Tu sei fuori di testa, amico. Dopo una mossa del genere, io te l'avrei sfondata la macchina».
«Fammi capire. Sei mio amico o suo amico?».
«Sono amico di entrambi, ma tu sei un coglione. Hai intenzione di portartela a letto questa... Chantal?». Strinsi i pugni talmente forte da ferirmi i palmi con le unghie. Il dolore però mi diede la giusta dose di coraggio per affrontare una sua risposta a quella domanda a dir poco critica.
«Io... Ma che cazzo di domande sono?».
«Sono domande che ti salvano il culo, Kade. Non puoi farle una cosa del genere. Non te lo permetterò».
«Non puoi fermarmi, Jesse».
«Ascoltami. Se Aria portasse a casa un uomo e ci scopasse, tu come la prenderesti?».
«Non la prenderei, perché non accadrà mai una cosa del genere».
«Ne sei così sicuro?».
«Non farmi incazzare».
«Ti metto solo in faccia la realtà. A te brucerebbe il culo, fidati di me, quindi domani beviti la tua fottuta birra con Chantal e poi mandala a casa».
«Va bene, papà».
«Sii gentile con Aria».
«È un po' difficile dato che nemmeno mi parla, ora».
«Questo perché sei un...».
«Coglione! Ho capito!».
«Bravo».
«Adesso mi metto a dormire anche se mi hai fatto passare il sonno, rompipalle!».
«Dai un bacio ad Aria da parte mia».
«Fanculo, Jesse! Buonanotte!».
Al termine della chiamata fuggii via, sempre silenziosamente, cercando di non farmi sentire. Andai in bagno e poi tornai in camera, ripercorrendo nella mente la loro conversazione e arrivando ad una conclusione: la settimana successiva avrei fatto ritorno a casa, sì, ma senza una parte del mio cuore. Quella sarebbe rimasta con Kade, l'unico in grado di raccoglierne i frammenti e rimetterli insieme, l'unico capace di ripararlo e possederlo.
L'unico uomo che non avrei mai dimenticato.

Permettimi di amartiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora