Capitolo XXIII

266 12 8
                                    

A volte mi piacerebbe isolare la mente. Non sarebbe bello, anche solo per un giorno, smettere di pensare? Di riflettere? Di ragionare? L'abilità di pensiero è una cosa meravigliosa, sia chiaro. Una capacità che noi esseri umani abbiamo il privilegio di avere, però... Delle volte preferirei spegnermi. Vorrei poter cliccare un tasto, come si fa con l'interruttore della luce, e calare nel buio, per poi risvegliarmi più forte di prima, più audace, più vigorosa, più sana.
Dormire era bello, sì. La notte riuscivo a tranquillizzarmi, almeno inizialmente, perché la mente non mi torturava coi suoi mille pensieri. Poi, però, cominciavano i sogni e il dormire diventava un incubo peggiore della veglia. Perché dormendo, sognavo. Sognando, lo vedevo. E vedendolo, soffrivo.
La mia testa creava situazioni crudeli, situazioni in cui lo avevo di fronte ma non riuscivo a sentirlo, a toccarlo, a parlargli. E mentre io lo vedevo, così nitido e chiaro, lui sembrava non farlo, come se davanti non avesse nessuno, come se non esistessi. E forse era proprio così, nella realtà. Forse i sogni mi svelavano una verità nascosta a cui non volevo credere. Una realtà in cui io, per lui, non esistevo più. Scomparivo, calpestata dal mio stesso amore, dal mio istinto di protezione nei suoi confronti che era stato visto dall'altra parte come un tradimento.
Lui... Non avevo più pronunciato il suo nome. Se pensarlo era doloroso, nominarlo sarebbe stato distruttivo. Nel suo nome erano racchiusi troppi ricordi, troppe emozioni, troppo... sentimento, quindi non l'avrei pronunciato, no. Sarebbe rimasto "lui". Semplicemente lui.
E anche in quel momento, mentre percorrevo il viale del cimitero con dei profumatissimi fiori tra le mani, circondata da file e file di lapidi, sotto il sole cocente di un'estate alle porte, lo pensavo.
Perché se nel cuore avevo Tommy, nella mente avevo lui.
Annusai il mazzo di ciclamini sorprendendomi ancora per il loro colore così bello, un misto di rosa e bianco perfettamente abbinato, e proseguii la mia camminata nel cimitero.
Non ci venivo spesso. In realtà, non ci venivo quasi mai, per il semplice fatto che lo trovavo molto difficile. Quel giorno, però, ne sentivo quasi il bisogno. Soffrire per me era diventata un'abitudine e ritenevo più che giusto riservare un po' di quella sofferenza per mio padre.
Salutai educatamente il giardiniere quando incrociai il suo sguardo e alla fine del viale mi diressi verso destra, vicina alla destinazione. La lapide di papà risiedeva in un angolo, abbastanza solitaria e distante dalle altre, nel posto che più preferivo. Appena arrivata, presi il vaso coi fiori ormai morti e lo andai a svuotare. Dopo esser tornata indietro, riempii quello stesso vaso con l'acqua che mi ero portata e ci infilai quei bellissimi ciclamini, sistemandoli a dovere prima di posizionarli con cura su un lato.
Mi inginocchiai, fregandomene della terra che avrebbe macchiato i miei jeans, e lasciai cadere la borsa al mio fianco, fissando il nome di mio padre inciso sulla pietra. Thomas Green.
Erano passati anni e la lapide non era in perfette condizioni, ma la foto riusciva a vedersi ancora molto bene. Papà mi sorrideva, coi capelli brizzolati e lo sguardo dolce che lo aveva sempre contraddistinto. Nei suoi occhi ancora ci leggevo l'affetto per me, così sentito e potente, in grado di spazzar via ogni dolore, ogni briciolo di tristezza, anche se non in quel momento.
In quel momento, vederlo sorridente come lo era un tempo, felice come lo era un tempo, presente come lo era un tempo, mi riportò indietro, a quando mi veniva a prendere a scuola, a quando passavamo i pomeriggi insieme, a quando mi incantavo nel sentirlo parlare delle cose che più gli piacevano. Quello era il motivo per cui non venivo a trovarlo quasi mai. Perché, anche solo guardando quella foto, lo rivedevo, tra le mura della nostra vecchia casa, al mio fianco, mentre mi abbracciava e mi diceva che ero la sua bimba, la sua piccola, il suo amore. Anche a distanza di anni ne sentivo la mancanza fin dentro le ossa, indelebile e profonda.
La vita andava avanti, sì, ma l'assenza permaneva. Un'assenza incolmabile che nessuno avrebbe potuto riempire. «Ciao, papà». L'istinto mi invitò a parlargli, sussurrando parole al vento e immaginando che potesse sentirmi. Mi baciai la mano e portai le dita sul suo viso, cercando di trasmettergli affetto e calore. «Scusa se non mi sono presentata spesso, ma fa male. Cavolo se fa male». La voce mi si incrinò, incapace di reggere tutta quella sofferenza. «Mi manchi...». Non mi guardai intorno – non m'importava esser presa per pazza da qualcuno che, passando, mi avrebbe vista parlare con il nulla – e così continuai, sfogandomi come meglio potevo. «Mi manchi da impazzire. Certe volte desidererei solo chiamarti per dirti che va tutto bene, che la mamma sta bene, che io sto bene e, perché no, che sei diventato nonno. Da quattro lunghi anni, Tommy conosce il suo fantastico nonno attraverso le storie che gli racconto e... Gli piaci, sai? Ti ama, anche se non ti ha mai visto. Incredibile, vero? Quel piccoletto è stata la mia salvezza. Anzi, la nostra salvezza. Io e mamma siamo rinate grazie a lui. Fin da subito lo abbiamo amato incondizionatamente, come... come amavamo te». Le parole, ridotte ad un sussurro, faticavano ad uscire. Avevo gli occhi pieni di lacrime, ma non piansi. Non volevo. «Vuoi sapere la novità, comunque?». Mi misi più comoda, incrociando le gambe e stringendo le mani in grembo per darmi forza. «Ho conosciuto un ragazzo. Cioè, un uomo». Mi corressi. «Lui è... bello. È stata la prima cosa che ho pensato quando l'ho visto. Bello da far paura. E un po' di paura fa, in realtà, con quelle braccia tutte tatuate, quel serpente che...». Mi interruppi, riportando alla mente troppi ricordi dolorosi. «Lasciamo perdere. In ogni caso... Ti sarebbe piaciuto, secondo me. È determinato, sicuro di sé, protettivo, rispettoso. Un gran lavoratore. Un brav'uomo. Un ottimo tatuatore, per giunta. È stato lui a marchiarti sulla mia pelle, e lo ha fatto proprio bene. Lui... mi amava. Me l'ha detto. Ma io... L'ho deluso. Totalmente». Mi bloccai un'altra volta, abbassando lo sguardo e vergognandomi di me stessa. «Come si ripara agli errori, papà? Come si può, in certe situazioni, fare la cosa giusta? Tu cosa mi avresti consigliato? Tu, al posto mio, cosa avresti fatto?». Tempestai di domande quella povera pietra che avevo di fronte, consapevole di non ricevere alcuna risposta. «Perché non sei più qui, papà? Perché mi hai lasciato? Perché? Non dovevi andartene, papà. Non dovevi...». Se il mio cuore avesse potuto urlare, in quel momento l'avrebbe fatto. Un urlo di disperazione. Un urlo di rabbia e di dolore.
La vita mi aveva fatto un dono, sì. La vita mi aveva concesso il regalo più grande: un figlio. Mi aveva permesso di diventare mamma, la cosa più bella che potessi desiderare.
Quella stessa vita, però, mi aveva sottratto qualcosa, mi aveva portato via una parte essenziale.
Si era presa il mio papà, senza indugio e all'improvviso.
Una vita per una vita... Era così che funzionava?
Tirai su col naso e, quasi senza forze, frugai nella borsa alla ricerca di un fazzoletto. Le lacrime ancora premevano di uscire ma io glielo impedii. Volevo tenerlo stretto, quel dolore. Non volevo liberarmi. Non volevo provare a sentirmi meglio perché sapevo che sarebbe stato inutile.
La missione per trovare i fazzoletti cominciò a divenire impossibile. Dopo aver frugato alla ceca senza successo, la aprii per bene e cercai meglio. Tirai fuori la bottiglietta d'acqua di Tommy, il portafogli, le chiavi di casa e... Mi bloccai.
«La lettera». Dissi in un mormorio impercettibile, pensando ad alta voce. Dalla tasca interna presi la famosa lettera che, mesi prima, mi era stata data da Elizabeth. L'avevo nascosta lì, non volendola leggere, ma l'avevo dimenticata.
Mi lasciai andare, mollando la borsa e tornando a poggiare il sedere sulla terra umida, senza smettere di fissare l'oggetto tra le mie mani. Ero completamente ipnotizzata. Vedevo solo quella scritta. Notavo solo quelle lettere che sporcavano quel bianco candido.
Aria.
Sospirai. Che strana la vita. Seduta ai piedi della tomba di mio padre mi ritrovavo con una lettera tra le mani, scritta da un padre che non era il mio, ma che ritenevo ugualmente importante. Cos'avrei dovuto fare? Leggerla? Ignorarla? Buttarla? Aspettare il momento esatto? Quando sarebbe arrivato però quel momento? Esisteva un momento giusto? Ma soprattutto... Lui cosa avrebbe voluto che facessi? Non potevo saperlo. Forse non ce n'era neanche bisogno.
L'avrei mai rivisto? Probabilmente no.
Avevo qualcosa da perdere? Assolutamente no.
Quindi... Non rimaneva che superare quell'ostacolo, svelare quel contenuto, liberare me stessa da quel fardello che cominciava ad opprimermi.
E così feci. Inconsapevolmente, inconsciamente, involontariamente, scelsi di leggere.

Aria...
Cara Aria...
Qualcuno ti ha mai detto quanto è bello il tuo nome?
Trovo meraviglioso pronunciarlo. Trovo incredibile scriverlo.
D'altronde, si vive di aria, no? Mi sbaglio?
Ad ogni modo, mi sto perdendo. Non sono qui per parlarti di questo.
Allora... Partiamo dalla frase di rito.
Se stai leggendo questa lettera, vorrà dire che sono morto.
Un po' banale, non trovi? E anche un po' triste, aggiungerei.
Io non sono triste. O meglio, non lo ero.
La morte arriva per tutti. Non mi spaventa. Non mi turba. Non mi tocca.
Perdona l'uso dei miei verbi, ma ancora non mi sono spento del tutto e ho qualche difficoltà a parlare al passato.
Arriviamo al dunque.
Vorrei tanto svelarti la mia identità, dolce Aria, ma non lo ritengo opportuno. Non posso affidarti un altro peso come questo.
Ti basti sapere che sono io. Sono il padre di Kade e tu, sicuramente, già lo sai.
Non ti dirò come ti conosco, perché non lo considero un dettaglio necessario.
Io ho osservato, da lontano, la vita di mio figlio. Ho partecipato, a distanza, alle sue esperienze.
Anche se non fisicamente, materialmente, concretamente... Io ho fatto comunque parte di lui.
Non mi giustificherò.
Se vuoi giudicarmi, sono il primo a chiederti di farlo. Servirebbe, però?
Vorrei che tu sapessi alcune cose, adorata Aria.
Ho chiesto io ad Elizabeth di rivelarti ogni cosa, di farti firmare quell'accordo e di parlare con Kade in tua assenza, a tua insaputa.
Non cedere alla rabbia, te ne prego, e prosegui la lettura perché ne hai bisogno.
Se tutto è andato secondo i miei piani, in questo momento, tu e mio figlio non dovreste passare un bel periodo.
Penserai che sono pazzo, ma non è così.
Mi serviva un diversivo, Aria. Mi serviva qualcosa che lo distraesse dalla mia morte, dallo shock della perdita, dalle mille domande che lo staranno sicuramente torturando.
E cosa potevo utilizzare meglio, se non il suo amore per te?
Ora, se una parte di lui è concentrata sulla mia assenza, l'altra parte è senza dubbio dedicata a te. Alla rabbia nei tuoi confronti. Alla delusione, al dolore, alla tristezza.
Non sentirti una pedina del mio gioco, perché non lo sei.
Ho agito per il bene di mio figlio e, anche se non lo credi, per il tuo.
La rabbia ha sempre fatto parte di Kade. Anche se ora riesce a controllarla, anche se ora ha imparato a domarla, la rabbia sarà sempre una sua caratteristica. È il suo punto di forza, secondo me.
Perché se ognuno di noi cede involontariamente all'ira, lui riesce ad analizzarla, incamerarla e indirizzarla verso un qualcosa.
E quel qualcosa, adesso, sei tu.
Io non ti chiedo di perdonarmi.
Io non ti chiedo di comprendermi.
Io, padre di Kade, ti chiedo solo di prendertene cura.
Rimetti insieme i suoi pezzi. Permettigli di sfogarsi. Permettigli di scoppiare, di manifestare ogni sentimento, bello o brutto, gioioso o doloroso.
Ma, più di tutto, permettigli di amarti.
Lui ti ama, l'ho letto nel suo sguardo. Tu lo ami, l'ho visto nei tuoi occhi. Anche se distante, anche se mancante, ho notato il vostro amore, così immenso e incondizionato.
Quindi, cara Aria, ti chiedo di non sprecarlo, di non negarlo.
Ti chiedo solo di amarlo.
Va' da lui. Accetta la sua rabbia. Prendi il suo dolore.
Confortalo. Proteggilo. Riparalo.
Non accusare te stessa. Non affliggerti colpe che non hai. Non essere triste.
Noi non siamo le scelte che prendiamo.
Noi siamo semplicemente chi scegliamo di essere.
Quindi... Scegli di essere la sua donna perché lui, io lo so, ha scelto di essere il tuo uomo.
Arrivederci, mia dolce, amabile, adorata Aria.
Ci rivedremo presto, tra le righe di un foglio, tra le scritte di alcune lettere che ho riservato per mio figlio.
Ci rivedremo, sì. Io ci spero. Io ci credo.
Con sentito affetto,

Permettimi di amartiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora