Capitolo XXVII

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Chiudimela tu? Ma cosa mi è saltato in mente?!
Scossi la testa coprendomi gli occhi con una mano, girandomi e rigirandomi in quel letto che ormai era diventato rifugio dei miei pensieri, il luogo in cui discutevo con me stessa, mi ponevo quesiti e solo delle volte mi davo delle risposte.
La mia serata si era conclusa con quell'incontro-scontro in camera di Kade, dove lui mi aveva sparato addosso tutta la sua esasperazione – quella che io gli avevo volontariamente causato – e per un attimo, solo per un attimo, avevo creduto che avremmo superato il limite. Quando avevo visto i suoi occhi posarsi sulle mie labbra, la mia mente era andata oltre. Aveva già immaginato la sua bocca sulla mia. Aveva ricordato le innumerevoli volte in cui, mesi addietro, le sue labbra erano state un tutt'uno con le mie. E aveva sofferto, perché ricordare del tempo passato assieme faceva ancora un male cane.
Avevo dormito poco quella notte, le orecchie sull'attenti per percepire ogni possibile o insolito rumore. Non sapevo se Chantal avesse dormito qui o fosse tornata a casa sua ma, avendo percepito silenzio assoluto, ero certa fosse andata via. E proprio con quella certezza ero riuscita ad addormentarmi, forse un'ora o due, per poi risvegliarmi la mattina ad interrogarmi sui fatti accaduti.
Il mio scontro con Kade non era stato dei migliori, soprattutto a causa delle mie provocazioni. Avevo parlato senza pensare e i risultati erano stati catastrofici: Kade mi aveva lasciato sola e, cosa ancora peggiore, aveva permesso a lei di indossare una delle sue magliette. Maledetto!
Verso le otto, convinta ormai di non riuscire più a dormire, mi alzai e decisi di scendere al piano di sotto. Passando davanti camera di Kade mi sforzai di capire chi ci fosse al suo interno ma ovviamente fallii e, sconfitta, mi diressi in cucina.
È tornata a casa, mi dissi. Magari con la sua maglietta, ma è tornata a casa. Ne ero sicura.
Mi preparai un bel caffè, cercando di dimenticare la serata precedente. Forse avrei dovuto comportarmi meglio, ma Chantal era riuscita a tirare fuori il peggio di me e rimaneva il fatto che Kade non l'avrebbe dovuta invitare. Cosa farebbe se al posto mio ci fosse lui? Come si comporterebbe se gli portassi a casa un uomo e ci provassi con lui? Si infurierebbe? Probabilmente. Oppure non gliene fregherebbe nulla? Quell'ipotesi mi fece male al cuore. Volevo che gli importasse. Volevo la sua gelosia, perché avrebbe voluto dire che qualche traccia di sentimento gli era rimasta.
«Buongiorno». Quella voce alle mie spalle mi fece sussultare e voltare di scatto, e non solo perché mi aveva colta alla sprovvista ma perché apparteneva proprio a...
«Chantal?». Il suo nome venne fuori in un sussurro mentre tutte le mie certezze andarono a farsi benedire. La vidi avanzare verso di me con i capelli scompigliati, il trucco sbavato, la faccia assonata e la maglietta di Kade che gli arrivava a metà coscia. Indossava solo quella mentre mi veniva incontro a piedi nudi con un bel sorriso stampato in viso. Non ci credo.
«L'odore di caffè si è sparso per tutta casa, così mi sono svegliata e sono scesa. Una bella tazza di caffè non mi dispiacerebbe. Kade, invece, sta ancora dormendo». Quelle ultime parole mi lacerarono il cuore. Non le risposi e mi voltai verso la moka, non sapendo più a cosa pensare. Avevano dormito insieme, quindi? Erano stati... insieme? Non ci credo. Non ci voglio credere. Aspettai che il caffè venisse fuori, ignorando la presenza di Chantal alle mie spalle.
Immaginai loro due in camera, nello stesso letto, magari abbracciati, magari nudi e... Smettila! Urlai nella mia testa. Taci, mente. Taci, ti prego.
Il silenzio della notte mi aveva illuso, facendomi credere che con Kade non ci fosse nessun altro, quando invece non era stato così.
Preparai due tazze e versai il caffè anche per Chantal, fingendo di essere gentile. Gliela porsi e lei mi ringraziò senza dire altro. Bene. Avrà capito che non ho nessunissima intenzione di fare conversazione.
Consumammo la nostra colazione in silenzio, senza parlarci né tantomeno guardarci. Quando finii la mia bevanda calda, però, avvertii subito il bisogno di prepararmene un'altra.
Feci per alzarmi, ma la voce della donna che mi sedeva di fronte mi interruppe.
«Purtroppo devo andare. Alle nove attacco il turno al supermercato e devo correre a casa a cambiarmi. Puoi salutare Kade da parte mia, quando si sveglia? La maglietta la prendo in prestito ma digli che gliela restituirò sicuramente». Disse maliziosa e a me venne quasi da vomitare.
«Va bene, riferirò tutto». Mentii e mi andai a preparare il mio secondo ma non ultimo caffè. Distrattamente la sentii infilarsi le scarpe e prendere la sua borsa. Mi salutò l'ennesima volta e si dileguò, lasciandomi finalmente sola e libera di torturarmi con i miei stessi pensieri.
Non pensare. Non pensare. Non pensare. Lo ripetei come un mantra nella mia testa. Pensare, in quel momento, mi causava solo un profondo dolore. Il dolore di essermi sbagliata. Il dolore di aver creduto che a Kade ancora importasse qualcosa di me. Il dolore di saperlo con un'altra, senza curarsi della mia presenza.
Lo odio! Era ciò a cui cercavo di credere. Lo odiavo sul serio, però?
«Buongiorno». La sua voce fece schizzare il mio cuore e sussultare il mio corpo. Non mi voltai. Sapevo di averlo alle spalle, probabilmente con solo i pantaloni del pigiama indosso, ma mi costrinsi a rimanere concentrata sulla moka, senza degnarlo di uno sguardo. La rabbia che covavo dentro mi portò anche a non rispondergli. Grande, Aria. Mi dissi. Continua così.
«Chantal è andata via?». Ebbe il coraggio di chiedere quando non lo salutai. Spensi il gas e mi versai il caffè nella tazza, sperando che quel secondo round mi desse la forza per arrivare a fine giornata.
Con la coda dell'occhio vidi Kade poggiarsi col culo sul ripiano del lavello e incrociare le braccia al petto nudo. Come non detto... Non ha la maglietta, il maledetto.
Non risposi alla sua domanda. Mi poggiai anche io al ripiano e cominciai a sorseggiare il mio caffè, ignorandolo palesemente.
«Che problemi hai, Aria?». L'astio nel suo tono di voce non mi scosse, ma mi spinse a controbattere.
«Nessun problema». Fredda. Breve. Concisa.
«Perché non mi rispondi, allora?». Mi si parò davanti, cercando quello sguardo che mi ostinavo a non concedergli.
«Perché non te lo meriti». Gli dissi, sincera. Stavo per scoppiare, lo sentivo. «Non ti meriti la mia attenzione. Non ti meriti il mio rispetto. Non ti meriti un bel niente». Gli sputai addosso quelle parole senza un minimo di riguardo. Ero incazzata, furiosa, tormentata e glielo dimostrai incrociando i miei occhi ai suoi, trasmettendogli così tutto il mio disprezzo.
«E per quale motivo?». Una leggera nota di rabbia colorò la sua voce.
«Lasciami in pace, Kade».
«Lasciami in pace un cazzo!». Ribatté, un po' troppo forte. «Adesso parliamo! Che ti prende? Cosa ti ha detto Chantal?». Finii il mio caffè in unico sorso e sbattei la tazza sul ripiano, tornando poi a guardarlo.
«Niente! Se n'è solo andata perché, a detta sua, doveva lavorare. È uscita con indosso la tua maglietta, però mi ha detto di riferirti che te la restituirà presto, magari quando deciderai di sbattertela di nuovo». E i miei pensieri vennero fuori senza riuscire a fermarli.
«È questo il problema? Pensi che io me la sia scopata?».
«Non è così?».
«No!».
«Non m'importa, Kade. Lascia perdere, davvero». Feci per oltrepassarlo ma lui mi afferrò per un braccio e mi riportò al mio posto senza alcuno sforzo.
«Adesso stai zitta e mi ascolti! Ha voluto passare la notte qui perché si sentiva poco bene e aveva bevuto troppa birra. Io ho accettato e così è stato, nulla di più, nulla di meno».
«E l'hai lasciata dormire nel tuo letto come se nulla fosse?».
«Che dovevo fare, Aria?». Allargò le braccia. «Dimmelo! Che dovevo fare?».
«Proprio non capisci, vero?». Feci un passo avanti e lo puntai, minacciosa. «Cos'avresti fatto se avessi portato a casa un uomo, l'avessi corteggiato e poi accolto nel mio letto?». Lo vidi stringere i pugni con forza fino a farsi sbiancare le nocche.
«Non lo so cos'avrei fatto». Rispose in un sussurro, a denti stretti. «Non stiamo più insieme, Aria».
«E quindi?!». Lo attaccai subito, ignorando il mio cuore che si squarciava per le parole pronunciate da lui. «Non conta un cazzo la mia presenza? Non conto più un cazzo per te?».
«Aria...».
«Aspetta! Fammi finire. Quindi se adesso mi scopassi uno qualsiasi, a te non fregherebbe nulla?».
«Attenta a come parli». Mi minacciò.
«Rispondi!».
«Non intendevo quello».
«Ah, no? A me non sembrava».
«Io non...».
«Basta, Kade». Lo interruppi subito. «Non andiamo oltre. Tu la tua vita, io la mia. Te l'ho detto due giorni fa e te lo ripeto oggi. Non c'è bisogno di aggiungere altro». E con quelle parole mi dileguai, lasciandolo da solo e fregandomene del resto.
Dovevo godermi la settimana, giusto? Bene. Da quel momento in poi, me la sarei goduta davvero.
Fanculo lui. Fanculo Chantal. Fanculo tutti.
Pensa a te stessa, mi dissi. E così feci.

***

Rimetti insieme i suoi pezzi. Permettigli di sfogarsi. Permettigli di scoppiare, di manifestare ogni sentimento, bello o brutto, gioioso o doloroso.
Ma, più di tutto, permettigli di amarti.
Lui ti ama, l'ho letto nel suo sguardo. Tu lo ami, l'ho visto nei tuoi occhi. Anche se distante, anche se mancante, ho notato il vostro amore, così immenso e incondizionato.
Quindi, cara Aria, ti chiedo di non sprecarlo, di non negarlo.
Ti chiedo solo di amarlo.
Va' da lui. Accetta la sua rabbia. Prendi il suo dolore.
Confortalo. Proteggilo. Riparalo.
«Smettila! Smettila! Smettila!». Dissi a me stessa, fissandomi nello specchio del bagno. Quelle parole, scritte per me dal padre di Kade, non fecero altro che ripresentarsi nella mia mente per tutto il giorno. Forse perché, dentro di me, sapevo di star per fare qualcosa di scorretto. La cosa bella, però, era che non me ne importava nulla.
Dopo il nostro screzio in cucina, io e Kade ci eravamo ignorati per il resto della mattinata e del primo pomeriggio. Verso le cinque mi ero chiusa in bagno, cercando di calmare i bollenti spiriti con una lunga e calda doccia. Mi ero depilata e asciugata e, con ancora l'accappatoio indosso, mi ero sparsa crema idratante ovunque. Per passare il tempo, avevo chiamato prima mia madre e poi Trixie, parlando con loro del più e del meno senza riferire a nessuna delle due la bella serata che si era tenuta il giorno precedente. Dopo aver terminato le telefonate mi ero data da fare, mettendo in atto la decisione presa. Sarei uscita, sì. Avevo bisogno di svagarmi e allontanarmi da quella casa ma, soprattutto, dall'uomo che ci risiedeva. Proprio per quel motivo mi trovavo in bagno, intenta a truccarmi e a sistemarmi per risultare decente e non una casalinga disperata.
Agli occhi applicai un leggero ombretto e un po' di mascara. Imporporai le guance con un blush e un bell'illuminante e infine colorai le labbra con un rossetto rosso. I capelli li lasciai sciolti e ondulati, senza poterli sistemare in altro modo, ma il risultato non mi dispiacque. Terminato trucco e parrucco, mi diressi in camera per completare il look. Sapevo di star per compiere un colpo basso ma non me ne curai. Tirai fuori dalla valigia l'abito che avevo scelto di indossare, quell'abito, e mi stupii ancora della sua bellezza. Senza spalline, corto, attillato, con due fasce che si intrecciavano sul davanti e andavano a finire dietro, legandosi in un piccolo fiocco delicato. Era il vestito che Kade mi aveva impedito di indossare in sua assenza. Il vestito che avevo comprato per lui, per compiacerlo e farlo impazzire allo stesso tempo. Il vestito che non avevo mai messo e che portava il colore dei suoi occhi.
Non avevo idea di come avrebbe potuto reagire nel vedermi conciata in quel modo ma, per l'ennesima volta, me ne fregai. Io la mia vita, lui la sua. Questo aveva scelto e questo gli avrei dimostrato.
Abbinai al vestito l'unico paio di tacchi che mi ero portata e, una volta presa anche la borsetta, uscii dalla camera e mi diressi al piano terra. Prima di scendere chiamai un taxi, comunicandogli l'indirizzo e l'orario. Avrei dovuto attenderlo per un po', ma non me ne preoccupai. Avrei aspettato di fuori.
Scesi le scale con un po' d'ansia, aggrappandomi al corrimano per evitare di cadere. Non vedevo Kade da qualche ora, essendomi concentrata sul prepararmi per bene, quindi non sapevo dove fosse o cosa stesse facendo. Dopo aver sceso l'ultimo gradino, i miei occhi perlustrarono subito il salone per cercarlo, senza ottenere risultati. Mi spostai in cucina ma non lo trovai nemmeno lì. Mi sentii un po' delusa, perché stavo per uscire e lui non mi avrebbe vista.
Sei crudele, Aria.
Sì, lo ero davvero. Decisi di bere un bicchiere d'acqua prima di dirigermi alla porta, pronta per andarmene. Non lo avrei di certo aspettato solo per farmi vedere, anche se la tentazione era tanta.
A pochi metri dall'arrivo, però, i miei sogni si avverarono. La porta si aprì e Kade fece il suo ingresso con una cassetta degli attrezzi in mano. Lasciò che la porta si chiudesse alle sue spalle e, solo dopo aver alzato lo sguardo nella mia direzione, si accorse di me. Comincia la guerra, pensai.
«Dov'eri?». Gli chiesi, giusto per soddisfare la mia curiosità. Feci la vaga, ma mi accorsi perfettamente del suo sguardo sorpreso.
«Dove stai andando?». Ignorò la mia domanda e me ne pose un'altra, il tono leggermente infastidito. I suoi occhi mi perlustrarono da capo a piedi, dandomi l'effetto desiderato. Lo vidi stringere i pugni e serrare la mascella, contrariato. Molto contrariato.
«Esco». Fu la mia risposta. Feci per superarlo, ma non andai molto lontano. La sua mano si serrò sul mio braccio, bloccando ogni mia mossa.
«Ho detto... Dove stai andando?». Lo disse con più calma, scandendo bene ogni parola, ma il suo disappunto di certo non sfuggì alle mie orecchie.
«E io ti ho risposto... Esco. Sei sordo? Adesso lasciami». Cercai di tirare via il mio braccio dalla sua presa ma lui, in risposta, strinse ancora più forte.
«Me lo stai facendo apposta, Aria? Dì un po', vuoi necessariamente farmi impazzire?». Lo guardai male, così come meritava.
«Non sei il centro del mio mondo, Kade. Fattene una ragione e mollami».
«No».
«Sei impazzito?».
«Togliti quel vestito, Aria».
«Scusa?». Non credetti alle sue parole, tant'è che mi ci volle un po' a rispondere.
«Hai capito bene». Si avvicinò, minacciandomi ad un palmo dal naso. «Togliti. Quel. Fottutissimo. Vestito».
«Puoi scordartelo».
«E allora tu scordati di uscire. Non ti permetterò di farlo con il mio vestito addosso». Mi venne quasi da ridere.
«Il tuo vestito?». Boccheggiai. «Stai scherzando, vero? Non hai alcun potere decisionale, Kade. Hai smesso di averlo nel momento in cui mi hai lasciata. Ora, se non ti dispiace, vorrei andare a divertirmi». E questa volta riuscii a liberarmi, strattonando con forza il mio braccio e facendo un passo indietro.
«Stai commettendo un grosso errore, Aria. Me la stai facendo pagare per qualcosa che non ho fatto».
«Non è così, Kade». Mi diressi alla porta, sfilando di fronte al suo sguardo giusto per provocarlo un po' di più. «Forse, un giorno, vedendomi tra le braccia di un altro uomo, capirai cosa ho provato e mi darai ragione». Fu l'ultima cosa che dissi prima di filare via.
«Aria!». Lo sentii urlare da dentro. «Aria!». Urlò ancora, facendomi quasi sussultare. Vidi il taxi fermo ad aspettarmi sul piazzale di fronte casa e tirai un sospiro di sollievo. Non può più fermarmi, pensai. «Dannazione, Aria!». Mi voltai solo per farlo smettere di imprecare. Era fermo sull'uscio, la mano sulla maniglia della porta, il corpo un fascio di nervi. Indossava i suoi soliti pantaloncini da calcio e una maglietta bianca incredibilmente attillata. Anche in quello stato era bello da far paura, coi capelli scompigliati e lo sguardo assassino.
«Che vuoi?». Gli diedi un'ultima occasione di esprimersi, e forse lo feci giusto per guardarlo un altro po', per riempirmi gli occhi del suo splendido aspetto che, da arrabbiato quale era, raggiungeva livelli altissimi.
«Se qualcuno ti sfiora, io mi incazzo». E non mi lasciò il tempo di controbattere. Tornò dentro sbattendosi violentemente la porta alle spalle, così forte da far tremare tutta casa. O almeno così sembrò.
Scossi la testa, senza più capire cosa passasse in quella di Kade. Sospirai e mi incamminai verso il taxi. Avevo bisogno di prendere un drink e di non pensare. Ne avevo davvero bisogno.

Il locale che scelsi – o meglio, che il gentile tassista mi consigliò – si trovava a pochi kilometri da casa di Kade. Il fatto che fossi molto vicina a lui non m'importò. Il lato positivo era che non ci avrei messo molto a ritornare, magari ubriaca, magari accompagnata. No, quello non sarebbe mai successo. Potevo far credere a Kade di voler fare nuove esperienze, potevo fargli immaginare il mio corpo attorcigliato a quello di un altro uomo, ma non potevo di certo prendere in giro me stessa.
Non volevo le mani di un altro addosso, volevo le sue mani. Non volevo le labbra di un altro sulla bocca, volevo le sue labbra. Volevo la sua considerazione, il suo affetto, il suo amore, le sue attenzioni. Ma lui non voleva darmi nulla di tutto ciò ed io non potevo andare avanti a quel modo.
Feci il mio ingresso in quello che sembrava più un pub che altro. Nonostante fosse ancora ora di cena, la gente riempiva i tavoli e i divanetti presenti mentre già qualcuno si scatenava in pista da ballo.
Mi districai tra la folla, ignorando gli sguardi di qualche ragazzo che, a quanto pareva, ammirava il mio aspetto. Trovai uno sgabello vuoto ad un angolo del bancone e mi ci fiondai, felice di aver beccato un posto alquanto appartato.
«Salve. Cosa desidera?». Mi chiese gentilmente il barman. Avrei dovuto mangiare prima di bere, dato che non avevo ancora cenato, ma me ne sbattei altamente e ordinai una birra.
Dopo pochi minuti mi ritrovai a sorseggiare la mia birra e a combattere con i pensieri nella mia testa.
Se qualcuno ti sfiora, io mi incazzo. L'aveva detto seriamente? E perché, poi? In quei giorni non aveva fatto altro che dimostrare indifferenza e adesso gl'importava di me? Si era fatto toccare da Chantal davanti ai miei occhi e lui pretendeva di non ricevere lo stesso trattamento? Fanculo. Mi faceva venire il mal di testa, lui e i suoi fastidiosi sbalzi d'umore! Non capivo se fosse geloso o soltanto pazzo, ma optavo più per la seconda opzione.
«Basta, ti prego, basta». Lo sussurrai ad alta voce, sperando che la mia testa smettesse di funzionare e mi lasciasse un attimo di libertà.
Ordinai una seconda birra e mi concentrai sulla musica che rimbombava nelle casse del locale. La gente era aumentata, soprattutto sulla pista da ballo dove i corpi si muovevano a ritmo della melodia ad alto volume. Non mi sfuggirono le occhiate languide di qualche omaccione già ubriaco e alla ricerca di un qualsiasi essere di sesso femminile da conquistare e portare a letto, ma le ignorai totalmente.
Non cercavo una conquista, volevo solo delle risposte. Risposte che poteva darmi l'unico uomo che non era presente, quello che io desideravo. Sono un caso disperato, mi venne da pensare. E lo feci sorseggiando la mia seconda birra, senza sapere cos'altro fare della mia vita.
Quella settimana stava risultando eterna e del tutto inutile. Presto sarei tornata alla quotidianità, quella composta da me e da mio figlio che, oltretutto, mi mancava terribilmente. Con Kade non c'erano ancora stati progressi e molto probabilmente neanche ci sarebbero stati. Cosa potevamo risolvere se non facevamo altro che litigare?
Dannazione, Aria, non fai che pensare a lui! Rimproverai me stessa, sentendomi una completa idiota. Riportai lo sguardo sulla pista da ballo, valutandola come l'unica opzione per distrarmi e non riflettere, e presi la mia decisione. Mi intrufolai nella mischia e mi lasciai trasportare dalla musica, trovando coraggio grazie alle due birre che avevo bevuto. Non ero ubriaca, ma il poco alcol in corpo mi spinse a ballare senza vergogna, solitaria e un po' più spensierata.
Danzai sotto le note di un'elettrizzante canzone estiva, ancora e ancora, fino a che i piedi non cominciarono a dolere. Chiusi gli occhi, alzai le braccia e mossi il culo a tempo dell'ennesimo pezzo, sentendomi finalmente rilassata. A saperlo prima, diamine! Sarei venuta a ballare tutti i santi giorni!
La magia però fu spezzata da ben due mani che mi arpionarono i fianchi e mi spinsero verso un corpo. Riconobbi subito che non erano quelle le mani che volevo, che desideravo, che bramavo. Il suo tocco l'avrei riconosciuto ovunque. Quel tocco, invece, risultò solo fastidioso. Feci per divincolarmi ma l'uomo sconosciuto scambiò quel movimento come un gesto d'apprezzamento. Affondò ancor di più la presa sui miei fianchi e mi sbatté sulla schiena quella che sembrò la sua erezione. Mi venne quasi da vomitare e, infuriata per quell'invasione, gli tirai una gomitata in pieno stomaco riuscendo, così, a liberarmi. «Stronzo!». Gli sputai il mio insulto e godetti nel vederlo piegato in due dal dolore. Non mi concentrai sul suo aspetto, piuttosto girai i tacchi e me ne andai via, ormai stufa anche di ballare. Stavo per raggiungere il bancone, intenzionata ad ordinare un superalcolico e non una semplicissima birra, ma una mano mi afferrò per un polso e strinse così forte da farmi veramente male, cazzo!
«Ahi!». Imprecai, pronta a partire con un'altra gomitata – sulle palle, però – ma quello che mi si presentò davanti agli occhi mi fece ammutolire. Non. Ci. Credo.
«Kade?». Il suo nome venne fuori come una domanda mentre lo guardavo farsi strada tra la folla e dirigersi verso l'uscita. Non riuscivo a vedere il suo viso ma, dalla presa ferrea, potevo immaginare quanto fosse arrabbiato. Indossava gli stessi vestiti di quando lo avevo lasciato a casa, fatta eccezione per un paio di jeans scuri che avevano sostituito i pantaloncini da calcio. Che diavolo ci fa qui?
«Kade, puoi fermarti un attimo?». Dovetti urlare per sovrastare la musica e farmi sentire. Lui, in risposta, non proferì parola.
«Kade! Mi stai facendo male!». Cercai di divincolarmi ma il mio gesto servì solo a farlo stringere di più.
«Se non mi molli entro tre secondi, inizio a urlare di brutto!». A quella minaccia riuscii a farmi ascoltare. Kade si fermò a pochi metri dall'uscita, si voltò e mi mostrò il suo viso contratto dalla rabbia. I suoi occhi mi fulminarono, congelandomi sul posto mentre lo osservavo avanzare. Alzai la testa e lui, di conseguenza, la abbassò, lasciando tra di noi solo pochi centimetri di distanza.
«Sta' zitta, Aria. Tu prova a gridare o a divincolarti e io ti carico su una spalla, ti porto a casa e ti lego al mio letto fino a quando non mi pregherai di lasciarti andare. Ci siamo capiti?». La mia sanità mentale – ormai quasi esaurita – non mi diede la forza di rispondere, troppo presa dall'immaginare la scena di me, legata al suo letto, con lui affianco e...
«Bene». Esclamò, interrompendo i miei pensieri impuri. Senza togliermi le mani di dosso mi trascinò fuori ed io lo lasciai fare, arresa e sconfitta. Già mi aspettavo una bella sfuriata con tanto di ramanzina, ma il mio cuore ne fu quasi felice perché quello che contava davvero era la sua presenza al mio fianco.
Usciti dal locale ci dirigemmo alla sua imperiosa BMW, parcheggiata a pochi metri da lì dove, solo di tanto in tanto, passava qualcuno. Menomale, pensai. Almeno subirò le sue urla senza dare spettacolo.
Lasciò la presa solo quando arrivammo davanti la sua auto e, appena lo fece, mi massaggiai il polso e lo guardai male.
«Faccio un casino, Aria. Ti giuro che faccio un casino». Borbottò, cominciando a camminare avanti e indietro, infilandosi le mani nei capelli ormai non più rasati. Il suo nervosismo mi arrivò addosso come un fiume in piena ma non mi intimorì.
«Ma che ti prende, Kade?». Commisi l'errore di porre quella domanda, beccandomi il suo sguardo omicida e il suo tono enormemente contrariato.
«Che mi prende? Quel verme ti mette le mani addosso e mi chiedi che mi prende? Dovrebbe baciare la terra su cui cammina perché l'hai fermato tu prima che lo raggiungessi io, altrimenti non sarebbe uscito vivo da quel fottutissimo locale». Le sue parole mi stupirono non tanto per il loro contenuto, quanto per la sincerità con cui le disse. La sua rabbia mi infastidì leggermente in quanto non pensavo avesse il diritto di decidere per la mia vita non facendone più parte, però quella sua gelosia – perché di gelosia si trattava – non fece altro che farmi battere più forte il cuore.
Gli importa di me? È geloso di me? Si preoccupa per me? Una serie di domande mi balenarono in testa, ma decisi volontariamente di ignorarle. Non poteva cavarsela così.
«Come mi hai trovata?». Gli chiesi invece, facendolo infuriare ancor di più.
«Ho seguito il tuo taxi, mi sembra ovvio».
«E mi hai osservata per tutto il tempo come uno stalker?».
«Ti ho controllata e protetta, è ben diverso. E ringrazia che ti ho permesso di bere». Quella volta toccò a me infilare le mani nei capelli.
«Sei fuori di testa, Kade! Te ne rendi conto?».
«Ti avevo avvertita, Aria, ma come al solito hai deciso di fare di testa tua!».
«E quindi? Ne ho tutto il diritto, cazzo! Non ti appartengo. Lo capisci o no?».
«Frena quella maledettissima lingua!». Urlò, puntandomi un dito contro e avvicinandosi pericolosamente. «Non farmi incazzare più di quanto già non lo sia. Sali in macchina». Stavo godendo. Stavo godendo davvero perché la sua folle gelosia mi stava dando risposte a domande che mi ero posta per giorni. La mia caparbietà, però, mi spinse a provocarlo ulteriormente.
«Col cavolo. Non ci torno a casa con te». Non lo dissi perché lo pensavo davvero. Lo dissi semplicemente per farlo impazzire più del dovuto e mi diedi della folle da sola. Ad ogni modo, per accentuare il mio volere, lo superai e finsi di voler tornare al locale.
«Forse non hai capito...». Il suo avambraccio sbatté sulla mia pancia per non permettermi di andare oltre. «Non era una domanda, Aria. Sali in macchina». Chiunque, nel sentire il suo tono furibondo, si sarebbe pisciato sotto dalla paura. A me, invece, non faceva altro che eccitarmi.
Sei pazza! Completamente pazza!
Sì... Di lui, però.
Ignorai la mia battaglia interiore e proseguii con le mie provocazioni.
«Sennò che fai? Sentiamo! Sono proprio curiosa!».
«Aria...».
«Aria, Aria, Aria». Lo interruppi subito, facendogli il verso. «Non sai dire altro? Avresti dovuto trovare un modo per non farmi uscire, se ci tenevi così tanto. Perché se sono uscita stasera era solo per scappare da te e dalla tua testa di cazzo che si è permessa di dormire con un'altra donna senza alcun riguardo!».
«Non ci ho dormito insieme!». Gridò disperato, tirandosi i capelli fin quasi a strapparseli dalla nuca.
«Che vuol dire?».
«Vuol dire che lei ha dormito sul mio letto ed io sul pavimento, perché non volevo starle vicino! Non facevo altro che pensare a te, alla tua boccaccia e alle tue fottutissime provocazioni che mi mandano in panne il cervello! Soddisfatta, adesso?». Mi immaginai Kade sdraiato sul pavimento, lontano da Chantal, con la mente e i pensieri concentrati unicamente su di me, e sospirai. Sollievo, ecco cosa sentii. Un profondo e sincero sollievo di sapere che non avevano dormito insieme. Dio, grazie.
«E perché non me l'hai detto subito?».
«Perché non mi hai dato il tempo di spiegare».
«Questo non cambia le cose. Ti ha messo le mani addosso e lo ha fatto davanti a me, per non parlare del fatto che se n'è andata gongolante con la tua maglietta». Non mi vergognai di mostrare la mia gelosia. Non m'importava più di niente.
«Ti ricordo che ho appena visto un pezzo di merda poggiare le sue luride mani sul corpo della mia donna. Direi che siamo pari, no?».
«Che cosa hai detto?». Sussurrai, stupita. L'ho sentito davvero?
«Ne riparliamo a casa. Sali!». Aprì lo sportello e con un cenno mi intimò di salire. Sbuffai, sapendo di non avere altra scelta, e poggiai il culo sul sedile in pelle della sua strepitosa macchina.
«Ti dò retta solo perché mi hai fatto passare la voglia di ballare e divertirmi, sennò ti avrei mandato a fanculo e...». In tutta risposta Kade mi chiuse violentemente lo sportello in faccia, non volendo più ascoltarmi. In un secondo fece il giro dell'auto e salì, mettendo in moto e sgommando via.
«Non so con quale forza stia riuscendo a trattenermi, Aria». Disse serio, dopo un attimo di silenzio.
«Trattenerti dal fare cosa?». Chiesi con un certo astio, incrociando le braccia al petto e guardandolo malamente.
«Dal tapparti la bocca e scoparti fino a farti perdere la voce». Cristo santo! La saliva mi andò di traverso e cominciai a tossire, sorpresa dalle sue parole così rudi ed eccitanti. Perché lo erano, diamine!
«Sei mille volte più arrogante del solito, oggi». Gli dissi per riprendere in mano la situazione, anche se nella mente avevo ben altro.
«E tu sei diecimila volte più provocatrice del solito, oggi!». Ribatté, stringendo il volante e aumentando la velocità. Il resto del viaggio lo passammo in silenzio, io a fissare il paesaggio scorrere fuori dal finestrino, lui a tenere d'occhio la strada. Quando guardai l'ora rimasi stupita. Il navigatore segnava le 11.02 p.m. ma io avevo la sensazione che fosse molto più tardi. D'altronde, però, ero uscita presto, quindi l'orario era del tutto ragionevole.
Una volta rientrati, scesi dalla macchina e mi avviai verso casa al fianco di Kade. Continuammo a non proferire parola, probabilmente sorpresi da tutto quello che era accaduto. Mentre lui si occupava di aprire la porta, io controllai che nella mia borsetta ci fosse ancora tutto e quasi sussultai quando il mio cellulare improvvisamente prese a squillare. Mi preoccupai subito, pensando che potesse essere successo qualcosa a Tommy, ma quando guardai il display vidi un numero non memorizzato. Mi corrucciai. Chi diavolo era?
«Chi è?». Chiese Kade, osservando la mia incertezza nel rispondere.
«Non lo so». Risposi al quarto squillo, avviandomi dentro casa e poi verso le scale. «Pronto?».
«Oh! Aria Green, giusto?». Non riconobbi la voce dell'uomo che parlò e mi corrucciai ancor di più. Kade, quasi avesse sentito una presenza maschile dall'altro capo del telefono, mi affiancò e mi chiese silenziosamente chi diavolo fosse. Io lo ignorai e proseguii.
«Sì, sono io. Chi parla?». Continuai a salire le scale e feci per andare in camera mia ma il mio braccio, come ormai da consuetudine, fu afferrato malamente dalla mano di Kade che mi fece entrare nella sua, di camera.
Che vuoi?! Gli mimai col labiale, ma lui non mi rispose. Piuttosto, mi guardò in cagnesco.
«Non so se ti ricordi. Sono... John. Ero venuto poco tempo fa in pasticceria e la tua collega mi aveva gentilmente lasciato il vostro biglietto. Ho sempre avuto il tuo numero, ma ho trovato solo oggi il coraggio di chiamarti. Mi scuso anche per l'ora, infatti». Cercai di ricordare il cliente e dopo qualche secondo mi tornò in mente. Io l'avevo totalmente ignorato, ma non mi era sfuggito il modo in cui lui mi aveva guardata. Dal tono di voce sembrava così timido e dolce, niente a che vedere con l'uomo incazzato che mi ritrovavo di fronte.
«Ah, ciao John! Sì, mi ricordo. Io...».
«Chi cazzo è John?!». Appunto. Kade, dall'altra parte del letto, intento a sistemare le sue cose sul comodino, puntò gli occhi furiosi su di me e chiese spiegazioni. Io, che mi ero momentaneamente poggiata col culo sulla scrivania anche per stargli il più lontano possibile, gli lanciai un'occhiataccia.
«Sta' zitto!». Gli dissi, coprendo con la mano il microfono del telefono.
«Non dirmi di stare zitto!». Per l'ennesima volta decisi di ignorarlo e riportai il cellulare all'orecchio.
«Scusa, io...».
«Non è un buon momento, per caso?». Mi interruppe John, mantenendo la sua compostezza e la sua gentilezza.
«No, assolutamente! Solo che c'è...». Che mi invento? Che mi invento? «Mio cugino!». Esclamai in un lampo di genio. «Mio cugino mi stava parlando quindi mi sono distratta». Gli spiegai.
A Kade non parve andare giù quella mia affermazione. Ti sta bene, siamo pari! Si tolse la maglietta e la lanciò sul letto con rabbia. Mezzo nudo, mi inchiodò col suo sguardo tenebroso e cominciò ad avvicinarsi lentamente, come un leone che studia la sua preda. Qui si mette male. Il mio basso ventre andò in tilt a quella visione pazzesca, ma obbligai il mio cervello a rimanere concentrato. Misi una mano avanti e gli intimai di non avvicinarsi. Ovviamente lui non si curò del mio avvertimento, così cominciai a incamminarmi nella parte opposta, cercando di rimanergli ad almeno un metro di distanza.
«Non vorrei disturbare, davvero. Ti avevo chiamata soltanto per chiederti se ti andasse di venire a cena con me uno di questi giorni». La sua richiesta mi spiazzò, non tanto quanto il cane rabbioso che avevo di fronte e che continuava ad avvicinarsi a passo felpato.
«Questi giorni purtroppo sono fuori casa». Fu la mia risposta repentina. «Ma quando torno potremmo organizzarci». Quella frase venne fuori senza che me ne accorgessi, aumentando l'ira di Kade che, dannazione, stava per esplodere.
«Fantastico! Aspetto una tua chiamata, allora».
«Certo». Esclamai in un soffio. «Ora devo proprio andare. Ci sentiamo presto. Ciao, John». Senza attendere una risposta gli chiusi il telefono in faccia e sospirai. Non lo avrei mai richiamato e un po' mi dispiaceva avergli dato quella speranza, ma parlare con una bomba a orologeria davanti non era stato per niente facile.
«Sono stufo, Aria». Mi disse Kade, camminando verso di me in tutta la sua incredibile bellezza. Le mie spalle finirono contro il muro e mi maledii, sapendo di essere completamente in trappola.
«Non capisco». Il mio tono di voce si abbassò e l'aria cominciò a mancarmi a causa della sua vicinanza. Tutta la sicurezza avuta prima svanì, e con lei ogni pensiero, mentre fissavo i suoi occhi perdendomici dentro.
«Stufo di lottare con me stesso, obbligandomi a non desiderarti e a non pensarti». Mi prese il cellulare dalle mani e si allontanò qualche secondo solo per lanciarlo sul suo comodino. In un attimo me lo ritrovai nuovamente di fronte, più vicino di prima, le mani poggiate sul muro e la testa piegata verso di me. «Non ce la faccio più. Ho provato a odiarti. Mi sono costretto ad essere arrabbiato, deluso, scontento per il tuo comportamento, ma quando ti ho rivista, io... Non ci ho capito più un cazzo. Sei stata una visione, Aria. Trovarti in casa mia l'altro giorno, con la valigia in mano e lo sguardo perso, è stato come tornare a respirare. Volevo disprezzarti e ci ho provato davvero, facendo di tutto per allontanarti. Ma ogni volta che provavo, ogni volta che tentavo di farti scappare via, il mio cuore voleva solo rincorrerti e dirti quanto mi eri mancata». Le sue mani finirono sulle mie guance e la sua fronte si posò sulla mia, mentre io trattenevo il respiro cercando di non farmi sopraffare dalle emozioni. «Non ce la faccio più a trattenermi. Non voglio più frenare quella folle gelosia che mi divora quando ti penso con un altro, quando la mia mente crea immagini a cui non voglio assistere. Sto impazzendo. Anzi, mi sono veramente rotto il cazzo».
«Di cosa?». Riuscii a chiedergli, sentendo il corpo formicolare e le braccia dolere per la voglia che avevano di allacciarsi al suo collo. Mi persi, come altre mille incantevoli volte, nel mare dei suoi occhi mentre attendevo una risposta. Probabilmente neanche l'avrei sentita, presa com'ero dal suo sguardo, dal suo viso, dal suo tocco, dal suo corpo.
«Di starti lontano». Finalmente rispose.
E il mondo attorno a noi scomparve quando Kade mi baciò.

Permettimi di amartiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora