Capitolo XV

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Le settimane passarono e il rapporto con Kade non fece altro che migliorare.
Passavamo tutti i sabati sera assieme, sia a casa sua che a casa mia. Delle volte faceva anche qualche agguato in pasticceria, venendo a sorpresa con il suo migliore amico e intrattenendo me e Trixie con la loro compagnia. Notai quanto proprio lei apprezzasse la loro presenza. Più che altro, sembrava molto interessata alla presenza di Jesse. Avevo provato a chiederle qualcosa, a interrogarla come lei faceva sempre con me, ma non aveva ceduto. Aveva giustificato quel suo interesse con una normale simpatia, ma io non me l'ero bevuta. Conoscevo Trixie. Lei adocchiava "bei bocconcini", ci usciva e ci passava una bella serata. Con Jesse, invece, era diverso. Si fomentava quando lo vedeva arrivare, sembrava agitata e prestava molta attenzione a ciò che diceva. Insomma, lei che stava attenta a ciò che diceva? Lei, che aveva sempre la battuta pronta. Lei, che non si vergognava mai di nulla. Ma fu una cosa accaduta qualche giorno prima che mi diede l'assoluta conferma che il suo interesse per quell'uomo era sincero e concreto. Ci trovavamo in pasticceria, Jesse e Kade erano venuti a fare il solito agguato a sorpresa e si erano presentati senza avvisarci. Jesse le aveva fatto un complimento per il suo abbigliamento e Trixie era arrossita. Arrossita per davvero, come se fosse imbarazzata, e quella era stata la prova schiacciante.
Alla mia migliore amica piaceva Jesse e quando lo avevo fatto notare a Kade, anche lui aveva confermato le mie ipotesi.
Ad ogni modo, con Kade stava andando proprio bene. Anche Tommy apprezzava molto la sua presenza. Uscito da scuola, mi chiedeva sempre se e quando fosse venuto "l'amico di mamma". Non riusciva ancora a pronunciare bene il suo nome, ma stava migliorando.
Ogni volta che stavano insieme giocavano come se fossero due bambini della stessa età e mi prendevano anche in giro, come farebbero due fratelli dispettosi. Un giorno li avevo beccati a confabulare in un angolo del salone e, quando gli avevo chiesto cosa stessero combinando, mi avevano presa d'assalto e mi avevano fatto il solletico. Era stato davvero divertente. Una sera, invece, avevamo guardato Spirit alla televisione dopo aver mangiato pizza e gelato ma, a metà film, Tommy si era addormentato tra le braccia di Kade mentre lui gli accarezzava i capelli morbidi. Un'altra scena che mi aveva stretto il cuore. Vedere mio figlio nel suo pigiamino di Topolino dormire appoggiato addosso al corpo di Kade che lo stringeva in un modo così dolce, così protettivo, era stato qualcosa di incredibile. Momenti che avrei custodito a vita.
A volte, però, c'era stata anche qualche discussione tra noi. Dopo l'accaduto della febbre di Tommy – che, tra l'altro, era durata qualche giorno e poi era passata – Kade non aveva più accolto con tranquillità i miei incontri con Cooper. Ogni domenica mattina insisteva per accompagnarmi a riprendere Tommy e ogni sabato pomeriggio mi chiedeva come fosse andata e se fosse successo qualcosa quando lo avevo portato. Non gli era piaciuto sapere del livido che mi aveva fatto al braccio, così come non gli era piaciuto il nostro piccolo diverbio che si era svolto davanti ai suoi occhi.
Lo comprendevo, sì, ma gli avevo già ribadito più e più volte che andava tutto bene, che Cooper non mi avrebbe di certo fatto del male e che le nostre litigate erano una cosa normale. Lui, però, non ne voleva sentire di ragionare. Qualche domenica gli avevo concesso di accompagnarmi ma delle volte mi ero impuntata e avevamo litigato. Le discussioni erano incentrate sempre sullo stesso argomento e la cosa cominciava a stufarmi. Fare pace, però, era bello. Forse la parte più piacevole delle nostre contese, perché finivamo per darci l'uno all'altra e la rabbia svaniva, sovrastata dalla nostra passione.
In quel momento mi trovavo in macchina, mentre pensieri e immagini delle scorse settimane si incrociavano nella mia mente. Era sabato pomeriggio, avevo da poco chiuso la pasticceria ed ora, dopo aver accompagnato Tommy da Cooper, mi stavo dirigendo proprio all'Ink dove avrei atteso la fine del turno di Kade per andare poi a casa sua. Ero quasi arrivata quando il telefono squillò facendo comparire la scritta "Mamma" sul display della radio. Spinsi il tasto di risposta sul volante e parlai.
«Pronto, mamma?».
«Amore mio, ciao! Come stai?». Fortunatamente avevo la funzione Bluetooth e potevo parlare col vivavoce, altrimenti la voce acuta di mia madre avrebbe distrutto il mio povero timpano.
«Tutto alla grande, mami. E tu? Che mi racconti?».
«Oh, le solite cose noiose! Nessuna novità. Ti ho chiamato per un motivo, però».
«Dimmi tutto». Mi fermai ad un semaforo rosso e attesi di ascoltare la voce di mia madre riempire gli altoparlanti della mia auto.
«Domani fanno l'inaugurazione di un nuovo parco giochi, qui vicino casa mia. È davvero carino, ci sono anche delle giostre adatte ai bambini piccoli, sai?». Fece una breve pausa, poi riprese. «Mi sembrava bello portarci Tommy. Che ne dici? Gliene avevo già parlato e sembrava entusiasta di vederlo quando ancora era in costruzione. So che sta da Cooper stasera, ma potresti andarlo a prendere domattina e portarlo direttamente da me, se vuoi. Ci sarà anche Bob con noi. Passeremo una bella giornata. Può dormire da me e lunedì lo accompagnerò io a scuola». Come al solito, mia madre si era già organizzata tutto il da farsi. Faceva sempre così. Prendeva decisioni senza neanche chiedere, perché sapeva già di ricevere un sì come risposta. E se così non fosse stato, sarebbe riuscita a convincere chiunque. Era molto brava in quello.
«Non lo so, mamma. Già stasera passa la notte fuori e...».
«Oh, andiamo! Gli farà bene passare del tempo con la nonna. Ne ho tutto il diritto! Se lo chiedi a lui, ti dirà sicuramente di sì!».
«Certo che dirà di sì. Tu lo vizi!».
«E non è forse questo che fanno le nonne?». Sospirai. Con lei sarebbe stata sempre una battaglia persa.
«Posso venire a prenderlo la sera magari...».
«Non ci pensare neanche!». Mi interruppe subito. «Non ti permetterò di guidare con quel buio fino a casa. È pericoloso. Sta' tranquilla, tesoro. Pensa solo che avrai tutto il weekend libero e che potrai riposarti». Alzai gli occhi al cielo. Avrei potuto dire di tutto ma mia mamma non avrebbe ceduto, non fino a quando non avesse raggiunto il suo obiettivo.
«E va bene, rompi scatole! Domattina vado a prendere Tommy e lo porto da te, allora».
«Sì! Sei proprio l'amore di mamma, tu». Sorrisi, consapevole del fatto che mi avesse fregata ma felice di avere una mamma come lei. Parlammo ancora un po' del più e del meno, di come stesse Bob e di come andasse la vita di Trixie, poi quando entrai nella via dell'Ink la salutai e mi concentrai nel trovare parcheggio. Fortunatamente, non lo beccai troppo distante e in pochi minuti mi ritrovai per strada, intenta a camminare in direzione del negozio.
A pochi metri dall'arrivo vidi un uomo vicino alla porta d'ingresso, fermo ad aspettare e con lo sguardo fisso dentro, come se non avesse il coraggio di entrare. Sembrava un tipo particolare. Indossava un cappello da cowboy di un color beige chiaro che gli copriva tutti i capelli, una camicia quasi dello stesso colore che era infilata in un paio di pantaloni di un marrone scuro. Da come era vestito, sembrava uscito da un film ambientato nel far west. Mi avvicinai con cautela, incuriosita da quella presenza un po' strana, e quando arrivai alle sue spalle lui si voltò verso di me, attirato dal rumore dei miei passi.
«Oh, mi scusi! Prego». Si scansò da davanti la porta come se si fosse accorto solo in quel momento di star bloccando il passaggio che permetteva l'accesso al negozio. La sua voce era roca e un po' flebile, quasi stanca, ma attribuii quella stanchezza alla sua età. Avrà avuto sessanta o addirittura settant'anni, pensai. Aveva dei baffi bianchi molto belli che gli coprivano quasi l'intera bocca e la sua pelle risultava scura e parecchio abbronzata, come se fosse stato tante ore sotto i raggi del sole. Riuscii a vedere solo metà del suo volto, perché aveva abbassato leggermente il capo così che il cappello gli ricoprisse gli occhi.
«Salve». Lo salutai. Solitamente non davo confidenza agli sconosciuti – una cosa che tutte le mamme insegnavano ai propri figli – ma quell'uomo attirava di gran lunga la mia curiosità. Volevo proprio sapere cosa ci facesse lì. Dal suo aspetto si capiva quanto fosse totalmente innocuo, così decisi di farmi avanti e di chiedergli altro. Avrei dovuto comunque aspettare la fine del turno di Kade, quindi tanto valeva occupare il tempo con qualcosa. «Ha un appuntamento, per caso?». Chiesi educatamente, attirando la sua attenzione. L'uomo misterioso, non potendo più sfuggire alla mia presenza e alla mia voce, alzò lo sguardo su di me e finalmente potei vedere il suo intero viso. Le rughe che gli incorniciavano la pelle scura confermarono la mia ipotesi sulla sua età, ma la cosa che più mi sorprese furono i suoi occhi. Quelli erano di un blu meraviglioso. Erano piccoli, sì, ma le iridi brillavano di un colore simile a quello che aveva il mare di notte. Un blu intenso e sgargiante che, ne ero sicura, avrebbe impressionato chiunque. Era proprio un bell'uomo, c'era da ammetterlo.
«Purtroppo no. Non sono riuscito a chiamare e mi sono presentato qui senza nulla. Che sciocco! Lei, invece? Ha un appuntamento?». La sua voce era molto profonda, quasi rilassante, e il suo modo di parlare lasciava trasparire rispetto e gentilezza.
«Oh, no. Niente appuntamento per me». Risposi sorridendo. «Il mio ragazzo lavora qui e sono venuta ad aspettare che finisca». I suoi occhi strabilianti si spalancarono sorpresi, ma quella sorpresa durò pochi secondi prima che ritornasse ad avere un'espressione normale.
«Ma che bello! Ho sentito parlare molto bene di questi tatuatori. Com'è che si chiamano? Ah, la memoria mi abbandona... Maledetta vecchiaia... Lo sapevo, lo sapevo». Cominciò a ragionare per conto suo. Appariva così buffo e mi divertiva. Stavo per aiutarlo a ricordare ma lui mi precedette. «Ce li ho! Jesse e Kade, sbaglio?». Il mio sorriso si allargò.
«Non sbaglia, sono proprio loro. E poi c'è il piccolo Austin che li aiuta». L'uomo cominciò ad annuire ripetutamente, attento ad ascoltarmi.
«E chi di questi è il suo ragazzo? Se posso permettermi, ovviamente». Ero ipnotizzata da lui. Sembrava di parlare con un nonno, così paziente e così saggio. Era piacevole chiacchierarci e non mi dispiacque avere la sua compagnia.
«Mi sono presa il capo. Kade Acker». Risi per fargli capire la mia battuta e lui rise con me, regalandomi la vista della sua dentatura perfetta. «È facile riconoscerlo. Ha un enorme serpente che gli avvolge il braccio».
«Caspita! Un tatuaggio impegnativo!».
«Già, ha proprio ragione. E lei cosa aveva intenzione di tatuarsi?». Domandai, ancora curiosa.
«Oh, una sciocchezza! Nulla di importante».
«Il mio ragazzo pensa che ogni tatuaggio sia importante». Mi guardò attentamente, restando in silenzio. I suoi occhi si fissarono nei miei e notai un velo di tristezza attraversargli lo sguardo. Fu questione di secondi – il tempo di un battito di ciglia – prima che tornasse indifferente, ma io me ne resi conto lo stesso.
«Beh, credo che il tuo ragazzo abbia ragione. Deve esser un grand'uomo».
«Lo è». Annuii nella sua direzione. «Che ne dice se entriamo?». Indicai la porta che ancora non avevamo aperto e lui seguì la traiettoria del mio dito, un po' indeciso.
«Non so! Come le ho detto, non ho nessun appuntamento. Forse è meglio tornare un altro giorno...».
«Potrebbe prenotare, però! Non sia timido. Venga dentro». Mi diressi dentro il negozio e gli tenni la porta aperta, invitandolo ad entrare. Lui sembrò inizialmente titubante, si guardò un po' intorno e poi alla fine cedette e me la diede vinta. Quando mi voltai verso la scrivania mi accorsi che Austin non c'era e mi chiesi il perché. Stava parlando con Jesse e Kade da qualche parte, forse? Ad ogni modo, gli feci cenno di accomodarsi sulle poltroncine rosse assieme a me e lui mi accontentò, sedendosi lentamente e un po' a fatica.
«Oh, figliola... Le auguro di non invecchiare mai». Sorrisi sia per la sua affermazione, sia per come mi aveva chiamata.
«Ma lei è un giovanotto!». Gli dissi, strappandogli una risata che si trasformò presto in un attacco di tosse. Quando smise di tossire, proseguii. «D'altronde, l'età è solo un numero, no?».
«Lei è troppo gentile. Qual è il suo nome, dolce signorina?».
«Aria». Risposi subito. «Aria Green. E lei?».
«Aria...». Ripeté lui, sovrappensiero, ignorando la mia domanda e ragionando su qualcosa. Ci guardammo per un po', io persa in quelle iridi che ricordavano tanto il cielo di sera. Quando mi convinsi a parlare, però, fui interrotta da un'altra voce. Una voce molto più conosciuta.
«Ehi, piccola. Sei qui». Voltai lo sguardo e vidi Kade fare ingresso nella stanza provenendo dal suo studio. Al suo seguito notai la presenza di un ragazzo giovane, sui trent'anni circa, che aveva la parte alta del braccio completamente avvolta da una pellicola.
«Ehi». Lo salutai sorridendo mentre lui posava gli occhi sull'uomo al mio fianco, aggrottando leggermente le sopracciglia. Non perse molto tempo ad osservarlo, piuttosto si diresse dietro la scrivania e fece il conto a quel ragazzo che si era appena tatuato. «Oggi non c'è Austin?». Gli chiesi mentre prendeva i soldi e li inseriva nella cassa.
«No. Austin ha staccato prima per un impegno e Jesse ha finito gli appuntamenti del giorno. Ci sono solo io, ora». Ascoltai ciò che disse e poi tornai a guardare l'uomo al mio fianco. Troppo presa da altro, non mi ero accorta di come lui si fosse zittito. La sua concentrazione, in quel momento, era rivolta tutta verso Kade. Lo guardava, lo studiava e sembrava molto attento, molto preso.
«Lei desidera qualcosa, signore? Vuole prendere un appuntamento?». Dopo che il ragazzo se ne fu andato, il mio uomo si rivolse a lui ed io attesi pazientemente che rispondesse dicendo di voler fissare un appuntamento. Al contrario, però, si alzò con un po' di difficoltà, si sistemò il cappello da cowboy e cominciò a camminare verso l'uscita.
«La ringrazio, ma no. Ho cambiato idea. È meglio non occupare un posto per un vecchio come me che, molto probabilmente, non arriverà a domani».
«Ma no!». Mi alzai di scatto e lo fermai subito, impedendogli di andarsene. «So che ci tiene! Non ci ripensi, la prego». Poi mi girai verso Kade che ancora si trovava dietro la scrivania e ci guardava leggermente confuso. «Kade, tu hai finito con gli appuntamenti per oggi, no?» Lui annuì, capendo sempre meno. «Allora fallo adesso. Non aveva nemmeno il coraggio di entrare, prima. Ho insistito io. Non ha chiamato per fissare un giorno, però si possono fare delle eccezioni a volte, no?».
«Signorina Green, è stato un piacere parlare con lei, davvero. Probabilmente la miglior cosa che mi sia capitata oggi, ma non voglio creare problemi. Se ci sarà occasione, tornerò». E poi non riuscì più a parlare perché gli prese un altro forte attacco di tosse.
«Ti prego». Sussurrai, supplicando Kade con lo sguardo e cercando il più possibile di non farmi sentire dall'uomo misterioso alle mie spalle.
«Ti va bene aspettare? Non so quanto ci metterò». Annuii immediatamente.
«Certo!».
«Non è necessario, davvero. Io...». Il signore tentò di nuovo di farci desistere ma questa volta fu Kade ad interromperlo.
«La mia donna ha dettato ordini, io eseguo». Scherzò, probabilmente per farlo rilassare, e ci ritrovammo tutti a ridere. «Allora, prima deve compilare questo foglio, poi ci accomodiamo nel mio studio». L'uomo misterioso fissò Kade negli occhi con uno sguardo intenso e per un attimo credetti che se ne sarebbe andato, che non ci avrebbe ascoltati. Poi, dopo un tempo che sembrò infinito, sospirò e si fece avanti. Sorrisi, felice che fossimo riusciti a convincerlo. Non capivo il perché, ma ci tenevo a lui. Più che altro, tenevo al fatto che raggiungesse un suo volere. La vita era una e le occasioni non andavano sprecate.
Il cowboy dagli occhi blu compilò il foglio che gli era stato dato e poi cominciò a seguire Kade verso la porta dello studio. Io riportai le chiappe sulla poltroncina rossa e li guardai andare via. Stavano per girare l'angolo e imboccare il corridoio che portava alle altre stanze, quando lui si voltò verso di me, guardandomi confuso.
«Lei non viene?». Mi chiese.
«Non mi permetto di invadere la sua privacy». Gli risposi. Era vero. Non sapevo neanche dove si volesse tatuare, non potevo di certo fare la spavalda e andare con loro.
«Ma quale privacy! Può venire con noi?». Quella domanda la rivolse a Kade.
«Se lei vuole, certo». Quell'uomo mi fece cenno di seguirli e io non esitai a farlo, così che dopo pochi secondi entrammo tutti insieme nello studio. «Si accomodi pure sul lettino lì in fondo, signor...?».
«Noah». Rispose l'uomo di cui ora conoscevo il nome. Noah.
«Molto bene, Noah. Prego». Kade gli indicò il lettino, poi prese il tablet per disegnare e si sedette su una sedia di fronte a lui. Anche io presi una sedia, la trascinai a pochi metri da loro e mi accomodai, osservando la scena. Il negozio era completamente vuoto, c'eravamo solo noi tre a far rumore e a riempire quel silenzio che ci circondava. «Cosa pensava di fare?».
«Oh». Noah parve ricordarsi in quel momento dove si trovasse. Lentamente e col respiro un po' affannato – doveva avere qualche problema ai polmoni, pensai – infilò una mano nella tasca anteriore dei suoi pantaloni marroni e tirò fuori un foglio un po' stropicciato. Lo aprì e lo porse a Kade mentre io mi protendevo per riuscire a vedere cosa fosse. «So che può risultare un po' banale, ma è l'unica cosa che vorrei tatuarmi». Quando il mio uomo prese il foglio tra le mani, cercando il più possibile di stenderlo, potei osservare anche io ciò che vi era rappresentato.
«Un battito cardiaco». Sussurrai, pensando ad alta voce. «Non è per nulla banale, Noah. È una cosa bellissima. Di chi è?». Gli chiesi senza riuscire a trattenermi.
«Di mio figlio». Rispose subito lui, lo sguardo commosso.
«Mi deve solo dire quale parte vuole che faccia. O lo vuole per intero?». Domandò giustamente Kade.
«No, no. Preferirei fosse la parte iniziale, questa qui». Gli indicò la parte che desiderava tatuarsi e Kade si mise subito all'opera. Cominciò a muovere il pennino sul suo tablet senza mai fermarsi, cercando di essere preciso e serio. Nel suo lavoro era bravo, nulla avrebbe potuto distoglierlo. Era concentrato su ciò che faceva e il suo obiettivo era unicamente quello di soddisfare il cliente. Noah lo osservava con attenzione, non lasciava mai cadere lo sguardo sul disegno ma aveva gli occhi puntati solamente su Kade. Sembrava curioso di lui e mi chiesi il perché, ma non ci badai più di tanto.
«Suo figlio sa che sta facendo questa cosa?». Gli domandai, sempre più curiosa.
«No. Ma glielo farò vedere appena tornerò a casa». Annuii sorridendo e apprezzando il suo amore incondizionato per suo figlio, perché lo trovavo simile al mio.
La successiva mezz'ora scorse più velocemente di quanto avrei mai pensato. Kade preparò lo stencil e chiese a Noah dove lo volesse. Lui scelse di farselo in prossimità del cuore, a sinistra del petto, e quasi mi venne da piangere quando lo disse. Era così dolce.
Kade ci mise poco a realizzare il tatuaggio e Noah non fece un fiato, non sembrava neanche provare dolore. Non parlammo molto durante l'esecuzione, l'unico rumore che si sentiva era la vibrazione della macchinetta per l'inchiostro. Una volta terminato e medicato, ci dirigemmo tutti fuori dallo studio e Noah poté pagare.
«È stato un immenso piacere per me conoscerla, signorina Green». Esordì il cowboy mentre si dirigeva verso la porta.
«La prego, mi chiami Aria». Noah mi regalò un sorriso sincero che mise in risalto le rughe del suo volto prima di spostare lo sguardo su Kade.
«Grazie per il tatuaggio. Grazie per tutto». Gli disse. «Se la tenga ben stretta, la sua Aria».
«Lo farò». Gli rispose lui. Noah ci dedicò un ultimo sguardo, un'ultima occhiata profonda, prima di voltarci le spalle un'ultima volta e scomparire nel buio della sera. «Particolare quel tipo, non trovi?». Domandò Kade rivolgendosi a me.
«Un po'. Però ci ho parlato poco prima che arrivassi ed è stato davvero carino. L'ho beccato qui fuori a guardare l'entrata come se non riuscisse a darsi coraggio, così l'ho voluto aiutare. A proposito, grazie per aver accettato di fargli il tatuaggio».
«Non c'è di che». Si avvicinò e mi diede un bacio a fior di labbra. «Andiamo?». Annuii. Lo aiutai a sistemare le cose – a chiudere tutte le porte e ad ordinare la scrivania – prima di dirigerci entrambi fuori dall'Ink.
«Io ho parcheggiato lì. Ti vengo dietro per andare da te». Gli indicai il punto in cui avevo messo la macchina. Lui guardò prima quello, poi me, e infine parlò.
«Vieni con me. Ti accompagno io a prendere Tommy, domani». Mi venne la voglia di alzare gli occhi al cielo ma decisi di non farlo. Mantieni la calma, Aria. Ce la puoi fare.
«No, Kade, grazie. Tra l'altro devo andarlo a prendere e portarlo subito da mamma. Mi ha chiamata prima e mi ha chiesto di poter passare la giornata con lui». Dal mio tono di voce trasparì il mio non voler esser contraddetta, ma lui se ne fregò altamente.
«È una buona occasione per farmi conoscere tua mamma, no?». Chiese, mentre la mia calma stava per andare a farsi fottere.
«A te non frega un cazzo di conoscere mia madre, Kade». Appunto. «Tu vuoi solo accompagnarmi da Cooper e assicurarti che non accada nulla».
«Le parole, Aria». Disse. Senza più resistere, alzai gli occhi al cielo.
«Vuoi davvero ripetere per l'ennesima volta questa discussione? Perché inizio davvero a stancarmi». Ed era proprio così. Provava in tutti i modi a trovare scuse che gli permettessero di farmi da guarda del corpo e pretendeva anche che io non mi incazzassi? Assurdo.
«A me interessa molto conoscere tua madre, quindi ti pregherei di non sparare cazzate». Fece un passo avanti, minaccioso, ma non mi tirai indietro. Piuttosto lo affrontai e lo guardai dritto negli occhi, imperterrita. La strada sembrava pressoché vuota e le poche persone che passavano di lì potevano godersi il nostro battibecco che stava avvenendo proprio di fronte all'Ink. «E qual è il problema se voglio accompagnarti? In tarda mattinata ho anche da fare al negozio quindi mi rimane comodo. Andiamo a prendere insieme Tommy, veniamo qui, tu recuperi la macchina e vai a fare ciò che devi mentre io mi metto a lavorare. Non verrò da tua madre, se è questo il problema». Dopo averlo ascoltato, avevo una gran voglia di tirarmi i capelli da sola. O forse volevo tirarli a lui?
«Non è quello il problema, infatti! Possibile che non capisci? Cooper non è pericoloso e io sono grande abbastanza per proteggermi da sola. Non ho bisogno di un fottuto bodyguard».
«Aria...». Iniziò ma lo stroncai sul nascere, volendo concludere in fretta quella conversazione.
«Basta, Kade. Adesso vado in macchina e ti seguo a casa». Cominciai ad indietreggiare, sfidandolo con lo sguardo. «E se ti azzardi a dire altro, non sarà a casa tua che andrò». Detto quello, mi voltai e mi diressi in auto. Non sentii più la sua voce parlarmi alle spalle, ma sentii uno sportello chiudersi con forza e immaginai fosse lui che, incazzato, maltrattava la sua BMW.
A quell'ora non trovammo troppo traffico e in una decina di minuti arrivammo a destinazione. Parcheggiai l'auto dietro a quella di Kade, proprio davanti casa sua, poi afferrai la borsa e scesi. Anche lui fece lo stesso, prima di dirigersi verso di me.
«E comunque non abbiamo finito di parlare!». Mi disse, leggermente arrabbiato. Io lo guardai sorpresa, chiedendomi se stesse facendo sul serio.
«Non ti è bastato quello che ho detto prima?».
«E va bene». Senza permettermi di fare o dire altro, Kade si abbassò e mi caricò in spalla. Era la seconda volta che mi prendeva come fossi un sacco di patate, ed era la seconda volta che non riuscivo a fermarlo.
«Cazzo, Kade! Mettimi subito giù!». Gli diedi uno schiaffo sulla schiena che, probabilmente, non gli fece neanche male.
«Di' un'altra parolaccia e finirà molto male, Aria». Disse lui mentre si dirigeva alla porta di casa. La sua minaccia non mi fece paura perché ero sicura che quel "finire male" si riferisse ad un'eccitante e passionale scopata, niente di più. Arrendendomi dallo scappare e dall'oppormi, aspettai che lui entrasse dentro e mi posasse a terra. Quando lo fece, gli lanciai un'occhiataccia.
«Hai finito di fare il cane rabbioso?». Sbottai. Lui si portò una mano sui capelli e sospirò.
«Tu metti a dura prova la mia pazienza».
«Ma davvero?». Il mio tono di voce si fece ironico, cosa che probabilmente lo fece arrabbiare ancor di più.
«Sei esasperante».
«E tu sei insistente».
«Facciamo la pace, ora?». Fece un passo verso di me e mi circondò i fianchi con le braccia. I nostri corpi aderirono, incastrandosi perfettamente, e la rabbia cominciò a trasformarsi in tutt'altro.
«Non si risolverà nulla così, sai?».
«Lo so. Ma ho intenzione di dedicare l'intera notte per convincerti».
«Io non mi lascerò convincere!».
«Questo lo vedremo». Sussurrò Kade prima di afferrarmi per il sedere e tirarmi su, facendo avvinghiare le mie gambe alla sua vita. «Anni fa Jesse mi regalò un paio di manette che non ho ancora mai usato, ma credo sia arrivato il momento di sfruttarle».
«Vuoi legarmi al letto?». Lui non rispose alla mia domanda. Si diresse in camera sua tenendomi ancora in braccio, diede un calcio alla porta per aprirla e mi guardò, le iridi di un blu scuro e magnifico. «E poi, che diavolo di regalo sono un paio di manette?». Kade rise, ma anche a questa richiesta non arrivò alcuna risposta. Semplicemente mi buttò sul letto e, come promesso, mi donò una notte di pura passione.

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