Prologo

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«Tu as tout eu?» chiede mia madre.

Da quando papà è morto sembra più paranoica del solito.

«Oui» mi limito a rispondere.
«Même le violon?» domanda, e mi rendo conto di averlo dimenticato.
«Je vais le prenez» sospiro.

Salgo di fretta le scale, non curante di star indossando le scarpe.
Prima di entrare in camera mia e di mia sorella, rallento e mi concentro per evitare di fare troppo rumore. Apro la porta e afferro il mio violino, già pronto al viaggio.

Mi guardo un'ultima volta intorno e osservo mia sorella per qualche istante.
Spero che riesca a sopravvivere, sola con quella matta di mia madre.

Non riesco a trattenermi e le lascio un ultimo bacio sulla fronte prima di andarmene definitivamente.

Quando scendo mia madre è fuori sotto il portico, forse a dare qualche indicazione all'autista, utilizzando il suo inglese molto scarso.
La mia valigia deve essere già stata portata in macchina.

Esco anche io, chiudo l'entrata alle mie spalle per evitare che entri il freddo gelido dei primi di gennaio, e noto che il povero autista stenta a capire ciò che sta cercando di comunicargli mia madre. Decido di intervenire e mi avvicino.

«Je m'en occupe maman» dico per poi sorridere al tassista, che sembra effettivamente non capire nulla di quello che ho appena detto.

«Trésor» mi accarezza i capelli mia madre.
«Soyez prudent» si raccomanda.
«Surtout aux hommes» sussurra, come se lì ci fosse qualcuno oltre a me in grado di comprendere le sue parole.

Tutto ciò che riesco a fare è annuire prima di dirigermi verso la macchina che mi sta aspettando.
Mi apro da sola la portiera ed entro.

«Grazie di essere intervenuta» dice il tassista appena sale anche lui, alla guida. Deve avere sui quarant'anni e qualche chilo di troppo. Forse la moglie cucina troppo bene per resistere alle sue prelibatezze.

«Non ho capito niente di quello che stava dicendo tua madre» ride mettendo in moto.
Non rispondo e lo noto lanciarmi un'occhiata dallo specchietto retrovisore.

«In stazione quindi?» chiede.
«Sì»
«E dove andrai di bello? Se posso» persiste.

Forse dovrei scrivermelo in fronte quando non ho voglia di parlare.

«A scuola» dico semplicemente.
«Già al college? Sembri molto più piccola»
Sospiro e non aggiunge più nulla; forse ha intuito che non sono in vena di conversazione.

«Okay, ho capito, non una grande chiacchierona, sai, anche io ero come te alla tua età, ma poi mi sono sposato e sono diventato una persona nuova» ride all'ultima parte di frase, con una risata che, se non lo avessi visto, avrei attribuito ad un bambino di massimo sette anni.

Non riesco a capire se ha smesso di parlare o se sono io che non lo sto più ascoltando, spero vivamente la prima, ma mi sbaglio.
Per quelle poche volte in cui mi distraggo dai miei pensieri, lo sento discutere di come Londra sia cambiata negli ultimi quindici anni e di come la mia generazione abbia il mondo in mano.
Ad un certo punto sento anche la parola pioggia, ma non so se si stia lamentando della natura di Londra, sempre ricoperta dalle nuvole, o del meteo che arriverà prossimamente.

Quando si ferma, intuisco che sta parlando di quello attuale: sembra che Dio, tutto in una volta, abbia deciso di scatenare l'inferno.

Lo vedo afferrare l'ombrello ed uscire. Apre il portabagagli e afferra la mia valigia. Successivamente mi apre la portiera e mi porge una mano, che dovrei usare per facilitarmi l'uscita, ma che mi mette solo a disagio.
Quando capisce che non ho intenzione di toccarlo, ritrae le dite paffute e solo a quel punto esco anche io.

Strizzo gli occhi, cercando di vedere qualcosa oltre alla patina di acqua che li aveva ricoperti.
Lo guardo e vedo che mi sta sorridendo, sta volta porgendomi l'ombrello e il mio bagaglio.
Prendo quest'ultima e osservo l'ombrello, riluttante.

«Prendilo pure, io ne ho parecchi» cerca di convincermi.
Ci riesce e, solo quando lo prendo, noto il marchio dell'azienda per cui lavora risplendere nel manico e su tutta la copertura, e solo ora realizzo che era tutto marketing e non una gentilezza. Lo accetto comunque perché mi servirà sicuramente.

Recupero il violino che avevo lasciato nell'abitacolo, la valigia e mi volto per salutare il tassista, che però è già risalito a bordo.

«È stato un piacere fare la tua conoscenza Edith, speriamo che il nostro servizio sia stato gradito, e ricorda, per qualsiasi esigenza, la London EV Company è qui per te» afferma come una macchinetta mentre sta già scomparendo nella pioggia.

Sospiro perché sicuramente, dopo aver capito la loquacità dei loro dipendenti, non prenderò mai più un taxi, a costo di usare mezzi pubblici a vita, dove per lo meno l'autista non ti racconta tutta la sua vita.
E mi dispiace anche un po' per Robert, il tassista, che stasera tornerà a casa da sua moglie Amy e le racconterà che strana ragazza aveva incontrato quel giorno a lavoro.
Non so bene neanche io dove abbia appreso queste informazioni, ma ci penso ben poco.

Entro all'interno della stazione e mi guardo intorno, smarrita. Il mio biglietto segna un certo binario 'nove e qualcosa', e intuisco di dovermi dirigere verso il binario nove, dove, effettivamente, scorgo un cartello con scritto 9¾.

Sbatto le palpebre, confusa.

Ricordo però che mi è stata mandata una lettera dalla scuola, nella quale veniva esplicitamente spiegato come raggiungere il treno: lanciarsi con la parete. 
Non ho molte opzioni, se non quella di tornarmene a casa, ma questo comporterebbe dover sopportare mia madre e non se ne parla. 
Chiudo gli occhi, preparandomi alla morte.
Prendo la rincorsa e...

sento delle voci. O sono morta o c'è qualcuno.
Non so se aprire gli occhi o fare finta di non esistere.
Facciamo che apro gli occhi sperando di non esistere.

Faccio un conto alla rovescia mentale, ma, purtroppo, quando li apro, scopro di essere ancora nel mondo dei vivi.

Sospiro nuovamente, desolata, e inizio il mio cammino verso l'inferno.

Twisted Hearts || Mattheo Riddle ||Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora