EPILOGO

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Torino, 27 agosto 1950

Era una giornata torrida d'afa e in un albergo presso la stazione di Torino, Cesare Pavese si era tolto la vita. La sua fama era al culmine, due mesi prima aveva ricevuto a Roma il premio Strega con il romanzo La bella estate di cui Elena aveva una copia sul comodino. Dalle informazioni che erano pervenute, lo scrittore era stato trovato disteso sul letto dopo aver ingerito più di dieci bustine di barbiturici che utilizzava come sonnifero; aveva 42 anni.

Quando Elena lo seppe se ne dispiacque tanto da guardare il romanzo con tristezza e malinconia. L'edizione Einaudi aveva in copertina un illustrazione abbastanza infantile di una fanciulla attorniata da diversi fiori, il disegno sembrava essere stato eseguito da un bambino che volesse imparare a disegnare.

"Com'è brutto morire così" mormorò seduta sul letto e fissando il libro che aveva perso il suo creatore "è veramente brutto".

Gaudenzio, in maniche di camicia, si sedette accanto a lei e l'abbracciò in silenzio. Elena trattenne le lacrime appoggiandosi sulla sua spalla. Con gesto lento, lui scese la mano verso il ventre che iniziava a ingrossarsi.

"Non vedo l'ora che nasca" le disse all'orecchio. Le accarezzò i capelli e iniziò a baciarle il collo "non vedo veramente l'ora ..." mormorò.

Elena e Gaudenzio si erano sposati il 23 agosto di quattro anni prima. Era stata una cerimonia semplice i cui invitati erano composti da Patrizio con Anna, i fratelli Durastanti e un paio di amiche della sposa. Giorgio non era riuscito a venire ma aveva mandato una lettera d'auguri.

La funzione si svolse nella chiesetta prospiciente il convento di suore che ospitava Elena. Esse all'inizio cercarono di persuadere la donna dal suo desiderio di diventare moglie inviandola verso la vita monacale, che ritenevano adatta a un persona seria e adatta come lei. Ma quelle vecchie bisbetiche non le fecero cambiare idea. Quando seppero dell'evento, le amiche di Elena fecero a gara a chi avrebbe realizzato il miglior abito; alla fine fu proprio la protagonista del piccolo tarrefuglio creatosi a incaricare loro di aiutarla nella realizzazione.

Smisero di mangiare e tolsero qualche ore di sonno pur di creare l'abito da sposa di Elena. Impiegarono del tessuto di lino bianco e da esso ne ricavarono un abito semplice, con la gonna che arrivava alle caviglie e le maniche corte. Per abbellirsi, Elena si mise il corsetto e adoperò un rossetto rosso sulle labbra.

Uscita dal convento con il velo davanti, e accompagnata dalle amiche, si diresse verso la chiesa dove aspettava Gaudenzio; il tutto sotto gli occhi attenti di alcuni curiosi. All'interno la chiesa era in penombra e contava una navata centrale. Le pareti in pietra erano decorate con vari affreschi sbiaditi dal tempo. Campeggiava una grande croce con Gesù Cristo posta davanti all'altare. Gaudenzio era in piedi davanti a una sedia, si girò.

La sua sposa avanzava a piccoli passi.

Una lacrima gli scese dal volto e quando vide Elena davanti a sé le tolse il velo e sorrise.

"Ti amo" sussurrò flebilmente. Dentro di sé era felice.

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Si tenne un piccolo rinfresco all'ora di pranzo nel salotto della casa di Gaudenzio. Venne servito qualche antipasto e, infine, i due sposi tagliarono insieme una fetta di torta sotto lo sguardo gioioso di tutti mentre un fotografo pagato dai Durastanti immortalava il momento. La piccola sala risuonò di un fragoroso applauso da parte degli invitati accompagnato dagli auguri di una vita felice per Elena e Gaudenzio.

In occasione del matrimonio Patrizio ed Eugenio si ritrovarono. Si erano già salutati in chiesa e finita la cerimonia si lasciarono andare ad abbracci e saluti vari. Passarono molto tempo insieme durante il quale Patrizio narrò al bolognese della sua prigionia ed evasione ad opera di Orsini.

"Patrizio ..." lo richiamò Eugenio dopo averlo ascoltato.

Patrizio lo squadrò con curiosità.

"Ci sono gli sposi" proseguì "è un giorno di festa, ne parleremo dopo"

Patrizio guardò gli sposi che ballavano e se ne compiacque; anche lui avrebbe avuto il suo felice epilogo con Anna.

Al suo ritorno, la fidanzata gli aveva confidato il fatto che avesse dato un piccolo bacio a Eugenio a Bologna. Patrizio la perdonò dicendole che ora era tutto sistemato; lui era ritornato e non c'era più motivo per cui stare in angoscia e lasciarsi andare a qualche follia.

Alla fine dell'anno arrivò un telegramma a Patrizio che lo informava di recarsi a Roma per una questione riguardante il dottor Orsini. Il cuore gli arrivò in gola quando scoprì che il dottore, prima di suicidarsi, aveva lasciato una lettera esprimendo il desiderio che Patrizio l'avrebbe letta. Chi la teneva aveva impiegato un anno di ricerche per cercare il torinese e consegnargliela.

Era una breve lettera in cui Orsini scriveva della sua prigionia nel campo di concentramento di Fossoli nei primi mesi del'44, della sua fuga eludendo le guardie e il suo ritorno a piedi a Roma. Poi il cambio d'identità dal cognome Levi a Orsini e il dolore di non sapere dove fosse il figlio e la moglie rimasta nel campo e finita chissà dove. Infine l'incontro con Patrizio e la sensibilità che provò a vedere quel ragazzo simile in tutto e per tutto al figlio. Era stato quello il motivo per cui a denti stretti aveva deciso di farlo uscire. E poi la paura che Jacobi avesse potuto ucciderlo e il conseguente e straziante suicidio. Ogni parola scritta imprimeva un immagine diversa; prima triste e poi malinconica; poi di speranza e infine di dubbio.

Dopo quella lettera Patrizio ebbe voglia di piangere. In momenti casuali dei giorni a seguire si sentì sempre triste. Come se fosse in uno stato di malattia permanente, come un freddo incombente che lo rendeva infelice e che non sarebbe mai andato via.

Quello che Orsini ha fatto per me è stato un bel gesto.

Patrizio, immobile con lo sguardo vacuo e indistinto, trasognato affondava il suo strazio a quel nebuloso dottore, mentre i palpiti assenti del suo cuore volgevano stravolti al pensiero di Orsini. Se ne era andato, errante e solitario, fuggendo di nascosto da tutti in un mondo che era stato estirpato dai fascisti e che ora si affacciava fiducioso al futuro; futuro che Orsini non avrebbe saputo assistere a ennesime deportazioni contro gli ebrei, ma contento di aver tratto in salvo un anima.

Alla fine Giorgio si era lasciato sedurre dalle proposte di una nuova vita nella capitale piemontese e aveva lasciato Roma in cerca di un nuovo futuro.

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Inseguendo quei pensieri ingarbugliati si sistemarono molte cose. Dopo quattro anni di pace c'era una melodia sotterranea e pacifica, una tensione benefica che tirava la sfolgorante coppia prima da un lato e poi da un altro. E subito pensavano a come raccontare ai figli quel frangente di vita in poche frasi, come sbarazzarsi di dosso una sensazione forte come quella del: "ti vorrei dire tutto, ma non so più come si faccia a cominciare a parlare sul serio e non per finta".

Forse Elena sognava frasi buttate lì per nervosismo e quelle taciute per incanto; mentre Gaudenzio sarebbe stato un innamorato ormai cresciuto, un nuovo Peter Pan senza polvere di fata e avrebbe baciato la sua donna mentre lei gli sussurrava "ti amo". E allora lui le avrebbe confessato che il tempo era come un bambino capriccioso che prendeva e toglieva i giochi dalla cesta, che correva in una direzione senza sapere nulla su dove essa avrebbe portato ma che avrebbe promesso una vita fatta di momenti pacifici e conflittuali. Ma loro lo sapevano. Cercarono un vicolo per ricomporsi e ringraziare la creatura che sarebbe arrivata.

FINE

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