𝐏𝐫𝐨𝐥𝐨𝐠𝐨 | 𝐒𝐢𝐥𝐞𝐧𝐜𝐞

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I'm so used to sharingLove only left me aloneBut I'm at one with the silence-Silence

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I'm so used to sharing
Love only left me alone
But I'm at one with the silence
-Silence

Il silenzio.

A volte il silenzio è la cosa più rumorosa che ci possa essere, così assordante da rompere i timpani, così forte da sentire il bisogno di parlare, così inquietante da voler spezzarlo col minimo rumore. Rompere quel suono che non viene riprodotto a suo dovere.

Il silenzio era l'unica cosa che riuscivo a sentire in quel momento mentre venivo inghiottita dall'oscurità, da un buio che mi faceva paura, mi terrorizzava così tanto che per un attimo avevo sentito il mio cuore fremere. Ora sentivo anche i battiti, così rumorosi che li percepivo anche nelle orecchie.

Non sapevo cosa stava succedendo, semplicemente non sentivo nient'altro intorno a me, sembrava come se il mondo si fosse fermato all'improvviso, senza darmi il tempo di capire cosa mi circondava. Ma lentamente, dei suoni ovattati si erano fatti largo fino a raggiungere le mie orecchie.

La sirena dell'ambulanza, le persone che parlavano ad alta voce, chi urlava, chi si lamentava, chi mi stava parlando cercando di catturare la mia attenzione, il rumore delle ruote che stridevano sull'asfalto, lo scoppiettio del fuoco.

Il silenzio era stato spezzato.

E sinceramente volevo ritornare in quella realtà parallela dove non si sentiva niente, solo il nulla più totale. In effetti mi ero già abituata a quella dolce sensazione, sgradevolmente amara ma gentile allo stesso tempo. Avevo desiderato così tanto un po' di silenzio durante i miei pochi anni di vita, che adesso, in quel breve attimo di pace, me lo avevano portato via in un attimo.

Cosa avevo fatto per non meritarmi un po' di tranquillità?

Le palpebre erano appesantite, il mio corpo era dolorante ovunque e mi sentivo legata, con una cintura che non mi permetteva di muovermi, mentre il mondo sotto la mia schiena sembrava muoversi in una direzione sconosciuta.

Un sapore metallico si era fatto spazio sulla mia lingua, inondando la mia bocca in modo disgustoso.

Sangue.

Lentamente, ritornando alla realtà della vita, avevo cominciato a capire cosa stava succedendo intorno a me, nel momento esatto in cui avevo aperto un occhio con le ciglia sporche di un liquido rosso e secco.

«Dobbiamo portarla immediatamente al pronto soccorso!» urlò un uomo e mi chiesi perché aveva dovuto alzare la voce così verso qualcun'altro.

Perché per comunicare gli adulti dovevano alzare la voce?

«Cosa è successo?» la mia stessa voce mi era risultata roca, spezzata, come un vetro che era stato frantumato in mille pezzi.

«Stai tranquilla, presto ti sentirai meglio» aveva parlato una donna, la riconoscevo dalla voce femminile e molto elegante, leggermente preoccupata.

«Dove mi stanno portando?» chiesi riuscendo presto ad aprire entrambi gli occhi, guardando le persone allarmate e preoccupate che mi scorrevano accanto come un fiume a tutta velocità.
Sembravano solamente delle sagome oscurate, prive di volto alcune.

Silenzio.

Girai lo sguardo, con la testa che sembrava essere stata schiacciata da una macchina in corsa per quanto mi faceva male. Il corpo intorpidito, per poi rendermi conto che ero trasportata su una barella in movimento.

Avevo cominciato a sentire il cuore battere forte nella cassa toracica, quando, osservando la situazione attorno a me, scorsi una macchina in fiamme.

La macchina di mamma.

Non ero molto sicura che si trattasse della sua, anche perché essendo completamente risucchiata dal fuoco e dal fumo, mentre i pompieri cercavano di spegnerla, era difficile capirlo. Ma io ne ero sicura. Lo percepivo da come il mio cuore batteva forte, preoccupato. Allarmato.

Colori sgargianti come il rosso e l'arancione scoppiettavano nell'aria, anche in piccole particelle di fuoco che si mimetizzavano nell'oscurità della notte assieme alle stelle luminose nel cielo buio. Quando da un finestrino rotto scorsi qualcosa che mi traumatizzò.

Un braccio penzolava dall'auto capovolta, col tettuccio che era compresso contro l'asfalto. Il braccialetto di conchiglie della mamma era attaccato al suo polso, percorso da una linea di liquido rosso, il suo colorito acceso dalle fiamme che lentamente venivano spente.

Sentivo il respiro mancare, il cuore perdere un battito.

«Mamma», mormorai all'improvviso rendendomi lentamente conto che quella si trattava della macchina nera della mamma, la stessa con cui mi aveva portata per una festicciola di una mia amica di scuola, «Quella è la mia mamma!».

Avevo fatto di tutto per slacciare quelle cinture, con i medici che mi dicevano di stare ferma mentre vedevo il braccio di mia madre venire ricoperto di schiuma, provocata dalla pompa dei pompieri. I miei eroi sin da bambina.

Non mi avevano lasciata andare da nessuna parte, mentre mi caricavano dentro un posto talmente luminoso da farmi male agli occhi deboli, con una donna che continuava a parlarmi per cercare di farmi rimanere sveglia, ma urlavo. Urlavo perché volevo la mia mamma, volevo che mi portavano da lei il prima possibile. Ma dicevano che non era possibile.

In lontananza però scorsi qualcosa, nonostante la vista che mi si appannava leggermente per colpa delle lacrime che mi velavano gli occhi. Una testa scura di un ragazzino che poteva avere la mia età, dieci anni o forse più grande, era in piedi accanto ad un uomo vestito in modo elegante e che parlava con uno degli uomini che mi avevano portato dentro l'ambulanza.

Quel ragazzino aveva distolto lo sguardo dalla macchina non più in fiamme nelle vicinanze e mi guardò. Quegli occhi scuri erano tristi, seri, senza vita.

«Aiutami... voglio andare dalla mamma» avevo detto, forse più a bassa voce di quanto immaginavo, perché il ragazzino aveva portato lo sguardo sull'uomo accanto a lui, che lo teneva dalle spalle.

Silenzio.

Silenzio

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