35 | Lunedì

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CAPITOLO 35
Lunedì

Ci sono molte cose che odio. Una in special modo è il lunedì, soprattutto se a iniziarlo è con l'influenza. Ethan mi sta guardando da dietro il bancone del bar con disappunto, mi ha ripetuto tremila volte di andarmene a casa ma io ho categoricamente rifiutato.

Voglio lavorare. Ho bisogno di lavorare, maledizione. Perché se vado a casa, non so come tenermi la testa veramente occupata. Film e serie TV non sono sufficienti perché mi basta una frase o una scena per riaccendere bruscamente i ricordi di sabato sera e non voglio che accada, ne ho veramente abbastanza così come vale per il mio cuore che ormai ha fatto le valigie e se n'è volato a fanculo perché evidentemente non mi sopporta più, né me e né tantomeno le mie scelte e azioni imbarazzanti e disastrose.
Quindi ora che le emozioni e i sentimenti li ho messi standby, non mi resta che stare concentrata sulle ordinazioni, ignorare la spossatezza e il mal di muscoli e...

Starnutisco.
Abbasso gli occhi sul vassoio e starnutisco una seconda volta sui due milkshake che avrei dovuto portare al tavolo quattro.
Merda.
Sospiro pesantemente e torno indietro, metto il vassoio sul bancone del bar e in automatico Ethan mi lancia un'occhiata.
«Non ricordi il tavolo che li ha ordinati?»

Poggio le braccia sul marmo nero e inclino la schiena fino a nascondere il viso su di esse. Ho un capogiro.
«Ci sono i miei germi là dentro» mormoro tirando sul col naso e in automatico una fitta di dolore mi attraversa il setto nasale.

«Perché invece di fingere che stai bene, non te ne vai a riposare come un qualsiasi altro essere umano?» chiede esasperato e lo sento prendere il vassoio e buttare i milkshake nel lavabo.
«Perché sto bene» replico fino allo sfinimento e a forza di ripeterlo magari anche il mio sistema immunitario ci crederà tanto da farmi tornare in salute con un qualche strano e assurdo colpo di magia nera.
«Ronnie» sento dopo diversi secondi. A fatica alzo lo sguardo e le luci bianche del locale mi fanno lacrimare pericolosamente gli occhi.
«Vai a casa» ordina serio in viso. «Se non ci vai, giuro che ti prendo di peso e ti ci porto io. Qui non servi, non in questo stato e soprattutto non col rischio di contagiare la clientela con la tua influenza. Dai...» mi indica poi. «Sfilati il grembiule e vai a dormire.»
«No» ribatto a tono del tutto contrariata.
«Hai mai pensato di mollarti da sola uno schiaffo in faccia?» replica però lui lasciandomi sbigottita. Afferra un bicchiere, lo riempie con qualche goccio d'acqua e me lo lancia in faccia bagnandomi il viso.
In tutta risposta lo guardo male.

«Sei uno stronzo» dico.
Lui sorride beffardo.
«E tu uno zombie» dice e mi allunga una mano. «Muoviti. Dammi il grembiule, ci penso io ad avvisare Denise.»

Sbuffo sonoramente ma alla fine sto zitta ed eseguo. Mi slego il grembiule e glielo sbatto in mano, Ethan in risposta riduce gli occhi in due fessure e mi guarda male.
«Non ti voglio vedere ronzare da queste parti finché non ti rimetti in sesto. Se osi intrufolarti di nascosto, ti lancio in testa la bottiglia di Tequila.»

«Ma se hai una mira di merda...» replico scocciata. Lui mette il mio grembiule dietro il bancone e mi lancia un'occhiata.
«Ti lancio tutte le bottiglie del Pink Ocean finché non ti becco in fronte» mi fa porgendomi la borsa a tracolla che afferro alzando gli occhi al cielo.
Mi giro, pronta per raggiungere l'ingresso e poltrire nel mio letto molto sicuramente demoralizzandomi, e invece piuttosto che incamminarmi alla porta i miei piedi si solidificano nel pavimento.

Oh, cazzo.

Sbarro inevitabilmente gli occhi, gli stessi che finiscono nei suoi scuri. Sull'uscio, la porta ancora aperta mi guarda e io vorrei solo sprofondare a diecimila metri sotto terra finché il mio corpo non diventa polvere.
Sono pietrificata e lo stesso vale per il mio respiro. Di colpo ho smesso di ispirare aria nei polmoni, ho dimenticato il modo in cui dovrei farli funzionare.

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