23. piuma di piombo

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T/n: «quindi, perché devo allenare le gambe? È ovvio che il mio punto debole siano le braccia»
Dico mentre ci riscaldiamo, per evitare di morire di noia.
M: «ok, allora facciamo così: se quando indurirai il muscolo del bicipite non ci saranno muscoli evidenti alleneremo le braccia, altrimenti alleniamo le gambe»
T/n: «d'accordo»
Indurisco più che posso il muscolo ed effettivamente riconosco che è piuttosto evidente... molto evidente.
T/n: «ah»
Esordisco, stupita di me stessa.
M: «non lo avevi mai fatto prima?»
T/n: «da piccola, quando volevo dimostrare a mio fratello che ero forte tirandogli dei pugnetti sull'addome»
Sorrido a quel ricordo, soprattutto perché la maggior parte delle volte gli facevo male sul serio.
M: «alleneremo le gambe»
Sentenzia.
T/n: «e se allenassimo i muscoli addominali?»
Tento.
M: «oggi le gambe, la prossima volta gli addominali»
Faccio una smorfia nel sentire che la mia proposta è stata cestinata.
T/n: «...ok»
Dico, arresa all'idea che i miei addominali dovranno aspettare ancora.
T/n: «però io voglio allenare i miei addominali!»
Dico mettendo il broncio.
M: «perchè, non sono abbastanza scolpiti?»
T/n: «...non ci sono affatto»
Dico in un sussurro flebile, impercettibile. Lui sembra comunque coglierlo, perché alza gli occhi sui miei, che distolgo lo sguardo deluso e leggermente malinconico.
M: «togli la felpa»
Mi ordina, mentre io rimango ferma e cercare di capire di cosa stia parlando. Sotto ho una maglia oversize a maniche corte e sotto ancora indosso un top sportivo. Non capisco dove voglia arrivare ma decido di accontentarlo quando vedo che mi fissa con fermezza e convinzione. Tolgo la felpa.
M: «togli la maglia»
Aspetto un attimo, cercando di assimilare quelle tre semplici parole che mi sembrano un ordine, più che un invito.
T/n: «come?»
M: «mi hai sentito»
T/n: «non mi toglierò la maglia! Anzi, ora rimetto anche la felpa... qui fa freddo»
Dico con esitazione. La verità è che non sto percependo neanche una briciolina di gelo, anzi. La realtà è che so dove vuole andare a parare e io non rimarrò con solo il top sportivo addosso, sia per le occhiate che mi arriverebbero dagli altri, sia per le occhiate che mi arriverebbero da Riddle... sono sicura di me, certo, ma mettiamo anche in conto il mio passato: ho paura che gli occhi addosso poi diventino mani... e chissà cos'altro.
M: «non ti guarda nessuno, solo io»
Dice osservando attentamente la mia espressione. Come se questo mi rassicuri...
Prendo la felpa ma, quando sto per indossarla, lui mi blocca le braccia sopra la testa, tenendole con le sue mani forti e dalla presa salda.
M: «ti avevo chiesto di togliere la maglia, non di rimettere la felpa»
Mi sussurra, a un palmo dal mio viso. La distanza che ci separa è ridicola e la cosa mi inquieta.
T/n: «perché? Perché vuoi farmi accettare il mio corpo? Che cosa te ne importa?»
M: «togli la maglia»
Sussurra, ignorando le mie numerose domande.
T/n: «rispondimi»
M: «tu fa come ho detto»
Scuoto la testa, non voglio espormi a nessuno... nessun'altro. Sussurro un incantesimo, per coprire i lividi sul corpo, in tono estremamente basso: sono certa che stavolta non abbia sentito.
M: «perché non mi vuoi accontentare?»
T/n: «non mi spoglio per nessuno, Mattheo»
M: «non devi spogliarti, hai il top sportivo sotto»
Sbianco mentre un sospetto irragionevole si fa strada nella mia mente.
T/n: «come lo sai?»
M: «si vede la spallina beije attraverso il collo della maglia»
Tiro un sospiro di sollievo, prendendo atto che quel ipotesi assurda non poteva essere vera.
T/n: «non è un top sportivo, è un reggiseno»
M: «beige?»
T/n: «perché? Devo dare conto a te per il colore del mio reggiseno?»
M: «se non è un top sportivo è anche meglio»
Ghigna maliziosamente.
M: «allora facciamo così: o te la levi da sola, o te la tolgo io»
Dice ammiccando.
T/n: «vuoi umiliarmi? Perché non ci riuscirai!»
Sibilo diffidente.
M: «voglio dimostrati che non devi nasconderti dentro felpe grandi, maglie oversize o cappotti nei quali entrerebbero cinque te. Voglio dimostrarti che non hai bisogno di nasconderti dietro ego e orgoglio, sicurezza e freddezza, perché la vera te è sprecata se conosciuta solo da due persone: te stessa e Alice»
T/n: «questo spettacolino l'ho già vissuto... non ci cascherò di nuovo»
M: «non tutti quelli che incontri vogliono farti del male»
T/n: «non mi biasimeresti se conoscessi almeno una briciola di quello che ho vissuto»
M: «...in realtà un paio di cose sul tuo passato io le ho capite»
Quelle parole arrivano al mio cuore come una secchiata d'acqua gelida. Il mio cervello assimila quei vocaboli con una lentezza disarmante.
T/n: «no, non è vero...»
Sussurro, terrorizzata che qualcuno possa aver capito qualcosa che io ho provato a cancellare e celare per tutto quel tempo. Non può aver capito... non deve. Non voglio che capisca.
M: «spesso chi soffre di claustrofobia ha subito del violenti traumi legati agli spazi chiusi... e tu ne soffri. Chi non si lascia avvicinare, è diffidente, non si lascia toccare e ha scatti istintivi quando l'altra persona prova a toccarlo...»
Lo fermo.
T/n: «no»
Sussurro decisa, ma è solo una flebile preghiera, troppo piccola per esprimere il mondo di traumi, bugie e omissioni che mi sta crollando addosso. E la verità è che non sono stata abbastanza brava a nasconderlo. Chiunque sano di mente ci sarebbe arrivato prima o poi... solo io potevo continuare a sperare che nessuno avrebbe mai capito.
M: «chi ti ha fatto questo?»
Mi chiede, con un tono tanto triste da spezzarmi in due il cuore; quel cuore che nascondo a tentoni e che ripudio in una maniera disumana, troppo orgogliosa per dargli retta e troppo testarda per cedere all' impulso sentimentale che tanto mi ostino a disprezzare. L'affetto delle persone non è mai stato una priorità nella mia vita, anche perché non c'era spazio in casa mia per dimostrazioni smielate o per l'empatia verso una figlia che soffre a causa di quei debiti ereditati che i miei genitori non avrebbero faticato a chiudere, se solo non fossero così tirchi e attaccati ad ogni bene materiale da poterci rinunciare. La verità è che in casa mia non c'è mai stato posto nemmeno per me, nemmeno per noi. I figli, per i miei genitori, sono sempre stati un peso che aveva l'unico e solo scopo di ereditare i beni di famiglia: le aziende, i soldi e gli amici ai quali erano e sono disperatamente affezionati grazie a ciò che li accomuna: l'ostilità verso qualunque essere umano meno ricco di loro.
T/n: «... mi devo allenare»
Sussurro, alzandomi e andando verso uno dei macchinari che ho usato l'ultima volta. Purtroppo è occupato, perciò dovrò aspettare che si liberi. Adocchio i tapirulan... mi servirebbe proprio una corsetta per scaricare la tensione. Mattheo vede che sto guardando in quella direzione, perciò si avvicina ai macchinari e mi fa cenno di seguirlo. Dopo aver impostato la velocità inizio a correre, perdendomi nel flusso dei miei pensieri in una maniera quasi destabilizzante... in questi momenti la mia mente è come una trappola: seducente ma letale. Mi attrae come nient'altro al mondo, ma mi soffoca in modo opprimente. Dopo una buona mezz'oretta mi giro a vedere se lo strumento sia libero e noto che è così, perciò spengo il tapirulan e scendo. Prima che io possa arrivare però una ragazza lo occupa, facendomi fremere di collera. Mi guardo intorno e vedo quel macchinario. Quello su cui non ho idea di come salire. Quello che non so come utilizzare. È lì, in tutta la sua imponenza... mi attira a sé come il canto di una sirena attira i marinai. Sono così curiosa ma allo stesso tempo temo che qualcuno possa fare apprezzamenti poco opportuni o possa avvicinarsi a me in maniera molesta.
M: «se vuoi, posso aiutarti io con quello»
Noto che Mattheo ora è al mio fianco, mentre osserva il macchinario con una punta di divertimento e malizia. Non mi tratta come gli altri... non mi tratta con compassione o pena, come invece avrebbe fatto chiunque fosse venuto a conoscenza del mio trascorso.
T/n: «ma a debita distanza»
Gli concedo. Lui annuisce e poi ci avviciniamo all'oggetto. Mi spiega come salire, come lavorarci e a cosa serve, poi inizio. Mi lego la felpa intorno alla vita: siccome è piuttosto spessa è difficile vedere qualcosa attraverso essa. Inizio ad allenarmi e, poco a poco, l'esercizio diventa sempre più pesante. Accidentalmente mi scivola giù la felpa e, siccome ho tolto i pantaloni di tuta perché stavo soffocando dal caldo prima, ora indosso solo i pantaloncini ciclisti che, inutile dire, sono fin troppo aderenti. Fasciano perfettamente il mio corpo, ecco. Me ne accorgo solo quando le mani di Mattheo mi avvolgono la vita, legandomi in grembo di nuovo la felpa. Il mio viso prende fuoco quando, per qualche ragione a me ignota, lui tiene la presa salda sui miei fianchi. Mi giro leggermente, per riuscire a guardarlo almeno con la coda dell'occhio. Ha un'espressione indecifrabile: sembra rilassato ma al contempo irritato, sciolto ma teso, sereno ma nervoso. La sua presa sui miei fianchi è salda, come a indicare una possessione. I suoi occhi mi guardano ma... ma la sua mente sembra altrove. Ha un'espressione dura ma mi infonde sicurezza mentre con le mani si impone delicatamente sul mio bacino. Quando decido di cambiare esercizio, gli faccio cenno di spostarsi un poco per permettermi di scendere. Una volta giù, noto che la sua espressione non è cambiata e che, nonostante mi stia guardando negli occhi, la sua mente è da tutt'altra parte.
T/n: «va tutto bene?»
M: «come fai a fingere di non aver vissuto nulla di male? Come riesci ad andare avanti nonostante i tuoi brutti trascorsi? Come fai a sfogare tutte quelle emozioni devastanti soltanto attraverso la corsa? Come riesci a fare finta di nulla quando quegli eventi riaffiorano alla tua mente? Oppure quando vedi la tua pelle nel riflesso dello specchio?»
Tutte queste domande mi sommergono e mi destabilizzano. Mi opprimono. Mi soffocano. La curiosità altrui è qualcosa che io non riesco ad empatizzare in alcun modo.
T/n: «io...»
Sospiro.
T/n: «...abitudine, credo»
È tutto ciò che riesco a dire, poi il groppo in gola restringe le mie possibilità di parlare fino a impedirmelo definitivamente. Quelle due parole sono come piombo. Sembrano così semplici, così... effimere. Eppure nascondono tutto il dolore che non riesco più a trattenere.
T/n: «l'abitudine di non sfogarmi con nessuno, l'abitudine di essere ignorata e di isolarmi... perché tanto nessuno si è mai accorto del mio dolore. Perché non ho mai dovuto fingere nulla con nessuno prima di arrivare in questa scuola. Perché, in fondo, se nessuno ti prende in considerazione non hai bisogno di nasconderti dagli occhi di nessuno»
Parlo senza rendermene conto e quando smetto ormai il danno è fatto. Mi giro e prendo tutte le mie cose, poi esco di corsa dalla palestra e mi materializzo nella mia camera.
Entro in doccia mentre il flusso dei pensieri mi assale la mente. Inizio a piangere ripensando ai miei ricordi poco felici... illudendomi che quelle che rigano le mie guance siano le goccioline dell'acqua invece che le mie lacrime.
Ho bisogno di uno spazio sicuro dove pensare. Uno spazio in cui non ci siano studenti che vagano in giro. Uno spazio in cui ci sia solo io a poter palare... in cui possa pensare solo a me stessa, al mio studio, al mio lavoro. Non so se avvisare Alice, se invitarla a raggiungermi.
Prendo il laptop e mi siedo alla scrivania, iniziando a scrivere una mail da mandare alla mia migliore amica, perché andare a parlarle sarebbe troppo straziante per me adesso. Prima di inviarla, decido di andare dal preside ed informarlo della scelta che ho fatto.
T/n: «sorbetto al limone»
Sussurro una volta giunta davanti alla scalinata "segreta", che mi conduce nell'ufficio del preside in pochi secondi. Quando busso alla porta ed entro, invitata da Silente, lui sembra molto sorpreso di vedermi.
S: «signorina Blossom, a cosa devo la sua visita?»
Chiede gentilmente, una cortesia che mi fa rivoltare lo stomaco.
T/n: «vorrei proseguire i miei studi da privatista»
Proclamo, decisa e impassibile.
S: «posso sapere il motivo di tale richiesta?»
Indugio.
T/n: «motivi personali»
Affermo.
S: «e di che natura?»
T/n: «professore, con tutto il dovuto rispetto, ormai sono maggiorenne e posso prendere le mie decisioni da sola. Ritengo opportuno studiare da privatista perché qui sono una minaccia pubblica e, non vorrei sbagliarmi, ma mi sembra che il timore che incuto negli altri studenti non sia visto di buon occhio dai professori... la verità è che in questa scuola non sono io la minaccia. Per quanto io abbia provato a mantenere la calma, negli anni precedenti, gli studenti se ne approfittavano. Non ho mai avuto problemi a gestire l'aggressività solo perché non sono mai stata aggressiva... ma quando è troppo è troppo. I lupi se li mangiano gli agnellini»
S: «ha ascoltato la conversazione che io e la professoressa McGonagall abbiamo avuto»
Constata.
Annuisco leggermente, senza abbassare la testa e sorreggendo il suo sguardo severo e ammonitorio, pieno di rimprovero.
S: «se è ciò che vuole, io non posso far altro che assecondare la sua richiesta... ma spero che riesca a mantenere il ritmo»
Ci penso un attimo.
T/n: «professore»
S: «mi dica»
T/n: «sarebbe per me possibile seguire le lezioni in presenza e tornare a casa per il resto del tempo?»
La mia domanda sembra riaccendere nei suoi occhi una luce di speranza.
S: «certamente»
T/n: «la ringrazio»
Esco dal suo ufficio e torno nella mia camera, dove trovo Alice intenta a leggere qualcosa sul mio computer. Spalanco gli occhi quando ricordo di non aver chiuso Gmail e aver lasciato aperta la pagina dove stavo scrivendo la mail da mandarle.
A: «che cosa significa?»
Dice, visibilmente irritata.
T/n: «io... avrei dovuto dirtelo di persona, mi dispiace»
Esita qualche istante prima di girarsi nella mia direzione, ha gli occhi lucidi.
A: «non puoi andare via, non così. Non senza una motivazione da darmi e, ti prego, fa che sia convincente se devi dirmi una bugia»
T/n: «nessuna bugia, non ti mentirei mai... sai che ti dico tutto»
Prendo una grossa boccata d'aria, prima di iniziare a raccontarle ciò che è successo oggi in palestra con Riddle.

Infelicemente ancorata al passato.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora