Prologo

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Essere figli di Nemesi è un disastro a dir poco.
Vieni considerato strano quanto un figlio di Iride, inquietante quanto un figlio di Ecate e pericoloso più o meno quanto un figlio di Hypnos.
Non hai alcun potere, e nemmeno l'intelligenza dei figli di Atena o la furbizia dei figli di Ermes, e per gli altri campisti hai una bussola morale al centro del petto, come un secondo cuore. In sostanza, sei il giudice da cui nessuno vuole andare perché impossibile da corrompere o influenzare.
Se a questo aggiungiamo che tua madre si è schierata dalla parte di Crono nella guerra contro l'Olimpo, non conta nemmeno più che si sia alleata con gli dei per combattere Gea. E soprattutto, non conta che tu abbia dovuto odiare tuo fratello e poi bruciarne il drappo. Questo lo dimenticano sempre tutti.
Non ricordo di preciso quando sono arrivata al Campo - quando mio padre mi ha abbandonata al Campo- nè come fosse la mia vita prima: avevo cinque anni e nessuna possibilità di ricordare. Ricordo solo che c'era un caminetto, con un vero fuoco caldo e scoppiettante, e una libreria colma di volumi fino all'esasperazione. E una lunga, lucida toga nera.
All'inizio ero da sola, sotto le cure dei vari capicabina della casa di Ermes, poi, anni dopo, era arrivato quel ragazzino vestito di nero da testa a piedi, con quei tratti orientali così riconoscibili e foschi occhi più scuri della maglietta.
Era diventato il mio unico amico, l'unica persona con cui parlavo davvero. Lui era più grande, ma io ero al Campo da più tempo, così si creò una sorta di equilibrio in cui nessuno dei due tentava di prendere il comando del nostro improbabile duo.
Era come un fratello, anche se sapevamo che le possibilità di essere realmente consanguinei erano quasi pari a zero; eppure, nessuno di noi due era ancora stato riconosciuto. Quand'è successo, io ero al Campo da quasi dieci anni e avevo ormai dimenticato cosa volesse dire dormire su un letto vero e proprio. Nemesi, mia madre, aveva deciso che avevo aspettato abbastanza.
Poi era scoppiato il finimondo. Lui era sparito, da un giorno con l'altro, ed io avevo supplicato invano Chirone di lasciarmi uscire per poterlo cercare, arrivellandomi per settimane su scenari sempre peggiori, finché Percy Jackson ci aveva raccontato del tradimento di mio fratello. Non era passato molto da quel giorno quando l'esercito di Crono ci attaccò, sbucando dal cuore della foresta e seminando morte e rovina per il Campo. E fra loro c'era anche lui, Ethan, che avrei preferito poter dare per morto. Sapevo perché l'aveva fatto, aveva ragione a dire che gli dei meritavano una punizione e meritavano di cadere, ma non era il modo giusto per ottenere dei risultati. E poi, quella benda sull'occhio era una novità ben inquietante, simbolo di un patto di cui ancora non sapevo nulla.
Quando poi difendemmo Manhattan, sapevo di star combattendo anche contro mia madre. L'avevo sognata, qualche volta, con quella sua giacca di pelle color rosso sangue e gli scrutatori occhi gialli, tremendamente simili a quelli di un falco. E quella benda in mano, che porgeva verso di me in un muto invito. Non era nel suo stile, per niente, è tutt'ora fatico a capire cosa mi stesse dicendo. Forse si riferiva all'altro suo figlio, quello a cui aveva chiesto in pegno un occhio.
Già, quasi scordavo, ho scoperto solo dopo che Crono era stato sconfitto che Ethan ed io eravamo davvero legati dal sangue.
Quando Percy mi aveva avvicinata, ai piedi dell'Empire State, dicendomi di preparare un drappo per un figlio di Nemesi, avevo creduto fosse uscito di testa. Poi, però, era arrivato qualcuno, non ricordo bene chi, che l'aveva preso da parte e aveva mormorato qualcosa, portandolo via prima che potesse spiegarsi.
Avevo preparato comunque il drappo e, una volta finito, Annabeth aveva scoperto che non avevo idea di chi fosse il suo possessore. Così mi aveva spiegato tutto.
Certo, scoprire che il tuo migliore amico è anche tuo fratello è una bellissima notizia, specie se sei un semidio e vivi nella cabina di Ermes perché tua madre non ne ha una propria; ma scoprirlo solo dopo che questi è morto, tradendo Crono e provando a salvare colui che ti ha commissionato il suo drappo funebre... beh, fa schifo, lasciatemelo dire.
Poi i semidei erano stati riconosciuti, avevamo costruito nuove cabine ed io avevo finalmente abbandonato quel vecchio sacco a pelo, in cui ogni tanto mi infilo ancora. Ethan era riuscito nel suo intento: portare equilibrio tra i semidei, fare in modo che i nostri genitori si accorgessero di noi, che ci considerassero e ci riconoscessero, possibilmente prima di essere uccisi da mostri assetati di sangue semidivino.
Era arrivato anche Damien, subito dopo la battaglia, ed era stato riconosciuto all'istante da mia madre.
Da allora in estate siamo in due ad occupare la cabina numero 16, ma ora che è inverno il suo letto è vuoto e ben rifatto, le sue cose infilate con cura nell'armadio. Dovrebbe passare a salutare per Natale, ma mancano ancora molti mesi. E poi, nonostante siamo fratelli, anche d'estate ci vediamo ben poco. Giusto quel che basta, e solo a mensa e la sera. Per il resto, siamo autonomi. Abbiamo officiosamente scelto di non avere un capocabina - che per anzianità sarei io - ma di alternarci: una settimana scelgo io, una settimana sceglie lui, per evitare contese e ingiustizie.
Essere figli di Nemesi vuol dire stare da soli, perché nessuno capisce davvero quanto sia faticoso sopportare il peso di quella bilancia che nostra madre ha impresso in noi. È difficile odiare le ingiustizie con tutto il cuore, tentare di riportare giustizia ed equilibrio nel Campo e ritrovarsi inevitabilmente soli; sì, soli, soli quasi quanto quel figlio di Ade. Nessuno vuole sentire la campana del proprio avversario, nessuno vuole riportare i piatti in piano: ognuno vuole che il proprio piatto sia più pesante. Ma nessuno vuol capire che, se troppo pesante, affonderebbe e romperebbe la bilancia, sportando terribili squilibri, com'era successo durante la guerra contro Crono.
Essere figli della dea della vendetta porta lotte e tormenti interiori, perché è impossibile chiudere un occhio e far finta di nulla, ignorando i problemi, propri o altrui.
E tutto questo, avrei preferito non saperlo.

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