Le lettere

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Erano le nove e ventisette della mattina, si diede una sistemata ai capelli, il necessario, e si diresse sull’uscio. Appena passata la veranda si rese conto di aver dimenticato le chiavi del pick-up. Tornò indietro e le cercò per vari minuti, rovistando tra i vestiti accumulati sulle sedie in camera da letto e lanciandoli un po’ ovunque. Le trovò nella tasca dei jeans beige a frange buttato per terra, in camera.
Tornò all'auto e vi entrò. Accese il motore e si diresse al cimitero, non distante da casa. Aveva percorso quella strada centinaia di volte, perché portava in città. Ma non vi si recava dal giorno della morte di Julia. Lui, quel fatidico giorno, si trovava in città, per parlare con il suo editore.
Arrivò al cimitero una ventina di minuti dopo. Parcheggiò il pick-up nell’ampio spiazzo disseminato di ciottoli e sassolini, scese, e si diresse all’entrata del grande e arrugginito cancello. Le lapidi spuntavano da ogni dove, alcune grandi, altre relativamente piccole. Quella di Julia era rettangolare e occupava un posto importante al riparo sottouna vecchia quercia. Per David la posizione era rilevante. Aveva curato il funerale nei minimi dettagli. Con una tale e maniacale cura, che aveva spaventato tutti.
Si fermò davanti alla lapide di Julia con un mazzo di rose in mano, le poggiò per terra e fissò con malinconia la foto nel riquadro. Si inginocchiò e sentì il cemento premere contro le ginocchia, una posizione scomoda, ma fece caso per poco. Era concentrato sulla lapide, dal colore grigiastro e decisamente cupo. Con la mano destra sfiorò le date di nascita e di morte in rilievo di lei, poi accarezzò la sua foto. Dagli occhi di David caddero diverse lacrime.
Dopo alcuni minuti, con non poca fatica, si mise in piedi. Si piegò per prendere le rose, e le pose in una brocca colma d’acqua.
Prima di andare via, si fermò ancora una volta a fissare tristemente la lapide. Fece diversi passi, e lo sguardo si spostò sulla sinistra, dove vide una signora anziana chinata ad aggiungere alcuni fiori dentro un vaso di ceramica, di fianco a una piccola lapide ingrigita dal tempo. Aveva uno scialle rosso e una lunga gonna nera. I capelli bianchi, folti e ricci le davano un'aria spensierata.
David, come trasportato dalla visione della donna, le si avvicinò, e osservò per alcuni secondi la lapide sulla quale ella pregava. Era la lapide di un uomo anziano e deceduto diversi anni prima.
Lei si girò, lo guardò e gli disse:
«Buongiorno giovanotto, una bella giornata, non crede?»
E David, asciugandosi le lacrime sul viso, rispose:
«Sì, davvero splendida.»
L’uomo si allontanò salutandola con un cenno della testa, e la donna rispose con un sorriso malinconico. L’anziana con cui aveva appena scambiato qualche parola,e che riconobbe solo in un secondo momento, era la vecchia zia che aveva cresciuto Julia, dopo la morte dei suoi genitori, e che il giorno del funerale lo abbracciò in maniera così decisa, così coinvolgente, da farlo piangere come un bambino.
Sulla via del ritorno, pensò di continuo a lei. Pensò che se quel giorno al lago ci fosse stato anche lui, Julia ora sarebbe stata viva. Pensò che se non si fosse allontanato da casa per andare a parlare con il suo editore non sarebbe successo nulla di ciò che era accaduto. Imprecò contro il suo misero lavoro di scrittore, e pianse. Ancora.

Stava percorrendo l’ampio viale ricavato nel terriccio che lo portava alla sua casa in mezzo al bosco, quando in lontananza scorse la figura di una donna alta e bionda. Era Rebecca.
Parcheggiò alcuni metri prima della veranda, e notò che la donna lo osservava dentro l’auto, con uno sguardo pieno di compassione. La mente di David venne offuscata da mille nebbiosi ricordi. La gita in barca, le domeniche passate a pranzare a casa di Mick, lui e Julia a letto, a coronare ogni volta con l’amplesso una relazione dai risvolti emotivi ogni giorno sempre più intensi.
David scese dal pick-up con fare disinvolto e, quasi ostentando un mezzo sorriso sulle labbra, la salutò:
“Ciao Rebecca.”
“Ciao David.” Fece lei, rispondendo con una mano insicura che ripose subito dopo nella tasca dei jeans.
Rebecca aveva lunghi capelli biondi e dorati. Gli occhi celesti, che gli ricordavano il mare, e un viso candido, risaltato da una bocca e da un naso minuziosi. I jeans a vita alta, la maglietta gialla e rossa e le scarpe da ginnastica bianche le conferivano un tono sportivo, e sottolineavano il suo fisico snello e formato.  David salì i gradini della veranda e, fissandola negli occhi con sguardo incerto, aspettò un esordio comunicativo da parte sua, che arrivò.
“Sono venuta per chiederti come stavi… e per portarti alcune cose da mangiare.”
David sorrise, scrutò il sacchetto di carta che aveva in mano, e la invitò a entrare.
Quando furono dentro, Rebecca appoggiò il sacchetto sul tavolino in ebano con fare incerto, e alla vista delle bottiglie di alcol vuote ebbe come un vuoto nello stomaco, e si chiese in quale stato si era ridotto.
“Vuoi qualcosa da bere, Rebecca?”
“Ti ringrazio, ma sono a posto, David.”, rispose lei, acquistando sicurezza mentre si muoveva. David si versò del whiskey in un bicchiere di vetro soffiato, e lo ingurgitò in pochi istanti. Si adagiò sulla poltrona rossa e accennò un sorriso a Rebecca.
“Mi fa piacere che tu sia venuta a trovarmi. Da quando Julia non c’è più, vedo poca gente. Sono spariti tutti.”
Si pentì immediatamente di averlo detto. Non aveva bisogno di essere compatito.
“Non io, Dave.”
La sua voce si fece ferma e sicura. E proseguì.
“Io ti sarò sempre vicino. Quello che è successo a Julia…  ha devastato anche me.”
Sembrava sincera. Per alcuni istanti non vi fu alcun rumore, poi continuò.
“Dave, so che per me è diverso, e so anche che ti risulta difficile credere quanto io stia soffrendo. Ma volevo bene a Julia quasi quanto te. La sua morte è stata un brutto colpo per tutti noi.”
Dave non sapeva che cosa rispondere, ma evitava il suo sguardo. Che gli parve sincero.
Rebecca si avvicinò alla poltrona, e con fare determinato si sedette sul bracciolo alla sinistra di David, che fermo e impassibile, non riusciva a cogliere il senso di quel gesto. La donna piegò leggermente in avanti la schiena, e il viso di entrambi fu a sensibile distanza l’uno dall’altro.
La tensione correva su un filo sfilacciato.
Rebecca avvicinò la sua bocca a quella di David, ed esitò per un momento, mentre le sue labbra sfioravano quelle dell’uomo, che, impietrito, non riuscì a ritrarsi indietro.
In un istante, la tensione sfumò in un bacio intenso e passionale, che catapultò i due in un limbo magico di attrazione reciproca. Rebecca sentiva l’odore di alcol salire dalla gola di David, e quest’ultimo percepiva una marea di odori ed emozioni che invadevano i sensi. Preso dall’eccitazione più folle, nonostante la scomoda posizione, David scese con la mano, arrivando ad accarezzare con foga la coscia della donna. Rebecca, da parte sua, immerse le delicate mani tra i capelli spettinati e arruffati dell’uomo. Il bacio durò diversi minuti, a intervalli di pochi secondi caratterizzati da profondi e intense occhiate di passione.
Ma proprio sul più bello, mentre la donna si accingeva a sfiorare con estrema sicurezza il petto di David, questi ne allontanò la mano. La donna lo guardò con l’insicurezza di una ragazzina che viene respinta per la prima volta. Lo sguardo interrogativo e gli occhi lucidi. Rebecca gli chiese, sussurrando:
“Cosa c’è che non va?”
E David, quasi dispiaciuto:
“Non lo so di preciso, ma è sbagliato.”
Rebecca lo guardava, chiedendosi il senso di quelle parole.
“Sbagliato… E’ questo che credi?”
Rebecca stava piangendo. David non sapeva cosa fare, né cosa dire.
“Io non so a cosa credere, Rebecca. Ma so che quello che stiamo facendo è sbagliato.”
“E’ sbagliato perché tu credi che lo sia! Tu sei convinto che lo sia!”
Sì alzò dalla sedia asciugandosi le lacrime. Lo sguardo si era fatto profondo e per nulla rassicurante.
“Credevo che tra di noi ci fosse qualcosa. Credevo che ci fosse una possibilità.”, continuò lei.
David sospirò e riprese la parola:
“Mi dispiace averti deluso Rebecca. Se hai confuso il mio dolore per qualcos'altro… ti chiedo scusa.”
Rebecca non disse nulla, si girò di scatto e uscì dalla casa. David, per un momento, pensò che l’avesse fatto per sempre. Ma sapeva che non era così.
Rimase alcuni istanti afflosciato sulla poltrona a fissare malinconicamente il vuoto. Sì alzò e si diresse in cucina. Ripensò a come si era comportato. Ma che cosa aveva fatto!?
Appoggiò le mani sul lavandino e rifletté diversi minuti. Si era comportato come un vile, avrebbe voluto uscire e rincorrerla per chiederle scusa. Ma era troppo tardi. Anche se tra loro due tutto si sarebbe risolto, quelle sue parole sarebbero risuonate eternamente nel vento. E Rebecca non le avrebbe mai dimenticate.
Mentre lavava affannosamente alcuni piatti, per sfogare il nervoso, cercò di darle la colpa di tutto quella che era successo. Approfittarsi così, in quel momento, del suo dolore, per cercare di colmare la mancanza di affetto di una figura maschile forte, dopo il divorzio dal marito. Lei, la migliore amica di sua moglie, anziché stargli vicino e aiutarlo, si gettava tra le sue braccia, per salvarsi dalla condanna della solitudine.
Ma non funzionò. La colpa era sua, e solo sua. Non avrebbe dovuto lasciarsi andare, ma mettere in chiaro quanto niente o nessuno poteva in questo momento sostituire Julia. E in ogni caso, non si sarebbe dovuto atteggiare in quel modo. Dopotutto, Rebecca soffriva quanto lui. E lo sapeva molto bene.

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