Capitolo 3

415 56 37
                                    

Tre giorni dopo, verso le dieci di sera, io e Juju ci trovavamo seduti sul divano a guardare la televisione, nostra madre era uscita prima di cena e non sarebbe tornata fino al giorno dopo, faceva sempre così. Avevo appena finito di lavare i piatti e buttato le poche verdure che avevo provato a far mangiare a mio fratello, quando sentimmo qualcuno bussare alla porta. Tre tonfi consecutivi, nessun ritmo particolare come quando era Miguel a bussare. Di solito, la sera, comunque era la polizia che ci riportava nostra madre, ma era ancora presto per quel genere di visita, capitava spesso intorno alle due o tre di notte, con la fortuna che Julian aveva un sonno profondo e non si svegliava mai; il fatto che non gli avessi mai dovuto spiegare perché la mamma tornava scortata dalla polizia era un gran bel passo avanti per me. Paul, ragazzo di una decina di anni più grande di me, era il poliziotto che si presentava di solito con nostra madre appesa alla spalla, barcollante e con l'alito che sapeva di birra. Si scusava quando metteva piede in casa nostra, come se fossero colpa sua le condizioni in cui ci riportava quella donna; si fermava sempre a prendere un caffè, mezzo cucchiaino di zucchero di canna e un goccio di latte, possibilmente non scaduto, e si faceva aggiornare da me sulla salute di Julian e sui suoi progressi scolastici. Era come un amico o uno zio per noi, ormai.

Mi alzai e andai ad aprire, con la mente che cercava di ricordare la scadenza del latte che avevamo in frigo, e di fronte mi ritrovai l'ultima persona che avrei voluto vedere. Ken di barbie.

«Che ci fai qui?», avrei richiuso la porta, se quello non fosse stato più svelto di me nel fare un passo dentro casa e impedirmi di chiuderlo fuori.

Frugò nella tasca dei jeans, pantaloni ben stirati e dall'orlo perfetto a livello della caviglia, non come i miei che avevano una gamba più lunga dell'altra per le mie evidenti scarse doti nel cucito, e sfilò un foglio ripiegato in quattro. Nell'aprirlo vidi le sue mani, grandi e callose, nulla a che vedere con l'aspetto che sembrava voler mettere in mostra. Quelle dita erano la rappresentazione di un ragazzo dedito al lavoro, non uno abituato ad accarezzare il volante di una Porsche.

«Ci siamo divisi i compiti, il lunedì quando devi andare a lavorare tengo io tuo fratello, il martedì ci penserà James, mercoledì Mark, giovedì...».

«Fermo, fermo, fermo. Credi che io possa lasciare mio fratello a degli sconosciuti? Vi siete mai occupati di un bambino, almeno?», conoscevo già la risposta. In fondo, in quanti a diciotto anni possono dire di aver avuto a che fare con bambini dell'asilo?

«Che sarà mai? Un cucchiaino di scotch sicuro lo stende e lo fa dormire fino al giorno dopo».

«Ma che cazz...».

«Sto scherzando», rise. «Quanto sarà mai difficile fare da babysitter a un bambino?! Credo di potercela fare».

Scossi la testa, lanciai un'occhiata dietro le spalle per assicurarmi che Julian non mi stesse raggiungendo e poi tornai a concentrarmi su quella specie di modello che non sapeva fare le battute. Ci avevo quasi creduto che volesse dare lo scotch a mio fratello.

«Perché?».

«Cosa?», sembrò davvero non capire la mia domanda.

«Perché volete me? Proprio me, un ragazzo povero che ha sulle spalle una madre alcolizzata e un fratello di cinque anni che ha difficoltà con l'alfabeto».

Parlavo tenendo la voce bassa, quasi un sussurro, ma non mi servì comunque a sentire i passetti felpati di Juju. Dannati calzini antisdrucciolo di spugna.

«Io lo so l'alfabeto», mi rimproverò, facendomi prendere un colpo. Un felino, ecco cos'era quando ci si impegnava.

«Ah, si? Cosa viene dopo la F?».

Si mise le mani sui fianchi e piegò di lato la testa. Avrei riso di lui se non fosse stato così maledettamente simile a me. Cercai di stamparmi nel cervello un promemoria: non assumere più questa posizione ridicola. Inutile, lo avrei rifatto quella sera stessa.

La teoria dei calzini spaiatiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora