Indossavo di nuovo la divisa della Zefiro, con il numero ventotto cucito sulla schiena, in quel momento lo sentivo come un peso, una lastra di metallo contro le vertebre che limitava i miei movimenti e mi impediva di giocare nel modo migliore.
Dopo il riscaldamento iniziale, le due squadre vennero chiamate nel mezzo del diamante e io abbassai lo sguardo lì dove i piedini di mio fratello si erano piantati nel tentativo di divincolarsi quando era stato rapito.
Alzai lo sguardo quando l'arbitro chiamò la nostra attenzione, pronunciando i nomi delle due squadre. Zefiro e Briza.
Allungai il braccio e la mia mano si strinse a quella del lanciatore avversario. Alejandro mi guardò con un sopracciglio sollevato e io provai invano a nascondere ciò che provavo in quel momento.
Avrei giocato di fronte al padre che mi aveva abbandonato, contro il figlio che era stato scelto al posto mio, di fronte al ragazzo che mi donava tutti i suoi sorrisi e di fianco a quello che aveva provato a regalarmi un colpo di scena. Quella partita non sarebbe finita bene, lo sapevo.
Il palmo di Alejandro aderiva perfettamente al mio, stesse dimensioni, stessa altezza e stessa posizione in campo. Due lanciatori con lo stesso talento del padre. Che crudele la sorte, sembrava divertirsi nel vedermi crollare.
Ritirai la mano, ma mi raggiunse la voce di Alejandro. «Samuel, stai bene?», perché era lui a chiedermelo e non Chris? Perché nessuno dei miei amici aveva notato il mio sguardo malinconico? Ah, no, qualcuno lo aveva notato.
Mi girai e i miei occhi incrociarono la visuale di quelli di Drew, che mi fissava dal fondo della riga che avevamo formato nel mezzo del diamante. In qualche modo si era reso conto che lo stessi cercando, ancora prima che potessi accorgermene io stesso.
«Sto bene», risposi al mio fratellastro, rimanendo comunque con l'attenzione su quelle gocce di inchiostro che mi perforavano, come se volessero entrarmi dentro e rimanermi impresse come un tatuaggio.
L'arbitro batté due volte le mani e le squadre si divisero, andando ad occupare le panchine rispettive.
«Ragazzi, giocate come siete soliti fare e vedrete che andrà benissimo», il coach Moya passò le protezioni a Chris, mentre io mi piegavo a recuperare il guantone che avevo appeso in bilico sulla mazza da baseball che avrei usato durante l'attacco.
Iniziavamo in difesa e io non ne ero per niente felice. Avrebbe voluto dire occupare per primo il mound, dover essere il primo lanciatore della partita al centro del diamante. Non volevo muovermi, uscire dalla zona sicura che in quel momento era rappresentata dalla tettoia sopra la panchina. Avrei voluto rimanere nascosto, fingere di essere una riserva e non dover giocare. Strinsi la mano sul guantone e rimasi piegato in avanti, rallentando tutti i movimenti, per tardare la mia entrata in campo.
Sentii un calore improvviso vicino al braccio destro e mi voltai, come se già sapessi da chi proveniva.
«Non devi dimostrargli nulla, non è tuo padre, è solo un uomo che non ha saputo assumersi le sue responsabilità», Drew si piegò al mio fianco e recuperò il cappello. Non aveva buttato lì una frase a caso e non si era intromesso in qualcosa in cui non volevo si intromettesse, eppure, non seppi come rispondere. Rimasi con la bocca socchiusa, a guardarlo solo con l'angolo dell'occhio, finché non si allontanò di nuovo da me.
Uscii dall'ombra della tettoia e guardai in direzione di Julian, che si trovava sulle spalle di Cesar. Avevo chiesto a lui di venire a tenere mio fratello perché avevo l'ansia di lasciarlo da solo e quel mio amico non aveva rifiutato, anzi, aveva risposto a quella richiesta con euforia.
Strinsi le labbra quando, nel tornare a guardare di fronte a me, notai mio padre con dei fogli in mano che dava direttive al suo primo battitore. Strinsi la mano a pugno e digrignai i denti. Su quei fogli c'erano probabilmente i dati su di me raccolti da qualche loro riserva durante le mie partite. Mio padre, l'uomo che avrebbe dovuto crescermi e volermi bene a prescindere, aveva bisogno di una scheda creata da un suo atleta per sapere qualcosa su di me.
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La teoria dei calzini spaiati
General FictionSamuel Rivera è un ragazzo di appena diciotto anni; avrebbe potuto avere una vita come chiunque altro, se suo padre non fosse fuggito all'improvviso, portandosi via la sua infanzia, e se la madre, dopo aver partorito suo fratello Julian, non fosse c...