Nell'ora che ci fu concessa, svuotammo i bagagli e ci appropriammo della stanza, rendendola nostra nel modo migliore: attaccando foto ovunque. I ragazzi, nonostante fossero rimasti nel quartiere dei fighi, erano con noi in quella stanza.
Sentimmo bussare e poi la faccia di Ken di barbie fece capolino nella nostra camera.
«Vi siete sistemati?», si guardò intorno e adocchiò le nostre istantanee attaccate al muro. Sembrò studiarle e poi sorrise. Lo odiavo.
«Andiamo all'allenamento», mi fece segno di seguirlo, ma io rimasi fermo dov'ero.
«E mio fratello?», indicai con un movimento della testa il marmocchio seduto sul letto in compagnia di un T-Rex e di un velociraptor.
«Viene con noi, deve conoscere la squadra».
Fu così che ci ritrovammo in mezzo al campo, di fronte al gruppo completo e con Javier Moya a fronteggiarmi con le mani strette dietro la schiena. In quel momento, senza la sua camicia, sembrava molto meno pericoloso ai miei occhi, mentre Julian, probabilmente, se lo avesse incontrato con quella tuta il giorno in cui si era presentato a casa nostra, non gli avrebbe aperto la porta di casa.
«Samuel Rivera, benvenuto alla Zefiro, ti sei sistemato nel tuo alloggio?».
Annuii e sentii le manine di Julian stringere con forza i miei pantaloni. Da quando aveva imparato a stare in piedi, io avevo imparato a mettere la cintura o ad allacciare il laccetto delle tute per evitare di rimanere in mutande di fronte alla gente.
«Bene, ora i ragazzi si presenteranno a te, ovviamente qui si gioca sul serio, non sono ammessi ritardi o assenze, non sono ammesse scuse e dovrai sempre fare del tuo meglio durante gli allenamenti».
«Non sono uno scansafatiche», ribattei. E non lo ero per davvero. Al liceo ero il giocatore con meno assenze, anche se ero pure l'unico che durante gli allenamenti nel fine settimana si presentava con un bambino sul passeggino.
«Non lo metto in dubbio, ma questa è l'università, qui le partite sono dei veri e propri massacri».
Risi e scossi la testa. Mossi un passo in avanti e Juju mi venne dietro senza mai mollare la presa.
«Crede di intimorirmi? Mi metta alla prova».
Un mugolio attirò la mia attenzione e mi piegai per prendere in braccio Julian, stava superando il limite di sopportazione. Lui non amava trovarsi circondato da gente sconosciuta, aveva bisogno di piccole pause per elaborare il tutto, per immagazzinare i nuovi visi e comportamenti. Avrebbe impiegato meno tempo di me per memorizzare i nomi, ma aveva comunque bisogno di abituarsi a tutte le novità improvvise.
«Mi piaci ragazzo. Bene, squadra, avanti con le presentazioni», il coach batté due volte le mani e si distanziò per fare spazio ai ragazzi alle sue spalle.
Fu Ken di barbie il primo a parlare. Con le sue spalle larghe, il suo sorriso perfetto e il cappellino dalla visiera scolorita.
«Mi chiamo Chris, sono il capitano della squadra e ricevitore».
Porca miseria, avrei avuto a che fare con lui più che con chiunque altro essendo io un lanciatore. Sul fascicolo che mi aveva consegnato tempo prima c'era scritto anche per che ruolo mi avevano convocato e non mi ero stupito affatto nello scoprire che mi volevano nella stessa posizione in cui giocavo al liceo e in cui, malauguratamente, aveva giocato anche mio padre alla mia età. Se mi permettete di dirlo, il ruolo più divertente nel baseball, senza ombra di dubbio.
«Drew, terza base e quarto battitore», lui doveva essere forte in battuta, invece. Sospettavo che usassero la stessa tattica della mia scuola superiore. Come quarto battitore il migliore, perché, se i primi tre fossero riusciti a conquistare una base a testa, lui li avrebbe condotti tutti a casa base con un fuoricampo. Averlo come nemico mi faceva sperare in uno strikeout, anche se a perderci era l'intera squadra.
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La teoria dei calzini spaiati
General FictionSamuel Rivera è un ragazzo di appena diciotto anni; avrebbe potuto avere una vita come chiunque altro, se suo padre non fosse fuggito all'improvviso, portandosi via la sua infanzia, e se la madre, dopo aver partorito suo fratello Julian, non fosse c...