Capitolo 17

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Era finita l'estate, tutto ciò a cui andavamo incontro era un altro anno di esercizi di scrittura, numeri, colori e tante altre cose di cui non avrei dovuto preoccuparmi a diciott'anni. Ma Juju avrebbe iniziato l'ultimo anno di asilo e io dovevo essere più preparato di lui.

Avevamo deciso che il primo giorno di scuola lo avrei accompagnato io, dopo di che ci saremmo organizzati in qualche modo. Fino all'anno precedente c'era la mamma di un suo amichetto che lo passava a prendere, ma abitava nel nostro quartiere e, per far sì che potesse prendere Julian, lui sarebbe dovuto tornare a vivere nella topaia con la mamma.

Presi lo zaino di mio fratello e lo chiamai per la quinta volta. Come ogni essere umano che si rispetti non voleva andare a scuola.

«Andiamo o farai tardi e non voglio che le maestre mi chiamino già il primo giorno. Ricordi? Dobbiamo tenere un profilo basso perché altrimenti capiscono che mamma non si occupa di te».

«Ma è vero, non si occupa di me».

«È vero, ma sbagliato».

«Perché? Io sto bene con te, non ho bisogno di una mamma o di un papà».

Mi fermai, gli occhi lucidi e il nodo alla gola. Era raro sentirlo parlare della mamma o del papà, ma ancora più raro era sentirlo ammettere che non li voleva o che non ne aveva bisogno. Era capitato qualche volta che mi chiedesse perché non poteva avere anche lui un papà e quando gli domandavo come mai se ne uscisse con quelle domande così all'improvviso, si incupiva e divagava andandosene. Lo so che avrei dovuto essere più dolce con lui, spiegargli che non era colpa sua, ma non mi entrava in testa che potesse pensare di essere la ragione per cui nostro padre ci aveva lasciato. Insomma, parliamo di un bambino di cinque anni, tutto avrei potuto pensare tranne che si stava costruendo nella testa un castello di carte.

Mi inginocchiai di fronte a lui e gli presi il viso. I denti gli stavano spuntando di nuovo e me lo aveva fatto notare giusto un paio di giorni prima, urlandomi: «Mi stanno crescendo come le lenticchie». Forse vi chiederete che paragone strano sia riuscito a tirare fuori, ma dovete sapere che il primo anno all'asilo gli avevano fatto fare quell'esperimento dell'ovatta umida con le lenticchie e si era stupito per quanto crescesse velocemente la pianta. Ecco spiegato perché i suoi denti crescevano come le lenticchie, solito vocabolario di Julian Rivera.

«Stiamo benissimo io e te insieme, per questo a scuola non devono venire a sapere che la mamma, beh, che non sa come occuparsi di te», nella scuola precedente, le maestre erano state avvertite che sarei andato sempre io a prendere Julian, la spiegazione che avevo rifilato loro era stata che nostra madre lavorava troppo perché doveva coprire tutte le spese da sola. Il fatto che nostro padre se ne fosse andato prima della nascita di Julian non era un segreto. In questa nuova scuola, avrei usato le medesime scuse: una madre con un lavoro a tempo pieno e un padre assente.

Con gli adulti dovevo sempre fare attenzione; se si fossero resi conto delle condizioni in cui vivevamo, avrebbero potuto avvertire gli assistenti sociali, che, facendo il loro lavoro, avrebbero potuto prendere in considerazione l'idea di affidare Julian a qualcuno con un po' più di criterio, non come mia madre. Se non ci fossi stato io, l'arrivo di un assistente sociale sarebbe stato una salvezza per Julian, ma io esistevo e mi prendevo cura di lui, quindi dovevamo evitarlo.

«Perché?».

«Cucciolo, questo discorso è un po' difficile, ora non abbiamo tempo, ma non ti devi preoccupare», gli accarezzai la testa e provai a rimettermi dritto, ma lui si aggrappò alla manica della mia felpa e mi tirò di nuovo giù al suo livello. Occhioni blu nei miei occhi dalle medesime sfumature.

«Per caso riguarda il canile degli umani?».

Stava diventando intelligente, più velocemente di quanto mi aspettassi e non sapevo come andargli dietro, come tenere il passo.

La teoria dei calzini spaiatiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora