Quel pomeriggio portai Julian in ospedale, anche lui doveva salutarla, permettersi un ultimo addio prima che anche il cuore della mamma si fermasse, oltre alla mente. Avevo deciso che gli organi sarebbero stati donati e che in quel modo avrebbe ripagato per gli errori commessi in vita.
Era il gesto più altruista che potesse fare una volta lasciata la vita dietro le spalle.
Julian non comprese subito il motivo per cui l'avessi portato in ospedale, per un attimo pensò fosse per lui e mi chiese se dovessero rimettergli nella pancia il pezzetto che gli avevano tolto durante l'estate. Provai a sorridere, perché l'ingenuità di quel bambino era sempre un fascio di luce nella mia vita, ma in qualche modo la sua luminosità non mi raggiungeva, forse per la consapevolezza che di lì a pochi istanti sarei stato io a spegnerlo e a renderlo un po' più adulto.
Arrivammo in fondo al corridoio e lì, accanto alla porta chiusa della stanza, c'era Miguel. Non aveva lasciato il mio fianco, proprio come aveva promesso. Guardò Julian e si piegò sulle ginocchia per arrivare alla sua altezza.
«Cucciolo, come stai?».
Ringraziai mentalmente quel mio amico che aveva deciso di chiedere a mio fratello come stesse prima di venire a sapere della madre. Avevo bisogno di sapere che Julian stava bene e che, seppur avesse pianto, sarebbe tornato il solito bambino ingenuo e sorridente.
«Bene, voglio andare a casa a giocare con Chase e Adam. Mi hanno promesso un nuovo gioco», era vero, avevo avvertito i ragazzi della squadra che per quel giorno avrei saltato gli allenamenti. Avevo chiesto a Chris di non spargere troppo la voce, che non volevo ricevere occhiate di compassione, ma avrei dovuto immaginare che avrebbe riferito comunque al resto della squadra il motivo per cui mi trovassi in ospedale. Non lo biasimavo, erano così, si dicevano tutto, o quasi. Si erano preoccupati e avevo già perdonato Chris per essersi fatto sfuggire le condizioni di mia madre. I gemelli, dopo che avevano saputo tutto, mi avevano chiamato e si erano fatti passare Juju al telefono, mi ero raccomandato di non dire nulla perché Julian non sapeva ancora cosa fosse successo, ma loro si erano limitati a dirgli che lo aspettavano a casa, come ogni giorno, e che avevano un regalo per lui.
Avevano dato una sicurezza a Julian che non mi sarei mai aspettato. Perché quando il mondo ti crolla addosso, sapere che ci sarà qualcuno ad aspettarti a casa, che ti aiuterà a superare tutto il dolore, è l'unico modo per rimettersi in moto e riprendere la vita.
Julian, dopo aver salutato la madre, si sarebbe fatto riaccompagnare al campus dove avrebbe trovato i gemelli ad aspettarlo, come ogni altro giorno.
Miguel scompigliò i capelli a Julian e si rimise in piedi, guardandomi con un'espressione interrogativa sul volto.
Scossi la testa per fargli capire che ancora non c'era stata occasione di dirgli nulla e lui annuì, non mi rimproverò, non mi guardò con giudizio, annuì e fece un paio di passi di lato per darci un po' di privacy.
Mi chinai per prendere in braccio mio fratello, come al solito era leggero e sembrava incastrarsi perfettamente contro il mio fianco.
«Piccolo, devo dirti una cosa».
«Lo so».
«Lo sai?», aggrottai le sopracciglia.
«Hai la faccia di quando pensi troppo e gli occhi di quando sei triste. Pensi a qualcosa di triste?».
Annuii e lanciai un'occhiata verso la parete per permettere ai miei occhi di riassorbire il velo lucido che si era formato.
«Purtroppo la mamma... la mamma si è addormentata e lei... lei non si sveglierà più», non potevo parlargli dell'incidente, probabilmente avrebbe fatto domande vedendo i bendaggi, ma speravo di lasciargli ancora un po' di innocenza da bambino.
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La teoria dei calzini spaiati
General FictionSamuel Rivera è un ragazzo di appena diciotto anni; avrebbe potuto avere una vita come chiunque altro, se suo padre non fosse fuggito all'improvviso, portandosi via la sua infanzia, e se la madre, dopo aver partorito suo fratello Julian, non fosse c...