«Julian, dove sei? Non è divertente», non sopportavo quando si nascondeva, mi faceva sempre prendere dei colpi tremendi. Una volta, lui e il suo amichetto dell'asilo si erano nascosti sotto i sedili posteriori della macchina della madre dell'altro bambino, facendole prendere uno spavento tale da obbligarla a chiamarmi in preda al panico, urlando che aveva dimenticato chissà dove mio fratello e suo figlio. Solo sentendo le urla quei due scemi avevano ritirato su le teste, facendosi vedere oltre il finestrino. A quanto potei capire durante la spiegazione, la madre del bambino li aveva lasciati un attimo in macchina per andare al volo al supermercato a comprare la pasta e al ritorno non li aveva più trovati, convincendosi di averli dimenticati a scuola o da qualche altra parte.
Guardai la panca, come se Julian potesse apparire dal nulla lì dove lo avevo lasciato prima della doccia, e trovai un foglio scritto. Convinto che fosse un disegno abbandonato da Juju, lo presi e lo aprii. Mi pietrificai come una statua di sale, probabilmente mi sarebbe servita una secchiata d'acqua per sciogliermi.
Poi, la rabbia mi pervase. La sentii risalire nelle vene, raggiungere il cuore e venir rispedita attraverso tutto il corpo. Accartocciai il biglietto nella mano e con quello chiuso nel pugno scagliai un colpo contro la parete. Dovevo tornare lucido.
«CHRIS», urlai a pieni polmoni,
Si affacciò dalla doccia e mi guardò con espressione allarmata.
«Che succede, Samuel?».
«Che cazzo significa?».
Lanciai il biglietto contro la fronte di Chris, il quale non aveva alcuna colpa, lo sapevo, ma non avevo nessun altro su cui addossare tutta quella rabbia. Lui era il capitano, in qualche modo era responsabile di ciò che accadeva tra le varie squadre.
Aprì il foglietto dopo averlo raccolto da terra. C'era il disegno di un diamante e la firma riportava le iniziali di un'altra squadra di baseball.
«Dove l'hai trovato?».
«Sulla panca. Juju non c'è, è sparito».
«Cazzo, stavolta hanno esagerato, giuro che li ammazzo», mi voltai per vedere la rabbia dipinta sul volto di Drew. Non mi ero nemmeno accorto si fosse vestito e ci avesse raggiunto. Mi diede la schiena e si diresse verso l'uscita degli spogliatoi. Lo seguii con lo sguardo, per poi tornare a guardare Chris.
«Dove va?».
«Al campo di baseball, è lì che lo hanno portato».
Sembrava tutto così ovvio per loro, ma io continuavo a non capire cosa stesse succedendo. Il capitano si diresse dalla parte opposta rispetto a Drew, solo per chiamare gli altri ragazzi della squadra, dopo essersi vestiti, tutti insieme, come un vero branco, si diressero verso il campo. Li seguii sempre con quell'espressione da ebete sul volto.
Il campo era al buio, come era ovvio, le luci abbaglianti si accendevano solo durante le partite serali, come quella che avevamo appena giocato, ma che ormai era finita da quasi un'ora, o gli allenamenti che si prolungavano oltre la cena.
Ma li vidi, lì, nel mezzo del diamante, c'erano quei ragazzi per me insignificanti. Davanti loro si trovava Drew con le mani chiuse a pugno e la schiena rigida, solo una volta raggiunto notai che nel mezzo della squadra dell'Etesia c'era Juju.
Provai a raggiungere mio fratello, ma venni fermato dal loro capitano dell'altra squadra. Si piantò di fronte a me, con la mazza da baseball tesa che puntava contro il mio petto.
«Non così in fretta, signorino».
Sgranai gli occhi, assunsi l'espressione da pazzo, quella che avevo mostrato raramente in vita mia, perché mai perdevo la calma in quel modo; ma quello stronzo mi stava impedendo di raggiungere Julian, mio fratello che piangeva, con le guance rosse, il naso che sgocciolava e la paura negli occhi. Ero pronto a uccidere a mani nude.
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La teoria dei calzini spaiati
General FictionSamuel Rivera è un ragazzo di appena diciotto anni; avrebbe potuto avere una vita come chiunque altro, se suo padre non fosse fuggito all'improvviso, portandosi via la sua infanzia, e se la madre, dopo aver partorito suo fratello Julian, non fosse c...