Capitolo 39

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Non vedevo mio fratello da quanto? Settimane? Mesi? Non so, ho perso il conto dopo appena due giorni e il tempo trascorso senza di lui mi sembrò infinito e allo stesso tempo invivibile, come se fossi rimasto in apnea per tutto il tempo, come se Juju non fosse altro che la corrente del mio corpo. Portandomelo via mi avevano staccato la spina.

Arrivai in tribunale, non so come; quel giorno avevo talmente tanti pensieri per la testa che ora come ora mi sembra di aver perso dei lunghi minuti, come se avessi dei vuoti, come se avessi bevuto e mi fossi ubriacato. Arrivai in tribunale in un modo o nell'altro, qualcuno mi portò, così come qualcuno mi obbligò ad alzarmi quella mattina e a vestirmi decentemente. «Ricorda chi è l'unico al mondo che può crescere quel ragazzino», mi era stato detto, mentre qualcuno mi lanciava l'acqua sul viso per farmi svegliare.

In tribunale dovetti sedermi perché le ginocchia mi tremavano in modo incontrollabile e l'avvocato se ne accorse, perché mi posò una mano sul ginocchio e mi sibilò: «Non mostrarti nervoso, altrimenti ti mangiano vivo». Rassicurante, per nulla preoccupante come frase. Insomma, ebbe l'effetto opposto su di me, cominciarono a tremarmi le mani, che strinsi con forza davanti all'addome, fino a vedere le nocche sbiancare, chinai la testa e cominciai a scuoterla. Non respiravo e non avrei mai ricominciato a farlo se una mano non si fosse posata sulla mia schiena. Quel palmo caldo disegnò dei cerchi scavalcando le vertebre, soffermandosi sulle scapole e scendendo fino alle costole.

Guardai solo con l'angolo dell'occhio sinistro a chi apparteneva quella mano e trovai il viso concentrato di Drew. Mi stava osservando con quella sua espressione rassicurante e preoccupata allo stesso tempo. Mi sfiorò il collo scoperto e l'attaccatura dei capelli e riconobbi all'istante la pressione dei suoi polpastrelli sulla mia pelle.

«Stai pensando troppo, lo fai sempre».

«Forse non te ne sei accorto, ma oggi potrebbero portarmi via definitivamente Julian. Oggi potrei perdere ogni ragione di vita».

Lui sollevò solo una volta le sopracciglia scure e mi guardò con sufficienza. Sapevo che non se la sarebbe presa per quella mia affermazione, quel giorno avevo tutto il diritto di perdere la testa.

«E allora non permetterglielo, fai...».

«Cosa credi che stia facendo qui?», sibilai a denti stretti. Mi sarei voluto alzare e prenderlo per il collo, davvero.

«Credo che tu abbia interpretato male la tua presenza qui».

«Che?».

«Tu non sei qui per dimostrare a qualcuno che meriti di crescere Julian. Tu sei qui perché devi ricordare al mondo che sei suo fratello maggiore e non ti devi guadagnare nessun diritto, lui è tuo perché lo è sempre stato. Non devi dimostrare a nessun giudice, avvocato, padre fallito o famiglia affidataria nulla, hai dimostrato a te stesso di meritare questo ruolo di fratello maggiore la prima volta che lo hai rimesso in piedi dopo una caduta, quando gli hai pulito il gelato dal viso e da tutti i vestiti, quando gli hai insegnato a lanciare la palla, quando gli hai scambiato i denti da latte con dei soldi. Tu hai dimostrato a sufficienza quale fosse il tuo ruolo. Gli hai fatto scoprire le meraviglie della fantasia, gli sei corso dietro quando prendeva velocità e hai rallentato il passo quando ha avuto bisogno di più tempo per proseguire; lo hai preso per mano su strade tortuose e lo hai sollevato verso il cielo per fargli fare il suo primo canestro. Adesso dimmi, Samu, chi più di te potrebbe crescere quel bambino?».

Fu con quelle parole che mi alzai in piedi e mi schiarii la gola, ero pronto. Non dovevo dimostrare nulla, ero già il fratello maggiore che doveva crescere Julian, dovevo solo ricordare agli altri il motivo per cui lo fossi.

Quel supplizio durò davvero troppo. Raccontai di come Julian era stato abbandonato dal padre, di come la madre, una volta diventata incapace di crescerlo, lo avesse lasciato a me, l'unico al mondo a cui sembrava importare della vita di quel bambino. Raccontai le esperienze più belle e quelle più brutte, non giustificai le mie azioni, spiegai per filo e per segno come mai avessi agito in determinati modi. Perché lo avessi portato con me al college, perché gli avessi permesso di assistere agli allenamenti, come fosse avvenuto il rapimento da parte di altri giocatori, di come mi presentavo ai colloqui con le insegnanti, di quanto mi fossi impegnato per insegnargli il decoupage, nonostante ancora io stesso avessi difficoltà con quei pezzetti di carta colorata che mi si appiccicavano alle dita. Non tralasciai nulla. Ma il giudice, porca miseria quell'uomo sembrava non avere emozioni, sembrava davvero un robot, e io avevo sempre di più la sensazione di star facendo la figura di un patetico ragazzino che legge il tema davanti alla classe e si rende conto di aver interpretato male il titolo assegnato dalla maestra.

La teoria dei calzini spaiatiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora