Il carro coperto giunse a destinazione il 15 maggio del 1945. I bambini e i ragazzi che vi erano all'interno non sapevano cosa si sarebbero trovati dinanzi. Quando erano stati portati via con le loro famiglie, quegli stessi carri li avevano portati all'Inferno.
Quando il telo del carro fu alzato, i poverini notarono di essere giunti dinanzi a una questura. Di fronte a loro c'era un uomo che li invitò a scendere. Chiese che scendessero prima i più grandi, in modo tale che potessero aiutare i più piccoli.
Quando furono tutti a terra, si strinsero l'uno vicino all'altro. L'aria era fresca, e per la prima volta non si sentiva la puzza di fumo.
Una volta fuori, i ragazzi presero in braccio i bambini più piccoli, stanchi per il lungo viaggio, e seguirono l'uomo che aveva scoperto il carro: cercava di non darlo a vedere, ma zoppicava.
Uno dei ragazzi più grandi, curioso, chiese: «Come mai zoppicate?»
«Ferita di guerra» rispose secco l'uomo, continuando a camminare.
Il ragazzo si chiese se quell'uomo fosse stato un fascista. Il ché non avrebbe avuto senso: un fascista non li avrebbe aiutati in nessuna occasione. Ma in quale altro modo avrebbe potuto procurarsi quella ferita?
Entrati in questura, si ritrovarono a sfilare all'interno di un lungo corridoio. Dei ricordi poco piacevoli iniziarono a galleggiare nelle loro giovani menti.
Mentre camminavano, incontrarono tutti lo sguardo di una giovane ragazza, seduta su una panchina. Tutti credettero che fosse un angelo sceso in terra, visti il suo sorriso a trentadue denti e lo sguardo rassicurante.
Un bambino dagli occhi chiari catturò l'attenzione di quella giovane. Lo avvicinò cordialmente con un segno della mano. Il suo sorriso era contagioso. «Come ti chiami, tu?» chiese lei, fissando il bambino negli occhi azzurri, che aveva iniziato a sorriderle.
Un ragazzo alto, magro, spuntò al fianco del piccolo. Lo avvicinò con un braccio al suo corpo, quasi a volerlo proteggere. «Lui è muto» disse semplicemente.
«Sei sempre stato muto?» chiese curiosa.
Il bambino scosse il capo in segno di diniego.
«Non vuoi proprio dirmi come ti chiami?»
Di nuovo il capo si mosse in un "no".
Il ragazzo più alto si schermò dinanzi al piccolo. «Perché tante domande? Che cosa vuoi?» chiese scortese.
La ragazza, avendo capito il postaccio da dove arrivavano quei poveretti, si alzò dalla panchina e si fece avanti. Guardava il ragazzo con sicurezza. «Beh... Se non vuole dirlo a me, dovrà comunque dirlo all'uomo che compila il registro».
Il ragazzo la guardò allarmato. La giovane capì che qualcosa non andava: qualche altro ricordo doveva essere tornato alla memoria di quel giovane. Aveva saputo, attraverso le testimonianze di sopravvissuti adulti, che anche i nazisti scrivevano dei registri con i nomi e i numeri delle persone che sarebbero andate a morire.
La giovane lo rassicurò. «Non c'è nulla di pericoloso. Il nome e la vostra foto ci servono solo qualora qualche vostro parente venga a cercarvi».
Il bambino si liberò dalla presa del sedicenne che lo tratteneva, le si avvicinò di nuovo, con sicurezza. Le sorrise, guardandola negli occhi. «Allora? Me lo dici il tuo nome?» Ancora aveva ricevuto un "no" come risposta. Doveva aver perso totalmente la fiducia negli esseri umani, per essere caduto in quel grave mutismo selettivo.
Il sedicenne, al quale aveva dato rassicurazioni poco prima, le disse: «Lui si chiama Giovanni».
La giovane, con un enorme sorriso, gli porse una carezza, che lui però rifiutò, scansandosi al solo avvicinarsi della mano.
La ragazza si allontanò, lasciando i bambini nelle mani dei suoi collaboratori, per recarsi in bicicletta presso la tenuta nella quale avrebbero soggiornato.
Mise tutto a posto, posizionando alcuni dei nuovi letti all'interno di una stanza.
Una giovane suora, che aveva appena preso i voti, venne in suo aiuto. Le chiese quanti fossero i bambini. «Sono altri quindici. E spero che non siano gli ultimi».
Si soffermò molto sul battere i cuscini di piume, per farli risultare un po' più grossi e comodi per i piccoli.
Una volta finita la sua mansione, si recò all'interno del suo orticello, dove era solita coltivare rose. Quel maggio era divenuto particolarmente rigoglioso.
Spesso chiedeva ai bambini di darle una mano; altre volte, i bambini, di loro spontanea volontà, si adoperavano ad aiutarla.
Lisa, una piccina di cinque anni, le si avvicinò di soppiatto. «Boo» urlò, provocando un sobbalzo della "mamma della tenuta" - come amavano chiamarla lì. «Sei sempre più bella, mamma della tenuta».
«Anche tu, tesoro!» Si girò verso la piccina, allungando le braccia per avvicinarla a sé, e Lisa si fece stringere forte.
La piccola guardò le rose che stava piantando. «Come mai coltivi questi fiori?»
«Sai. Io ho sempre amato le rose» disse, passando l'innaffiatoio sul terreno per bagnarlo, una volta piantati i semi. «Sono il simbolo della rinascita, lo sbocciare di una nuova vita. Ma, in tutto questo, ricordano anche che la vita prima o poi finirà per tutti». Il suo sorriso per un attimo scomparve e il suo sguardo si rabbuiò. Notando lo sguardo preoccupato della piccola, riprese a sorridere, dicendo: «Preferisco, però, associarle al primo significato». La bambina, con un rinato sorriso, aspettava che continuasse. «Tu che ne pensi?»
«La rosa è simbolo della vita». I suoi occhi stupiti e spalancati fecero sorridere la ragazza, che la teneva stretta a sé. «Voglio aiutarti a coltivare rose».
«Sei più che benvenuta, Lisa».
La piccina, con tutto l'entusiasmo del mondo, prese una manciata di semi, e li metteva dove la "mamma della tenuta" scavava la terra.
Per quanto fosse strano, quella bambina era lì da pochi mesi, ma le sembrava di conoscerla da una vita. Si guardavano sempre con complicità, come se fossero capaci di comprendersi senza dire una parola.
Però, nonostante il tempo passato insieme, la bambina non aveva voluto dirle nulla su quello che aveva vissuto. E la "mamma della tenuta" non aveva mai cacciato fuori l'argomento, per non arrecarle dispiacere.
«Mamma della tenuta» - questo soprannome la faceva spontaneamente ridere - «a te che cosa è successo durante la guerra?»
Questa domanda non se la sarebbe mai aspettata. Tutti i ricordi degli anni passati vennero a galla, provocando gioia e al contempo fitte di dolore.
Da quando era alla tenuta, non aveva più pensato al passato. Solo una persona le era rimasta perennemente nella memoria.
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Ecco il Prologo del romanzo. È la prima volta che collaboriamo e siamo felici di poter condividere con voi il nostro lavoro. Vi piace? Lasciateci un breve feedback per farci sapere le vostre prime impressioni.
Lilingel
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Rosa e Crisantemo
Historical Fiction1945. Roma. Una giovane donna lavora all'interno di una organizzazione che si occupa di aiutare i bambini e i ragazzi sopravvissuti ai campi di sterminio. Attraverso le loro storie ricorda anche la sua storia di guerra, nel 1943, quando l'occupazion...