Lo Shabbat, in quella settimana, iniziò la sera del giorno dell'occupazione. Tutte le famiglie del ghetto si erano unite per "festeggiare" quella ricorrenza settimanale. Si festeggiava lo Shabbat per due motivi: il primo era per il ricordo della redenzione del popolo ebraico dalla schiavitù in Egitto; il secondo era il ricordo della Creazione dell'universo da parte di Dio: nel settimo giorno Dio terminò il proprio lavoro.
La famiglia Ferrara era una famiglia ortodossa, che praticava lo Shabbat ogni settimana. Il padre di famiglia diceva sempre: «Come ogni buon ebreo dovrebbe fare».
La moglie del signor Andrea Ferrara, Esther, era solita accendere le due candele previste per il Kiddush, la preghiera di benedizione, prima del tramonto, perché era vietato accendere un fuoco dopo.
La famiglia, spesso con qualche ospite, si riuniva intorno alla tavola della cucina per assistere alla benedizione del padre di famiglia. Il signor Ferrara prendeva il calice di vino per adempiere il suo compito.
Quel venerdì sera, la famiglia Ferrara si riunì per quella ricorrenza. Andrea Ferrara, con il calice di vino in mano, recitò le parole del Kiddush a memoria.
«Che Tu sia benedetto Adonai nostro Dio, Re dell'universo, creatore del frutto della vite.
Che Tu sia benedetto, Adonai nostro Dio, Re dell'Universo, che ci hai voluti e ci hai santificati con i precetti. Con amore e favore, hai reso santo lo Shabbat, il nostro retaggio in ricordo dell'opera della Creazione. Come primo tra i nostri santi giorni, ricorda l'Esodo dall'Egitto. Con amore e con favore ci hai dato il Tuo santo Shabbat in eredità. Che Tu sia benedetto, Adonai, che santifichi lo Shabbat.
Che Tu sia benedetto, Adonai nostro Dio, Re dell'Universo, che ci hai voluti e ci hai santificati con i precetti. Con amore e favore, hai reso santo lo Shabbat, il nostro retaggio in ricordo dell'opera della Creazione. Come primo tra i nostri santi giorni, ricorda l'Esodo dall'Egitto. Con amore e con favore ci hai dato il Tuo santo Shabbat in eredità. Che Tu sia benedetto, Adonai, che santifichi lo Shabbat».
Dopo il Kiddush, si lavò le mani, per procedere con la benedizione delle due challòt - i pani intrecciati - ricoperte da un telo. Dopodiché iniziarono a mangiare il pesce, che la madre aveva preparato in precedenza.
Dal momento in cui il sole tramontò, in famiglia non poterono fare diverse cose. Non poterono pensare al lavoro - era vietato anche solo pensare al guadagno materiale durante quel giorno sacro -, non potevano scrivere, cucire, cuocere nulla. La famiglia non poteva parlare di nulla che non avesse a che fare con lo Shabbat: dunque mai parlare di lavoro, neanche con i possibili ospiti.
Il più giovane della famiglia, Marco, uno scapestrato diciottenne, decise di uscire la mattina presto dello Shabbat. Si mise in tasca qualche santino e alcuni rosari che era solito vendere, essendo il suo lavoro: era la scusa perfetta per varcare i confini del ghetto.
Faceva l'urtista* da quando aveva otto anni. Vendeva quelle immagini ai turisti, per guadagnare qualcosa. Nella sua famiglia erano urtisti da generazioni.
Quando chiese, da piccolo, perché il loro lavoro si chiamasse così, ricevette questa risposta: «Perché, per vendere il santino, devi urtare il turista».
E quando chiese perché dovessero vendere proprio loro i santini, la risposta fu: «Perché i cristiani non vogliono lucrare sulle immagini sacre. Essendo noi "infedeli", secondo loro, siamo noi a dover fare questo lavoro».
Uscito di casa, si diresse verso la guardia che controllava la porta del ghetto più vicina a casa sua e chiese di uscire. Quando l'uomo gli chiese di mostrargli l'autorizzazione, cacciò il foglio su cui c'erano le informazioni necessarie per permettergli la sortita.
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Rosa e Crisantemo
Historical Fiction1945. Roma. Una giovane donna lavora all'interno di una organizzazione che si occupa di aiutare i bambini e i ragazzi sopravvissuti ai campi di sterminio. Attraverso le loro storie ricorda anche la sua storia di guerra, nel 1943, quando l'occupazion...