Venerdì 13 giugno 2003

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E così, gravida di tutti quei pensieri negativi, scivolai verso il weekend di Imola, e fu solo l'allegra frizzantezza di Valeria che mi permise di andarci con il sorriso stampato sulle labbra.

Confesso che nei giorni precedenti non mi feci trovare. Cercai di evitare al massimo i contatti con tutti perché sentivo che con tutti stavo indossando una maschera, e questo non mi piaceva. Sapevo anche che l'ultima volta che avevo provato a togliermela, era successo un casino.

Il concerto era il giorno di apertura dell'Heineken Jammin' Festival all'Autodromo di Imola, il 13 giugno. Era un festival dalle venature molto metal, ma era l'unico modo per vederli, perché l'unico altro concerto italiano di quel periodo era stato il giorno prima a Bassano del Grappa, in un palasport che conteneva la metà della metà delle persone di Imola.

A dire la verità, ci sentimmo molto due pesci fuor d'acqua, mentre la giornata si srotolava in una canicola assurda e sul palco si alternavano Karnea, Extrema, Turbonegro, Stone Sour e alla fine la band che aspettavamo.

Ma fu pure peggio, a quel punto. Sui Placebo, si concentrarono le ostilità della folla che, oramai traboccante, spazientita e cucinata dal sole, cominciò ad invocare i Metallica.

«Ma che fanno?» mi chiese Vale a un certo punto, vedendo volare cose sul palco.

Non potevo crederci. Era un bottigliamento, una cosa vergognosa a un concerto. Asserragliati sotto un vigliacco lancio di bottiglie e oggetti vari, Brian e gli altri resistettero lo stesso, portando faticosamente a termine la loro sofferta performance, sebbene un po' ritagliata.

Private dell'emozione di qualcosa che aspettavamo da tanti giorni, rimanemmo deluse e i Metallica manco li ascoltammo, andandocene prima. Stanchissime e puzzolenti, passammo il ponte sul Santerno per dirigerci verso la stazione ferroviaria.

«The bitter end» mormorai.

L'amaro finale. Mentre le camminavo di fianco, ero consapevole che forse, ancora più per lei che per me, quella giornata era stata molto diversa dalle aspettative.

«Aspetta, aspetta. Trasforma ciò che è verbo in sostantivo, e viceversa.»

Mi fermai, guardandola in maniera interrogativa nella penombra.

«"Bitter end" può essere tradotto spostando il significato della parola "Bitter" dal sostantivo "end" al processo che si conclude! Non è "la fine amara", ma il processo che si conclude è stato problematico, quindi la fine di questo percorso risulta come una liberazione, un sollievo!»

«Nel senso "bitter" soggetto e "end" verbo? Non so se ho capito molto bene, ma in quel caso dovrebbe essere "the bitter ends".»

«Oh» disse lei, poi si mise a ridere, «Madonna quanto sono idiota, madonna!»

E rise, rise, e mi abbracciò, con la sua maglietta sdrucita dei Placebo, che era la stessa che le avevo portato in dono dalla mia odissea di ritorno da Barcellona.

E mi misi a piangere, perché una non poteva passare la vita a tenersi tutto dentro. Per quanto mi ritenessi forte, per quanto, delle due, fossi quella sempre pronta a difendere l'altra, non potevo negare di essere in difficoltà, e quella giornata così probante, mischiata a quell'improvviso abbraccio, mi aveva letteralmente fatto aprire le cateratte.

«Ste, ma perchè piangi? Dai, lo so, non è andata come pensavamo, ma-»

«Vale, abbracciami e basta, non voglio dire nulla. Basta, abbracciami, basta.»

Mi accorsi un attimo in ritardo di averla chiamata con quel nome che tante volte aveva detto di non gradire. Dovevo chiamarla Rei, lo sapevo, ma mi era uscito "Vale" senza che nemmeno me ne rendessi conto. Ma lei sembrò non farci nemmeno caso.

«Ste, ti abbraccio, sì, ti abbraccio» dedicandomi un abbraccio che così, forse ce lo eravamo date solo prima di quel famoso guaio.

«Sucker love is heaven sent
You pucker up, our passion's spent
My heart's a tart, your body's rent
My body's broken, yours is bent» si mise a cantare

«Carve your name into my arm
Instead of stressed, I lie here charmed
Cause there's nothing else to do
Every me and every you.»

«Sucker love, a box I choose
No other box I choose to use
Another love I would abuse
No circumstances could excuse.»

«In the shape of things to come
Too much poison come undone
Cause there's nothing else to do
Every me and every you.»

«Every me and every you» recitammo assieme.

Fu lì che capii cosa stava succedendo, fu in quell'afosa serata di Imola. Mentre ci stringevamo in un abbraccio sudato e puzzolente, ma vero. Lontano dal nostro quotidiano, lontano dalle aspettative altrui, lontano ormai dalle stupidaggini adolescenziali, lontano dai colpi di testa fatti più per disperazione che per altro motivo.

Eravamo noi due, quelle che non potevano stare lontane, perchè era sempre stato così, e forse semplicemente io lo avevo capito prima di lei, o forse mi ero arresa prima di lei a non oppormi a quello che mi succedeva dentro. E quando fu lei a cercarmi le labbra e darmi il bacio più dolce dell'universo, semplicemente mi sciolsi, mi sentii sul punto di svenire, e veramente caddi in ginocchio.

«Ste, tutto bene?» si preoccupò lei, seguendomi in ginocchio su un selciato sporco e ancora caldo.

«Vale, io-» e piansi di nuovo.

E piansi mentre ci baciavamo, e piansi mentre mi abbracciava e finiva di cantarmi tutta "Every me every you" e nel frattempo mi rendevo conto che da quel momento in avanti sarebbe iniziata la parte più difficile: coltivare e preservare quel sentimento.

«All alone in space and timeThere's nothing here but what here's mineSomething borrowed, something blueEvery me and every youEvery me and every youEvery me...Every me and every youEvery me...Every me and every youEvery me...Every me and every youEvery me...Every me and every youEvery me...Every me and every youEvery me...»


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