𝓒𝓪𝓹𝓲𝓽𝓸𝓵𝓸 5 (1)

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𝙲𝚊𝚗𝚒 𝚍𝚊 𝚐𝚞𝚊𝚛𝚍𝚒𝚊.

ɪʀɪɴᴀ

Parte 1

30 maggio 1998
Audubon, New Orleans,
Louisiana, USA
Ore: 18:06

Zio Jo, al contrario di mio padre, amava le feste, amava il lusso e amava sfoggiare la sua ricchezza.

Ogni scusa per lui era buona per spendere i suoi guadagni e aprire i cancelli della sua nuova villetta a Audubon per accogliere tutti i ricchi della città.

A quella gente poco importava i mezzi con cui il vecchio o, in generale, la mia famiglia si era procurata i soldi per permettersi di far parte di quel ceto. A quel tipo di feste era quasi una consuetudine non farsi domande e accettare l'ospitalità del padrone di casa.

Quella sera zio Jo aveva concluso un affare. Un affare che dubitavo fosse stato in accordo con papà perché più volte durante quella serata li avevo visti discutere.

Come ormai spesso accadeva, la mia presenza veniva notata e allo stesso tempo ignorata e starmene in disparte ad osservare le persone mi era quasi una costrizione. Forse a nove anni avrei scelto di starmene a casa ma papà non era dello stesso parere. Dove andava a lui esigeva che ci fossi anche io.

Quella sera tuttavia mi ero annoiata al punto che avevo lasciato il posto sicuro accanto alla porta sul retro della casa e, avendo avvistato Otto assieme a suo fratello e ad altri ragazzi, passai tra la folla per raggiungerli. Avrei chiesto a mio cugino di andare in cucina e rubare delle fette di Bejgli. Era il mio dolce preferito e alle feste di famiglia era l'unica cosa che riusciva a svegliare il mio spirito da bambina e a rendermi felice.

Tra sguardi di troppo, che avevo ormai imparato a ignorare, avevo quasi raggiunto il gruppetto, tuttavia all'ennesimo passo per avvicinarmi, una forte spinta alle spalle fece balzare il mio corpo in avanti. Presa alla sprovvista inciampai sui miei stessi piedi e finii stesa a terra, sulla ghiaia con i palmi delle mani esposte alle scaglie in tempo per non sbatterci la testa. Sentii i sassolini perforarmi dolorosamente le ginocchia e la leggera musica che suonava, passando tra gli alberi secolari del giardino, coprì un mio immediato lamento.

Mi ero tirata su più svelta di quanto ero caduta. Badando poco ai miei palmi graffiati e alle ginocchia sbucciate, avevo subito cercato la persona che mi aveva spinta.

Incontrai gli occhi di Igor dietro le mie spalle. Occhi che non si riempirono di divertimento ma scesero in basso sulle mie gambe, diventando lentamente due punti strabuzzati.

Gettai lo sguardo nello stesso punto, trovando il mio ginocchio sinistro più insanguinato di quello destro. La mia vista si offuscò ma non fu il dolore e lo stato di quella ferita a farmi crollare. Furono le risate del gruppetto di mio cugino a farmi diventare piccola, a farmi sentire umiliata. Mio fratello non disse niente. Sembrava paralizzato alla vista del sangue. Probabilmente non mi aveva spinta con l'intenzione di farmi cadere e causarmi quelle ferite.

Non ebbi modo di chiedergli perché l'avesse fatto, anzi non ebbi modo nemmeno di piangere. Una mano ferrea agguantò il mio braccio, stringendolo quasi a farmi male e mi trascinò di forza verso casa.

Era zio Jo.

Non mi lamentai del dolore né tanto meno del suo passo svelto con cui mi costrinse a seguirlo. In quel momento, in quel attimo di confusione, dovetti ancora comprendere che cosa era successo.

«Cosa credi di fare?» mi chiese lo zio per poco alzando la voce, una volta che mi aveva trascinata in salotto.

«Io-»

Devotion 3 // Omertà E Onore //Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora