Capitolo 38

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Il tempo non passa. Il tram sembra muoversi fluttuando in uno strano spazio che sarebbe comparso proprio ora a Milano e proprio sulla mia strada. Come se la clinica dove sono diretta fosse proprio in questo spazio. Un pianeta a sé stante.
Sento che sto fluttuando anche io.
In uno spazio bianco invece che nero. Senza stelle. Di luce ne fa già abbastanza il colore, come un pugno in un occhio, bianco.
Mi ricorda le luci al neon della mia scuola media, quelle giù, negli spogliatoi della palestra, dove i miei compagni non si trattenevano mai da farmi passare l'inferno. Mi stavano addosso per urlarmi in faccia le peggio cose, oppure mi ignoravano.
Mi ricorda i fogli delle mie verifiche di matematica, sempre in bianco.
Mi ricorda le tele quando non riesco a trovare l'energia di dipingere.
Pare che la rabbia sia passata. Sarà stato il bianco a risucchiare tutto, come un buco nero.
Non ho voglia di bere.
Non ho voglia di ubriacarmi.
Non ho voglia di spaccare il cranio a nessuno.
Semplicemente la rabbia che prima c'era ora non c'è.
È finita la rampa di scalini.
Mi sembra anche strana come frase, “spaccare il cranio” perché dovrei farlo? Penso che in fondo nessuno della mia vita lo meriti. Se fossi finita sulle rotaie non sarebbe stata colpa di nessuno, ma solo una decisione mia.
E se in questo bianco potessi scrivere un nuovo capitolo?
Forse.
Sembra un enorme tasto pausa. Utilissimo.
Per ubriacarmi e aspettare che mi finisca il mal di testa. Per non dover leggere i messaggi offensivi di Pietro tutte le sere. Per godermi il pomeriggio con Beatrice. Per restare per quanto voglia io a cena con i miei genitori in pizzeria, come quando ero piccola. Per dipingere centinaia di quadri e allestire una mostra con i miei quattro soldi. Per guardare tutti i film che non ho ancora visto. Per dormire. Per fissare le nuvole immobili nel cielo sdraiata sul prato. Per non fare niente.
Non sarebbe male non fare niente, per una volta, ma c'erano sempre gli esami, i quadri da finire per non sentirmi una fallita.
Oppure i messaggi insistenti di Pietro o le ore che passavamo a fare l'amore una volta dietro l'altra o ancora le nostre lunghe uscite che duravano dalle sette del mattino, quando avevamo appuntamento in stazione, fino alle due di notte, quando finivano sfiniti dal sesso a pancia in giù sul letto.
Come stavo bene dopo tutto quel camminare per i vicoli del centro, quei discorsi lunghissimi del più e del meno, quel sesso che non finiva mai.
Sì, stavo davvero bene con Pietro, in quei lenti fine settimana.
“Mi tengo le giornate libere per te.”
Però c'erano pur sempre le pennellate da rifinire, gli schemi da ripassare e questo lui non lo accettava, allora perdeva le staffe.
Ci vediamo tra due settimane. Grazie tante.
Però l'hai fatto.
Vattene affanculo.

Dio mio, perché sto ancora pensando a lui?

Voglio una bottiglia di bianco.
Non vino bianco, il colore bianco, il bianco di questo spazio o pianeta solitario nel bel mezzo di Milano dove sono capitata.
Voglio scolarmi ogni grumo di tinta e ricominciare daccapo.
Voglio essere io la pittrice del quadro della mia vita.
E ci riuscirò.

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