Capitolo 40

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Oh no, oh no, oh no.
L'errore impresso sulla tela bianca del test di gravidanza. L'errore più grosso della mia vita.

Mi sento nuda. I miei organi sono esposti in questo sedile dei mezzi pubblici. Il cuore pompa sangue. I neuroni mandano scariche elettriche. Il mio utero è pieno, sento le cellule di Ofelia moltiplicarsi dentro di me. Il mio fegato marcisce e annerisce sotto il peso dell'alcol. Ho finito un'altra bottiglia di vodka in meno di due giorni. Che schifo.

Potrò essere una buona madre? Oppure potrò ricominciare la mia vita da zero dopo l'intervento?

Ho sbagliato, ma se ci fosse la possibilità di rimediare, di imparare, di essere una persona migliore?

Buttare via quelle maledette bottiglie. Inforcare i pennelli. Rileggere e studiare per bene gli schemi.

Posso farlo?

Per tutta la mia vita mi hanno detto che se commetti un errore, sei stupido. Ha iniziato la maestra alle elementari, quando l'ora dei lavoretti era un incubo perché secondo lei non incollavo bene i ritagli di cartoncino, perché anche quando mi ero rassegnata a fare il minimo indispensabile per non sbagliare ai suoi occhi, aveva comunque da ridire. Come quando scelsi la luna di gesso da colorare invece della Madonnina. Ti senti pasticciona? Mi aveva detto. Io non rispondevo. Lei sbuffò seccata e mi diede la luna. Ma anche così, per lei, avevo sbagliato. La dipinsi di blu con le labbra rosse, perché volevo fare qualcosa di diverso dai miei compagni che l'avevano semplicemente dipinta di giallo. La maestra sollevò il mio lavoretto con disprezzo, me lo ricordo ancora, e mi guardò disgustata. Blu?! Disse.

Oppure quando iniziai la scuola media. La professoressa di matematica che non mancava di darti dello scemo davanti a tutti se sbagliavi. Non si poteva sbagliare nemmeno i compiti. Mi abbassò la media sul registro per un risultato sbagliato su un compito a casa.

Per non parlare delle superiori. Ho fatto solo un anno di liceo classico prima di cambiare indirizzo. Al liceo artistico passavo almeno sei ore al giorno a studiare e a finire le tavole. Ma non era mai abbastanza. Arrancavo al sei. Ogni giorno avevo almeno una consegna delle tavole e una verifica o interrogazione. Per tutta la scuola, da elementari a superiori, mi tagliavo. La notte avevo gli incubi. Vomitavo. Non avevo mai fame. Ogni anno, puntualmente, mi toccava un esame a settembre e allora oltre ai continui rimproveri dei professori a scuola si aggiungeva quello di mia madre a casa che non sapeva far altro se non farmi notare i miei errori, in qualsiasi situazione, soprattutto a scuola. Meno male che ora non le parlo più.

Insomma, quello che vorrei è staccarmi da tutto questo una buona volta. Afferrare al volo questa opportunità per essere una Anna migliore. E credo di poterlo fare.

Credo di stare avendo un picco di felicità, e sentirsi su di morale in un periodo in cui si sta male è un tipo di felicità fortissimo. Sento di nuovo la mia pelle nuda aperta sul davanti e i miei organi esposti. Sento la vita che pulsa. Fuori splende ancora il sole anche se le cime degli alberi si stanno piegando ad un nuovo vento. Le sento di nuovo, le parti di me: la me bambina, la me giudicante, la me ansiosa, la me evitante. Sono sedute a fianco a me e indicano il mio tatuaggio. Sono davvero sua? Forse non lo sono mai stata. Perché io appartengo solo a me stessa. Non vedo più l'ombra che ha cercato di buttarmi sulle rotaie, consapevole che anche quella sia una parte di me. Allora io la invito ad uscire, a farsi vedere: anche lei è la benvenuta ad accomodarsi accanto a me.
So che tutte loro vogliono mandarmi un messaggio. Tutte loro meritano di essere ascoltate. Le guardo una ad una e sorrido a ciascuna di loro. Mi vogliono salvare. A modo loro, ma mi vogliono salvare, proteggere. Ed è arrivato il momento che io mi protegga da sola, mediando da adulta i loro bisogni. Basta annegare nell’alcol. Basta aprire squarci sulla mia pelle.

Non sono pazza non sono stupida non sono mai stata stupida ho solo fatto scelte sbagliate ma basta un passo avanti un passo un solo passo una decisione presa un domani inizio e iniziare davvero domani sono già riuscita a bloccare Beatrice e Pietro è già qualcosa è già un domani posso fare e domani farò senza di loro finalmente senza i giudizi i pesi sul cuore senza le parole non dette per paura e dopo che avrò sistemato questa questione inizierò così una bottiglia in meno al giorno e sarà solo l'inizio potrò mangiare un boccone in più e non sembrare più uno scheletro potrò ricordare davvero la pillola ogni giorno perché finalmente potrò fare l'amore non solo sesso ma anche amore con qualcuno che mi rispetta non dovrò camminare a testa bassa e controllare come sono vestita a ogni vetrina che passa e pesare le parole prima di dirle e sentire questo forte irrefrenabile desiderio di scappare di concludere la conversazione di nascondermi di buttarmi sul letto di dormire di scolarmi una Beck’s o due di prendere in mano la lametta o strappare i miei disegni per la vergogna o piangere per i messaggi notturni di Pietro o arrabbiarmi per l'assenza di Beatrice potrò esprimermi comunicare senza la puzza di fallimento addosso e allora se sbaglierò non sarò stupida sarò solo umana e allora potrò essere me stessa dipingere ciò che mi pare anche la luna blu con le labbra rosse.

Guardo i miei vestiti. La mia pelle sembra essersi richiusa e gli organi sembra si siano messi al sicuro dentro di me. Anche Ofelia.
Indosso un paio di jeans strappati all'altezza della vita, dietro, sulla schiena, proprio sotto la maglietta azzurra a fiori. Ai piedi ho i miei fidati anfibi, ormai vecchi, che mi rifiuto di cambiare, ostinandomi a spendere i miei risparmi in bottiglie di vodka invece che in scarpe nuove.
Beatrice si veste sempre coordinando con attenzione i vari capi. A volte mi chiedo come faccia. Nonostante tutto, vorrei imparare a vestirmi come lei.
Invece Pietro è come me: sceglie le prime due cose comode che trova nell'armadio.
Avrei voluto indossare il mio vestito preferito, quello che ho dipinto con le mie stesse mani, con calibrati schizzi di colore, il vestito che annuncia è arrivata l'estate ma è ancora presto, e fa ancora troppo freddo.
Fausto e Antonella, invece, si vestono sempre come se fossero al lavoro. Una cravatta, un velo di trucco, le scarpe eleganti. Credo di non averli mai visti in tuta. Ovviamente, hanno cercato di passarmi questa attenzione per il vestiario. Da qui il vestitino verde che avevo indosso a quattro anni in quella foto, a Carnevale, il vestito che i passanti volevano fotografare. Ma invano. A me sono sempre piaciuti gli sprazzi ribelli di colore. Ho imparato presto e da sola a dipingere, disegnare sulle mie magliette bianche o nere. Un altro motivo per cui venni bullizzata alle medie.

Ed è adesso che mi ricordo. Sono vestita di blu e ho le labbra rosse.

È arrivata la mia fermata.

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