Capitolo 4

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Cambio di prospettiva:

Era febbraio inoltrato, e dopo Napoli avevo deciso che l'unica via d'uscita fosse quella di starmene per conto mio.
Avrei aspettato che l'anno scolastico si trascinasse alla fine, evitandomi così qualsiasi contatto con chiunque.
Mi sentivo esausto, svuotato dalle solite facce, dalle stesse conversazioni, e questa volta ci credevo davvero: non volevo più avere a che fare con nessuno.
Eppure, nonostante i miei propositi, l'ultima discussione con Agnese continuava a tormentarmi.
Era passata una settimana dal nostro ultimo incontro, e lei sembrava essere sparita nel nulla.
Non l'avevo vista a scuola, e la voce che girava era che non si fosse sentita bene.
Avrei voluto chiedere in giro, capire cosa fosse successo, ma non avevo mai avuto un gran rapporto con la classe, e chissà come avrebbero reagito se avessi mostrato interesse proprio ora.
Decisi di concentrarmi sul secondo quadrimestre.
La settimana bianca si avvicinava, e mi sembrava l'occasione perfetta per staccare la spina.
Mi ripetevo che quella vacanza sarebbe stata un antidoto a tutti i miei mali, un'occasione per rimettere insieme i pezzi di me stesso.

Matteo e io partimmo una domenica mattina, presto.
La stazione sciistica non era troppo lontana, ma abbastanza per farci sentire come se fossimo fuggiti in un altro mondo, lontano dalla scuola, dai problemi.
La neve cadeva fitta e silenziosa quando arrivammo, avvolgendo ogni cosa in un manto bianco, soffice e immacolato.

Era come se la natura volesse offrirci una sorta di purificazione, cancellando le tracce del passato e preparandoci a qualcosa di nuovo.
La prima giornata la passammo a prendere confidenza con le piste.
Matteo, con la sua energia incontenibile, si lanciò subito giù per la discesa più ripida, ridendo come un matto ogni volta che sbandava e finiva a terra.
Io lo seguivo a distanza, cercando di non pensare a niente se non alla sensazione degli sci che scivolavano sulla neve compatta.
Ci furono momenti di pura euforia, quando riuscivo a prendere velocità senza perdere il controllo, il vento freddo che mi tagliava il viso e l'adrenalina che mi faceva dimenticare tutto il resto.
Una sera, dopo una lunga giornata passata a sciare, ci fermammo in un rifugio di legno, al caldo di un camino scoppiettante.
Matteo raccontava storie assurde e improbabili su vecchie avventure, cercando di farmi ridere.
Parlavamo di tutto, dalle ragazze ai sogni per il futuro, ma mai di Lei o di Agnese.
Era come se avessimo stabilito tacitamente che quel nome, quel pensiero, non doveva inquinare il nostro breve momento di libertà.

Il giorno dopo, decidemmo di avventurarci su una pista nera, la più difficile.
Matteo era convinto di potercela fare, e la sua sicurezza era contagiosa.
Gli dissi che era una pessima idea, ma non avevo intenzione di tirarmi indietro.
Ci fermammo un attimo in cima alla discesa, guardando giù verso il fondovalle che si perdeva tra le nuvole basse.
La pista era quasi deserta, solo qualche sciatore coraggioso si avventurava su quella discesa.

"Pronto?" mi chiese Matteo, con un sorriso che oscillava tra l'entusiasmo e la follia.

Annuii, e senza pensarci troppo ci lanciammo giù.
L'inclinazione era spaventosa, e sentii immediatamente l'adrenalina pompare nel sangue.
Ogni movimento doveva essere preciso, calcolato, per non rischiare di finire rovinosamente fuori pista.
Ma fu proprio in quel caos controllato, in quella corsa che richiedeva tutta la mia attenzione, che mi resi conto di quanto ne avessi bisogno.
Di quanto avessi bisogno di smettere di pensare, almeno per qualche istante, di concentrarmi solo sul momento presente.
Quando finalmente ci fermammo in fondo alla pista, entrambi col fiato corto e con i cuori che battevano all'impazzata, Matteo scoppiò a ridere.
Una risata sincera, liberatoria, che riuscì a coinvolgermi.
Non importava se avessimo rischiato, se avessimo fatto una follia: per quel breve momento, ero riuscito a lasciarmi tutto alle spalle.

La settimana bianca stava ormai volgendo al termine, e con essa quella parentesi di leggerezza che mi aveva permesso di dimenticare, almeno per un po', il caos della mia vita.
La stanchezza accumulata durante le giornate trascorse a sciare rendeva l'atmosfera nella stanza d'albergo piacevolmente ovattata.
Matteo, sdraiato sul letto accanto al mio, commentava a bassa voce gli episodi più divertenti della settimana, ma io, pur sorridendo, sentivo che la mia mente iniziava a vagare altrove.
C'era una certa malinconia che mi stringeva il petto.
Lì, tra quelle montagne innevate, avevo trovato una sorta di pace momentanea, un'illusione di serenità che sapevo bene sarebbe svanita al nostro ritorno.
Non era solo la questione con Agnese a tormentarmi, anche se ogni tanto il suo sguardo deluso tornava a galla nei miei pensieri.

Il problema vero era che non riuscivo a capire cosa stesse davvero accadendo.
Cosa stava facendo Agnese?
Cosa nascondeva dietro quelle lacrime e quel tono di voce così diverso?
E perché aveva avuto il mio diario con sé?
Ogni volta che ci pensavo, le risposte sembravano sfuggirmi, come se fossero avvolte da una nebbia troppo fitta per essere dissipata.
Il dubbio si insinuava tra i miei pensieri, amplificando la sensazione di non avere il controllo su nulla.
Forse mi ero illuso, avevo creduto che le cose potessero essere diverse, ma ora, lontano da quel contesto, le domande rimaste in sospeso si facevano più pressanti.

"Domani si torna a casa," disse Matteo, come se volesse rompere il silenzio che si era creato.
Annuii distrattamente, cercando di scacciare via quel senso di smarrimento.
Non volevo pensare al ritorno, alla fine di quella parentesi che ci aveva tenuti lontani da tutto.
Quella notte, mentre cercavo di addormentarmi, il buio della stanza sembrava amplificare i miei pensieri.
Sapevo che al ritorno mi aspettava tutto quello da cui ero fuggito.
Agnese era solo una parte del problema, ma simbolizzava quella sensazione di non riuscire a gestire le relazioni e le situazioni che mi trovavo ad affrontare.
Sentivo il peso delle decisioni non prese, delle parole non dette, e della paura di non essere all'altezza.
E poi quel diario, cos'aveva significato davvero?
E lei, cos'aveva voluto comunicarmi in quel momento, quando aveva deciso di restituirmelo?

Il viaggio di ritorno fu un misto di stanchezza e silenzio.
Fuori dal finestrino, le montagne imbiancate lasciavano spazio alla monotonia del paesaggio urbano, segno che la realtà era lì, pronta a riprendersi il suo posto.
I miei amici parlavano a intermittenza, troppo stanchi per conversazioni lunghe, e io ero grato per quel silenzio.
Mi dava tempo per prepararmi mentalmente al ritorno, anche se sapevo che non sarei mai stato pronto davvero.
A casa, la routine mi accolse con la sua solita familiarità, ma dentro di me sapevo che qualcosa doveva cambiare.
Non potevo più ignorare quello che provavo, quel misto di inquietudine e incertezza che sembrava crescere ogni giorno di più.
Dovevo affrontarlo, capire cosa fare, come muovermi in quel periodo della mia vita che sembrava sempre più complicato.
E dovevo affrontare anche quei dubbi, quei silenzi che Agnese aveva lasciato dietro di sé.
Ma soprattutto, dovevo trovare un modo per fare pace con me stesso, con quello che provavo e con il fatto che, forse, non avrei mai avuto tutte le risposte che cercavo.

La Dura Legge di LeiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora