Canzone : light a fire - Alice Martinez cover
9. Indietro.
Il tempo trascorso lontana da New York non è mai troppo. Passare nella mia caotica città natale, pensando che poco prima potevo sentire l'ondeggiare del mare, vedere gli squarci di spiaggia tra gli alberi e gente che sbicicletta tra un incrocio stadale e l'altro, sembrava come attraversare in un taxi giallo le fiamme dell'inferno. La odiavo, non c'era proprio niente da fare. Mahnattan e l'Upper East Side non esercitavano più alcun fascino su di me. La pioggia scorreva sul mio finestrino rapidamente; uh, adesso quasi rimpiangevo la sauna che era invece la Florida. Attraverso di esso, passanti alla ricerca di qualcosa brulicavano per i marciapiedi in giacca e cravatta o in abiti griffati principalmente Chanel e Ferragamo. I ricchi di New York si trovavano qui; nel mio amato quartire gremito di attici dal valore di milioni di dollari.
«Ci lasci pure qui.» La voce sempre cristallina di Jessica interruppe lo scorrere dei miei pensieri. Sgranai gli occhi, rendendomi conto che quel triste cancello nero che dava ad una palazzina color sabbia, non più alta di sei o sette metri e preceduta da un piccolo cortile recintato da una siepe, era proprio casa mia. I diversi fiori che coloravano la zona antecedente alla porta, raggiungibile mediante due rampe di scale in marmo bianco che si coingiungevano in un piccolo pianerottolo, erano spariti. Il balconcino della mia stanza al secondo piano che dava sulla strada, era spoglio di qualsiasi pianta e neanche l'odore era quello che ricordavo. Se il ricordo della mia vecchia dimora era assolutamente pessimo prima, adesso mi si annodava lo stomaco sapendo che ci viveva mio padre da solo con una vecchia donna delle pulizie che probabilmente si sorbiva tutte le sue sbronze. Mi si accapponò la pelle di brividi. Jessica tirò fuori una banconota dal suo portafoglio e non pretendendo il resto dal tassista, scese. Mi ci volle qualche secondo in più, poi afferrai la maniglia e sbattei lo sportelletto. L'uomo anziano di poche parole che ci aveva scarrozzato a casa mi diede una mano a tirar giù i bagagli dal cofano e li trascinò fino al cancelletto di casa.
Jessica premette il campanello. Din don. Un attimo dopo il cancello si aprì e trascinai le valigie lungo quel cortile spento, coperto da uno strato di foglie rinsecchite e dai colori autunnali. La porta di casa si aprì e il volto corrugato di Vera si affacciò sospettosamente. «Signorina Alexis, signorina Jessica. Prego.» Ci fece strada in casa nostra; c'era odore delle solite spezie e del profumante per pavimenti alle calle e gigli che Vera utilizzava da quando ero nata. «Che piacere rivederla, signorina Alexis», disse con voce arrocchita, facendo uno di quei suoi striminziti sorrisi. «È un piacere anche per me, Vera.» La mie parole probabilmente furono tradite dalla mia espressione. Non feci in tempo a chiedermi dove fosse mio padre che Jessica disse: «Papà arriverà tra poco. Intanto accomodati.» Ma sì, ci faceva arrivare qui così presto e lui neanche c'era. «Dov'è?» dissi in un soffio. Jessica mi esortò ad andare nella mia camera e aspettare senza dilungarsi troppo nel dare risposte.
Mi andai a gettare sul piumone rosa dal sentore di lavanda del mio letto che si trovava proprio sotto la finestra. Se avessi passato il dito sullo scaffale al mio fianco non ci avrei trovato neanche mezzo millimetro di polvere; tutto era assolutamente invariato. Le mie medaglie e qualche trofeo erano custoditi proprio di fronte a me, accanto al televisore al plasma più grande della casa. Accesi la mia abat-jour di raso e piume e tirai fuori il diario dalla borsa, per fare qualche scarabocchio e scrivere le mie solite lamentele.
"Sei arrivata?" mi aveva scritto Julie. Non mi pareva vero fosse sveglia a quest'ora. "Sì, grazie." "Gà mi manchi." Non che ci credessi molto, ma mi fece comunque molto piacere. "Anche tu." Mi accorsi che il pisolino in aereo non mi era per niente bastato, avevo ancora strettamente bisogno di chiudere gli occhi e dormire per almeno un altro paio d'ore. Le mie palpebre poco dopo si chiusero autonomamente e le riaprii solo quando un colpo fece scuotere la porta della mia camera. Mi strofinai gli occhi coi pugni e mugolai uno stanco: «Avanti.» Misi le gambe giù dal letto. Mi aspettavo di vedere qualcun altro, non mio fratello. Sgranai gli occhi. Ero felice, molto. Un sorriso a trentadue denti gli si accese sul viso. «Lex!» Scattai in piedi e corsi. Gli gettai le braccia al collo, imergendo il volto tra i suoi capelli ribelli del mio stesso colore variabile a seconda delle stagioni. Jonas mi sollevò da terra e rise. «La mia sorellina preferita è qui, non posso crederci.» Jonas era l'unico dei miei fratelli con cui avessi veramente un rapporto. Era l'unico con cui ridevo, l'unico con cui parlavo sinceramente e l'unico che conosceva ogni singola cosa di me. Il che era strano dal momento che avevamo cinque anni di differenza e lui era un maschio. Non c'era un solo giorno sotto questo tetto in cui Jonas non si fosse preso cura di me. «Non sapevo venissi oggi.» «Mi stupisce che Jessica non te l'abbia detto, è così sveglia nostra sorella», disse ironicamente, spettinandomi i capelli con un'affettuosa carezza. Risi. «Dov'è papà?» «Di sotto. Eravamo andati a fare una spesa, ci teneva che trovassi dei pancake al tuo rientro ma abbiamo fatto un po' tardi.» La mia lunaticità eclatante colpì ancora perché dalla persona più giù di morale del mondo in un sol secondo volevo saltare, o correre, o abbracciare così forte qualcuno da stritolarlo come un'insaccato. «Davvero?» Quel genere di cose, papà non le faceva spesso. Mi convinsi che essere qui era la cosa migliore che mi potesse capitare. Sarei stata con mio padre, finalmente. Avrei trascorso del tempo con lui, chi se ne importava di tutto il resto. Arrivai rapidamente in cima alle scale, ai piedi di esse mio padre teneva tra le mani due grandi buste di spesa. «Papà?» «Ehilà, è proprio la piccola di casa quella lassù?» Un sorriso simile a quello di Jonas gli schizzò sulle labbra e lievi rughe si formarono attorno ai suoi occhi chiari. Aveva tagliato i capelli brizzolati ai lati della testa, ma per il resto era identico all'ultima volta in cui l'avevo visto. Per cui mi dissi che sicuramente non stava poi così male, che potevo stare tranquilla. Una persona gravemente malata non sorride così, giusto? Corsi giù. Ricordo di quanto volessi aprire le braccia e lasciare che le sue mi avvolgessero, ma ancora più vividamente ricordo di quel muro tra noi che me lo impedì. Così sembrò quasi che il mio entusiasmo si spense, ma non era affatto così. Avrei tanto voluto abbracciare mio padre, ma non lo facevamo spesso e avevo paura. Non seppi di cosa, ma avevo paura. «Papà», riuscii a dire in un sospiro profondo. Lui gonfiò il petto d'aria e mi avvicinò a sé, stringendomi in un forte abbraccio. Ero così felice che avrei anche potuto piangere adesso, ma mi costrinsi a cacciare le lacrime indietro, sbattendo le palpebre e sperando che l'acqua non traboccasse. «Mi sembra una vita che non ti vedo, guarda quanto sei abbronzata. E questi capelli? Così biondi...» Quando l'abbraccio si interruppe, mi afferrò le spalle per guardarmi per bene. «Il sole, in Florida c'è tanto di quel sole.»
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Amami nonostante tutto
RomanceUn college con un buon programma in medicina sembra un'ottima occasione per Alexis. Qui alla Kingstom University della Florida è lontana dagli orrori che riviveva ogni giorno nel suo vecchio appartamento dell'Upper East Side. Un fondo fiduciario da...