35. Let Her Go

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35. Ultimo capitolo. Sequel- Amami nonostante tutto 2.

«Non mi piace l'estate... Perché non può essere inverno per sempre?», mi lamentai, mentre quella brezza sollevava l'odore di pioggia, che si insinuava dalla finestra. Era una mattinata fresca, quasi fredda. Mi stavo godendo gli ultimi temporali della stagione, avvinghiata al suo corpo caldo. Strofinai la guancia sul suo petto, raggomitolandomi tra le coperte soffici in quel divanetto in mezzo al salotto di casa. C'era anche un ottimo odore di cacao che proveniva dalla cucina. Julie e Simon erano tornati insieme da qualche giorno, ed io non potevo essere più felice in quel momento. Preparavano la cioccolata calda, solo ed esclusivamente per me, e per fare qualcosa insieme. Chiusi gli occhi e appoggiai la guancia sul suo petto. «Ho sonno e freddo», bofonchiai. Strofinò le dita sulla pelle d'oca del mio braccio. «Perché sei così calda? Non lo sei mai», disse prima di baciarmi la fronte. «Sto bene», sospirai. «Sicura? Scotti», constatò. «Mi rifiuto di credere che sono così sfortunata... Ma in caso non vorrei attaccarti nien..», mi interruppe baciandomi. «Preferisco prendere la febbre piuttosto che starti lontano anche solo per un'ora.» «Sei veramente pazzo», risi e lo baciai. «Sono pazzamente innamorato di te.» Sentii una specie di bollore nel petto, che si propagò su tutto il corpo aumentando il batticuore. Baciai le sue labbra con prepotenza, afferrandogli la maglietta in due pugni. «Ti amo», dissi, spostando le labbra al suo collo e stampandone poi altri sulle guance, sulle labbra. Dappertutto. Un arcobaleno nasceva nell'aria al di fuori della finestra, per culminare in quello spiraglio di luce, formato da qualche riflesso di qualche insegna in mezzo alla strada. «Non voglio ritornare», brontolai. «Ci verremo di nuovo», rispose lui. «Ma non mi sono nemmeno tuffata.» Mi afferrò le guance in una sola mano, facendole quasi toccare tra di loro, e facendomi anche assumere l'espressione di un pesciolino in acqua. Mi baciò a stampo e sorrise «sei carina», ne stampò un altro. Baciai le sue labbra ritrovandomi sopra di lui. Morsi il suo labbro inferiore «ahi!», gemette e rise. Feci lo stesso e poi lo succhiai. Concentrata solo su di lui ci rotolammo a terra. Rilasciò un gemito di dolore mischio a risata. Si alzò e mi sollevò da terra. Gli circondai la vita con le gambe mentre si dirigeva per il piano di sopra. «Immagino tu non la voglia più la cioccolata calda», disse Simon entrando con Julie in salotto. Lo ignorammo. Mi ritrovai sul letto dove sentii il telefono squillarmi in tasca. «Non rispondere», disse iniziando a baciarmi il collo. «Okay», il mio respiro si fece presto affannoso, ma le chiamate continuavano ad arrivare disturbandoci. Alla fine afferrai l'attrezzo squillante e fastidioso e me lo portai all'orecchio. «Che c'è?», domandai ignara, e scocciata dall'interruzione. «Lexie», Jonas aveva una voce fredda. «Ti ho prenotato un biglietto per le dieci», dichiarò. «Pensavo di essere stata chiara quando ho detto che prima dovevi avvisarmi... Non verrò», chiarii fermamente. «È importante», disse lui, con quel tono di voce che non avevo mai sentito. Era diverso, era terribilmente abbattuto e allarmante. Jonas non parlava mai così, era sempre così pieno di entusiasmo e ironia. Sempre solare, ed ora era l'esatto opposto. Era spaventoso il suo tono. Balzai in piedi. «Che succede?», chiese Jake preoccupato. Scossi la testa; ero del tutto inconsapevole sperando che presto mio fratello mi avrebbe sollevata, facendo luce su ogni mia preoccupazione. «Jonas», lo chiamai. «Mi dispiace», disse subito dopo. Non era sollevante, non faceva altro che accrescere l'ansia dentro di me. «Per cosa?», boccheggiai. «Si tratta di papà», sentii un singhiozzo «Mi dispiace di non avertelo detto... Aveva un cancro al quarto stadio.» Mi accertai di aver sentito bene quando ogni cellula di me s'impietrì, lasciandomi immobile, con il sangue congelato nelle vene. Sentii il cuore battere fortissimo, la mente in subbuglio e un tremore percorrermi dal capo ai piedi. Non ero più sicura di avere ancora un filo di voce, nella mia gola era stretto un nodo. Sentivo un bruciore fortissimo in quella parte del mio corpo. «Cosa?», ero incredula, non capivo di cosa stesse parlando. «Non te l'abbiamo detto perché non pensavamo che le cose sarebbero andate in questa maniera...» Nonostante le sue parole lasciassero trasparire chiaramente cosa fosse successo, mi rifiutavo di credere, e aspettavo il momento nel quale avrebbe smentito ogni mio sospetto. «Di cosa stai parlando?», la mia voce uscì soffocata e strozzata. «L'hanno operato, non è andata bene. Non ce l'ha fatta», emise quelle parole dure, e sentii il mondo crollarmi nuovamente addosso. No, non era la realtà. Non poteva essere la realtà. Ma per me la felicità esisteva? L'avrei mai provata per più di qualche breve istante? In quel momento pensai, perché a me? Perché a papà? Perché adesso? Perché proprio quando sentivo di avere mio padre presente? Perché non ne sapevo niente? Perché me l'avevano nascosto impedendomi di stargli vicino? Lasciai il telefono cadere senza neppure sapere dove. Mi chiusi nel bagno e mi accasciai sulla porta, boccheggiando, sentendo la gola stringere e la mente un turbine di pensieri. Sentivo che c'era qualcosa dentro di me, in quell'istante, che mi stava divorando del tutto. Sentivo rabbia e un dolore così forte da farmi voler venire voglia di smettere di vivere. Niente sarebbe andato più bene, non avrei più avuto il coraggio di fare nulla. Scoppiai in lacrime vedendo solo quell'immenso vuoto difronte ai miei occhi. Non vedevo più un futuro, non immaginavo più un barlume di felicità nella mia vita. Sentii bussare con forza alla porta. «Che succede?» Mi presi il viso tra le mani e continuai a piangere ininterrottamente per minuti. «Mi dispiace...» Mi dispiace? L'aveva detto davvero? Ero troppo triste per arrabbiarmi, ero troppo debole e sconvolta che rimasi in quella posizione per minuti, senza smettere di piangere. Mi sentivo male, in quel modo che mai avevo provato. Una sofferenza profonda e logorante. Mi asciugai le lacrime, mentre di nuove tornavano a bagnarmi il viso. Mi alzai in piedi fiaccamente ed aprii la porta. «Lo sapevi?», singhiozzai. Rimase in silenzio e distolse lo sguardo. Ebbi un tuffo al cuore. «Sapevi che aveva un cancro e non me l'hai detto?», gridai in lacrime. «Pensavo... Che sarebbe stato troppo» disse, avanzando verso di me. Indietreggiai e scoppiai nuovamente a piangere. «Indovina? È troppo. Questo è decisamente troppo», lo sorpassai e iniziai a buttare le mie cose in valigia. «Cosa stai facendo?», domandò, afferrandomi un braccio. «Non toccarmi!», strillai, liberandomi dalla sua stretta. «Ti prego... Perdonami, non sai quanto mi dispiaccia ma posso starti vicino, posso aiutarti», disse, mentre io vagavo per ogni lato della stanza alla ricerca delle mie cose. Mi sembravano parole assurde e surreali. Le ignorai, corsi in bagno ad afferrare tutti i miei oggetti. Li riposi in valigia e cercai ancora. Ripresi il cellulare, erano le otto passate, ed avevo un volo tra meno di due ore. «Ehy, senti.. Ti prego, ascoltami e fermati per un secondo...» «Non è come le altre volte Jake!» strillai, così forte che mi stupii di me stessa. «Mi hai mentito su questo... Per tutto questo tempo. Per cosa? Perché avevi paura di perdermi? Avevi paura che non ce l'avrei fatta? Be' sappi che non ce la faccio più. Sono stanca di tutto... Sono stanca di concedermi attimi di felicità solo per sentire il mondo crollarmi nuovamente addosso. Per la prima volta, in quasi diciannove anni, uno dei miei genitori si preoccupava per me. Capisci? Per me. Non ero più una sua proprietà mai importante quanto il suo lavoro. Mi trattava come sua figlia ed ora lui è...», piansi nuovamente e mi asciugai il viso con la mano. Vidi i suoi occhi luccicare quando mi avvicinò a sé. «Mi dispiace, davvero.. Non sai quanto mi dispiaccia», disse prendendomi il viso tra le mani.  «È finita. Per sempre», le spostai bruscamente e distolsi lo sguardo per evitare di vedere ciò che sapevo avrei visto. Avrei potuto dire addio a mio padre, avrei potuto stargli vicino, avrei potuto passare ogni attimo dei suoi ultimi giorni con lui. Lui me l'aveva negato per il suo egoismo. «Cosa? No... Ti prego», mi afferrò il braccio e sentii un enorme dolore crescermi in petto. «Ho preso tutte le decisioni sbagliate, lo so, ma ti prego.. permettimi di starti vicino.. Io ti amo, non lasciarmi ti prego Lexie», mi girò verso di sé, ed io continuai a guardare il basso. Presi il telefono e chiamai un taxi, cercai di non far trasparire il dolore che si sentiva ascoltando la mia voce, ed afferrai la maniglia della mia valigia. Sorprendente la rapidità con cui le situazioni degenerano. Nel mio mondo poco fa ero felice, innamorata persa e mio padre era vivo. Ora era tutto surreale.. Tutto sembrava un terribile incubo dal quale speravo presto di svegliarmi. Niente più mi sembrava vero, non realizzavo che non avrei più visto mio padre, che non ci avrei più parlato. Senza neppure accorgermene mi ritrovai nel giardino di sotto, il taxi aspettava fuori dal cancello. «Aspetta, ti prego. Non immaginavo sarebbe successo. Aspettavo solo il momento per dirtelo», mi afferrò il polso. «Aspettavi il momento per dirmelo? E quando sarebbe stato il momento giusto? Perché non quando ti chiedevo di dirmi cosa mi nascondessi, quando pensavo di essere io il problema? Sai, ero convinta che l'amore bastasse ma mi sono ricreduta. L'amore non basta», mi liberai e percorsi il giardino trascinando la mia valigia. «L'avevi promesso. Avevi promesso che non te ne saresti mai andata», disse lui. Mi girai e delle lacrime cominciarono nuovamente a bagnarmi il volto. Girai la collana, e la slacciai dal mio collo. Presi la sua mano e ce la chiusi dentro. «Questa è tua.. In qualunque caso», disse, scuotendo il capo. «Tu avevi promesso che non mi avresti mentito.. Io avevo promesso che non me ne sarei andata.. Le promesse non contano più», sospirai e sentii un enorme bruciore salirmi dallo stomaco al petto. «Non farmi questo, ti prego», supplicò prendendomi il volto tra le mani. Posò la sua fronte sulla mia. «Ti amo troppo, non farlo. Giuro non ti mentirò mai più», baciò le mie labbra. «Perdonami.» Spostai le sue mani «non l'avrei mai voluto fare», dissi in lacrime. «Allora non farlo. Lo so che sei arrabbiata con il mondo in questo momento ma.. Per favore. Non lasciarmi.» «Torna dentro Jake. È finita.. Dimenticati di me», dissi con voce strozzata. I suoi occhi in quell'istante sembravano il mare, erano luminosi, di un blu talmente elettrico da non sembrare vero. Ero così accecata dalla mia sofferenza che non vedevo quella altrui, che non mi curavo delle mie parole troppo dure. Il tassista rivolto al finestrino, sembrò parlare con qualcuno. Il taxi partì, e dietro di esso vidi il pick up nero di Alex. Lo riconobbi al volante quando mi fece un cenno con la mano. «Perché perdoni loro e non me?», si prese le mie mani e se le portò al petto. «Non so se perdonerò loro. Ma tu, Jake tu... Non riesco a credere che tutto questo sia davvero reale, che si possa provare tutto questo dolore insieme», mi asciugò le lacrime con le dita. «.. Non ti perdonerò mai per questo. Non voglio illuderti. Non mi aspettare perché già so che non tornerò da te.» Deglutì e vidi i suoi occhi arrossarsi, distolse lo sguardo, facendomi percepire quanto ciò gli facesse male. «Non mi dimenticherò mai di te. Non puoi chiedermi questo. Tu, mi hai fatto perdere la testa, completamente. E ora non posso neanche minimamente accettare che non farai più parte della mia vita, ti prego. Lexie, ti prego, dammi un'altra possibilità, ti sto scongiurando», mi accarezzò il volto e i miei occhi si riempirono di lacrime all'istante. Spostai la sua mano e afferrai la maniglia della valigia. Scossi la testa «ti amo ma non posso» dissi non riconoscendo la mia stessa voce. Capii che non avevo mai veramente desiderato di sparire fino a quell'istante, fino a quel giorno. Volevo veramente che le mie pene terminassero per sempre, andare avanti mi sembrava impossibile. Mi ritrovai fuori dal cancello, Alex scese ed io non guardai i suoi occhi color ghiaccio nemmeno per un istante. «Alexis» mi chiamò mentre riponevo la valigia nel bagagliaio. Lo ignorai e salii nel sedile anteriore, mentre lui metteva in moto. «Te l'avrei detto. Per il semplice fatto che non sono una persona sensibile, e non mi curo di nessuno. Ma quando ti abbiamo vista in ospedale, sembravi finalmente così felice che..» «Non mi interessa» dissi seccamente. Seguirono minuti di silenzio, e finalmente arrivammo in aeroporto. Le lacrime mi si erano asciugate in volto, e nonostante cercassi di essere più triste per papà che non per quello che fosse appena successo nel giardino di casa sua, era il contrario. Nella mia mente mio padre sarebbe stato vivo finché non l'avrei visto con i miei stessi occhi. Finché non avrei assistito al suo funerale, non avrei realizzato che mio padre aveva appena smesso di esistere. Che aveva smesso di essere qualcuno. Quel nulla non lo percepivo, non riuscivo a capire come si potesse scomparire. Salimmo in aereo, nel silenzio più totale. Sarebbe stato un viaggio lungo, e quando chiusi gli occhi sperai di non riaprirli. Sperai di trovare la pace in qualche luogo, magari in un sogno, o magari di svegliarmi in Florida, scoprendo di non essere mai venuta qui a Los Angeles, e che tutto questo era solo un bruttissimo incubo. Alex non parlava, probabilmente era immune a tutto, immune a qualsiasi tipo di sofferenza. Lo invidiavo, così tanto che avrei fatto di tutto pur di essere come lui. Imperturbabile. Potevo veramente dire che la mia vita era lo schifo più totale. Era un susseguirsi di avvenimenti traumatici e catastrofici l'uno dietro all'altro. Avevo paura di addormentarmi per sognare una cosa qualunque e poi svegliarmi e tornare a quell'assurda realtà. Allo stesso tempo volevo trovare un po' di pace, un barlume di sollievo, concedendomi di chiudere gli occhi e liberarmi per un solo istante di quell'orrendo e spaventoso mondo in cui mi trovavo. Ciò mi faceva capire che in questo mondo non avevo più spazio, che ero morta dentro. Perciò che senso aveva continuare a vivere fuori se muori dentro? Fissai il vuoto per ore, tra il sogno e la realtà. Finalmente mi addormentai, e quel sadico universo ebbe la pietà di non concedermi un bel sogno, per poi farmi bruscamente tornare a quello schifo. Ignorai dieci telefonate di Jessy, sette di Jonas, due persino dalla donna che si proclamava come mia madre. Sentivo così tanto odio, che lo sfogai nella mia mente contro di lei. Poi mi arresi, sapendo che nonostante fosse la persona più crudele che avessi mai conosciuto, mio padre non era morto a causa sua. Ma mio padre era davvero morto? No, era impossibile, inconcepibile, surreale. Non poteva essere morto. Eppure era così, ma la mia mente si rifiutava di credere, si crogiolava in un mondo parallelo privo di tutto ciò. Eppure era reale. E di chi era la colpa? Volevo scaricare tutto il dolore e tutto l'odio su qualcuno, ma la verità era che non potei fare a meno di sfogarli contro me stessa. Ma non era giusto. Era con Dio.. Con l'universo.. O con chiunque di sommo ed onnipotente che risiedesse nei cieli, che me la dovevo prendere. E se non fosse esistito qualcuno la sù? Se non ci fosse nessuno con una forbice in mano, che d'un tratto decide di tagliare quel filo, strappandoti via la vita? In quel caso non potevo prendermela con niente e con nessuno. Era frustrante, il non poter sfogare tutto quel dolore. Ti rimaneva dentro, e non riuscivo a condividerlo, ad alleviarlo in nessun modo. Sentii la voce robotica della hostess, e tutti i passeggeri iniziarono a scendere ordinatamente dall'aereo. Alex mi guardò. «Alexis, andiamo» disse con voce terribilmente cruda e distaccata. Come poteva essere privo di emozioni? Rimasi più concentrata sul suo tono che sulle sue parole. «Cosa?» domandai con quella voce che oramai non mi appariva nemmeno più la mia. «Dobbiamo scendere.» Mi alzai in piedi, sentendomi più debole che mai. Le gambe erano molto intorpidite, e sentii un crampo al piede che decisi di ignorare. Misi piede a terra. Mi trovavo nello stato di New York, precisamente nella capitale New York City, diretta verso Manhattan, di nuovo. Ogni volta mi ripromettevo sarebbe stata l'ultima, ma la vita mi riportava sempre qui, il mio passato mi ci trascinava nuovamente. Mi chiedevo come mai non riuscivo a buttarmelo alle spalle ma la verità era che quando il tuo passato coinvolge il tuo presente.. Coinvolgerà anche il tuo futuro, per sempre. Alex trascinò le nostre valigie fino al taxi, mentre io mi stringevo nel cardigan che avevo appena messo. A New York faceva freddo, quasi sempre. Quando il taxi partì vidi la città odiata scorrermi sotto agli occhi, finché non riconobbi il cancello di casa. Era aperto, e tante macchine erano parcheggiate sul marciapiede. Tutte rigorosamente lussuose, tutte rigorosamente occupate da un autista nel sedile anteriore del volante. Posai la scarpa sull'asfalto, e subito una lacrima mi bagnò il volto. Una ventata passò, e forse la congelò o forse la portò via dal mio viso. Alex mi avvolse la spalla con il braccio, che mi sarei scrollato se solo avessi avuto quel minimo di forza che avevo smesso di possedere da quel giorno. La porta di casa era aperta, facendomi percepire che all'interno ci fossero più persone. Io non volevo essere lì, volevo solo vedere papà. Per un istante chiusi le palpebre, con il desiderio costante di vederlo venirmi incontro. Non era mai stato un padre presente, non mi aveva mai messa al primo posto. Non era il padre che ti chiamava ogni giorno e che aveva la preoccupazione costante di sapere come stessi, se avessi freddo, se avessi fame, se avessi bisogno di giocare o se volessi un vestito adocchiato in una vetrina. Non lo era mai stato, ma per me, lo era diventato. E poi, un maledetto cancro me lo aveva portato via, senza che avessi potuto dirgli addio per un ultima volta, senza che avessi potuto dirgli quanto gli volevo bene nonostante tutto. Vidi la figura di Jessy in casa, in attesa del mio arrivo. Percorsi le scalette dell'ingresso, e mi ci ritrovai difronte. Il trucco le era colato, e quegli occhi blu trasmettevano solo un gran dolore e senso di colpa. «Lexie» singhiozzò avvicinandosi a me. Indietreggiai, rifugiandomi nel petto di Alex, che chi sa come era l'unica persona che tolleravo in quel momento. Si stupì della mia reazione, ma subito dopo abbassò lo sguardo, consapevole della ragione. Ci raggiunse Jonas, che guardò prima me e poi Alex. «Mi dispiace» disse lui, quasi con vergogna. Sentii delle voci maschili e femminili, indistinguibili. Vera si affrettò per prendere le valigie. «Le mie condoglianze» disse con voce fredda e distaccata, quella di una donna di servizio mai sentita parte di una famiglia. Le voci provenivano dall'atrio, dove ricevemmo le condoglianze di diversi uomini e donne in giacca e cravatta, di cui non me ne importava nulla. C'era Carter, il dottore che mi aveva operata l'anno precedente. C'era Taylor Wash e la sua nuova moglie, senonché la madre di Drake. Altri medici, che conoscevo sin da quando ero bambina, altri che non avevo mai visto. C'era la mia nonna materna, ma non c'era mia madre. Con lei non avevo mai avuto un bel rapporto, era della stessa pasta degli Hamilton. Era fredda, ed insensibile almeno quanto mamma. Tutta quella gente.. Che non faceva altro che ripetermi che mio padre era un grand'uomo. Che aveva salvato tante vite.. Che aveva guarito tante persone. Le loro voci entravano da un orecchio, e dall'altro uscivano. Li ascoltavo, sì.. Ma al contempo non gli davo ascolto. Semplicemente perché dentro di me ero ancora convinta che l'avrei visto arrivare. Fu allora che Izzy scese dalle scale, e si sedette sul divano. La guardai con disprezzo e tentai di ignorarla, tentai di ignorare il modo sciatto e finto con cui piangeva e ricordava i bei momenti vissuti. C'erano diversi dolci posati sul tavolo, ma non toccai cibo. Jonas e Jessy tentarono più volte di cercare di parlarmi, ma io tornavo a rifiugiarmi da Alex e dalla sua freddezza, per riuscire a farmela trasmettere in qualche modo. La notte vinse il giorno più presto del solito.. Erano le sette di sera quando il sole calò, e Alex mi accompagnò in ospedale per dare un ultimo addio a mio padre. Si trovava in obitorio, ma alla fine tornai indietro, poiché sapevo che non ce l'avrei fatta ad osservare il suo corpo privo di vita. La notte ignorai le chiamate e buttai il mio IPhone nel water, e scaricai subito dopo. Volevo solamente prendermela con qualcuno, e l'unica con cui potevo farlo era me stessa. Mi accasciai alla parete, chiusi a chiave e me la presi con i miei polsi, con le mie gambe, mentre milioni di lacrime scendevano dai miei occhi. Cosa stavo facendo? Mi spaventai di me stessa e decisi che non l'avrei più fatto, che non ero una persona masochista ed autolesionista ma mi aveva recato sollievo, farlo. Mi
pulii dal mio sangue, e mi feci una lunga doccia. Qualcuno bussò appena alla porta. «Tutto bene?» era Jessy. La ignorai e continuai a lasciare che le gocce mi scorressero addosso veloci. Mi vestii, coprendo quei tagli di cui mi vergognavo profondamente. Mi infilai sotto alle coperte, e crollai in un sonno profondo. Era il primo giorno, il primo giorno di lutto. Era andata malissimo, e mi chiesi subito come sarebbe stato il secondo.. Ed il terzo. Ero sola, e l'avevo deciso io. Ma non me ne ero pentita. La mattina seguente rimasi a fissare il vuoto per un'ora, o forse due, sdraiata nel mio letto. Qualcuno bussò alla porta, e non ricevendo risposta la sentii aprirsi cautamente alle mie spalle. «Vuoi alzarti?» sussurrò Jonas, ma io neppure mi girai. Sentii i suoi passi sul pavimento e presto si sedette sul letto. «Sto male.. Sto male dal giorno in cui ho saputo della sua malattia. Lentamente ho imparato a conviverci, e questo dolore è fortissimo ma non immagino come dev'essere per te. Scusa, se non ti ho dato modo di metabolizzare tutto, se ti ho fatto una chiamata che probabilmente ti ha fatto crollare il mondo addosso. Scusa se sono stato così egoista da decidere di volerti vedere felice, piuttosto che darti altre sofferenze. È stato egoismo il mio, perché l'ho fatto esclusivamente per me. Perché non avrei sopportato di vederti stare male, quando finalmente avevi trovato la felicità.. Ma ti prego. Perdonami» posò una mano sulla mia spalla, e sentii quanto fosse tremolante la sua voce. «Ho bisogno di mia sorella. E per quanto voglia bene a Jessy e ad Alex, so che solo se io e te saremo insieme potremo superare questo momento. Siamo io e te, Lexie. Jonas e Alexis, gli stessi che davano così tanti tormenti a papà in mezzo all'ospedale, giocando a nascondino nelle camere dei medici di guardia» rise e pianse allo stesso tempo. Delle lacrime bagnarono il mio volto, e singhiozzai. «Abbiamo già perso troppo per perderci anche tra di noi.. Pensaci su» si alzò in piedi e richiuse la porta. Passarono altri lunghi minuti fin quando non mi alzai in piedi, e radunai le forze fino al bagno. Mi vergognavo di me stessa ad osservare i miei polsi allo specchio.. E le mie gambe. Non avevo idea di come ci si dovesse vestire o comportare ad un funerale, soprattutto se quello era il funerale di tuo padre. Rinfilai in fretta i vestiti, per evitare che qualcuno mi avrebbe vista. Bussai alla camera di Jessy, sicuramente lei aveva qualcosa da mettere anche per me. Non appena mi vide forzò un sorriso attraverso quei bei zigomi, ma traspariva il dolore in ogni caso. «Tieni» porse un abito e mi accarezzò la guancia. Era implasticato e con ancora l'etichetta e la stampella. Lo indossai, accertandomi che coprisse ogni parte del mio corpo che volevo rimasse coperta. Infilai un cardigan dello stesso colore nero del vestito, e salii nell'auto, guidata dal tassista. Ricevetti le condoglianze di decine e decine di persone, finché finalmente non trovai sollievo sui sedili di quella chiesa di Manhattan. La cerimonia iniziò, una foto, sopra alla bara di mio padre, era posta sull'altare. Attesi a gambe accavallate, finché non ero invitata ad alzarmi in piedi dal prete. La chiesa era piena di gente, alcuni persino in piedi, altri fuori poiché non c'era spazio dentro. Sapevo che l'unica persona che in quell'istante avrebbe potuto darmi supporto, che poteva in qualche modo alleviare il dolore, non era lì, e non sarebbe arrivata. Desideravo essere nelle sue braccia, ricevere i suoi baci e sentire il suo profumo. Speravo solo di vederlo arrivare per me, ma io l'avevo lasciato, ed ero arrabbiata e delusa. Perché da Jonas, da Alex e da Jessy era stato brutto ed egoista, ma da lui.. Era stato struggente. Nessuno mi aveva mai fatto così male. Come poteva baciarmi e stare con me, mentre sapeva di nascondermi una cosa del genere? Non potevo più stare lì dentro, dovevo prendere aria e liberarmi da quei canti, da quelle parole, dalla foto di mio padre dove sembrava guardarmi, ma che sapevo non l'avrebbe mai più fatto perché lui era morto. Non esisteva più nessun Richard Bristol, chirurgo del New York Central Hospital, che viveva a Manhattan nello stato di New York. Non esisteva più, e realizzarlo era doloroso come non mai. Uscii fuori e presi finalmente aria. Vidi quel locale dall'altra parte della strada, e non volevo nient'altro che bere e non pensare a tutto quello. Mi sedetti sullo sgabello difronte al bancone. «Una tequila» ordinai al cameriere. «Arriva subito» sorrise e subito dopo mi accorsi dello sguardo persistente di qualcuno accanto a me. «Qual è il tuo nome?» «Alex..» mi girai verso quell'uomo sulla quarantina, probabilmente si trovava in chiesa come me qualche attimo prima. Non volevo confessargli di essere sua figlia, per poi ritrovarmi a condividere un dolore che non ero in grado di condividere con uno sconosciuto. «.. Andra. Alexandra» dissi prima di sorseggiare dal bicchiere che mi era appena stato portato. Sorrise e guardò per un istante difronte a se. Tirò fuori qualcosa dalla tasca interna della giacca e me la porse. «Tu devi essere Alexis. Richard me lo diceva che ero un'ottima bugiarda, peccato che lo sono anche io.» «Chi sei?» afferrai quella busta. «Tuo padre mi ha salvato la vita. Avevo un cancro ai polmoni esteso al cuore e lui l'ha rimosso nonostante fosse stato considerato inoperabile. Ora.. Lui è stato portato via da un cancro ai polmoni esteso al cuore considerato inoperabile. La vita è ingiusta» affermò sorseggiando un liquido giallastro. Il suo tono di voce mi fece percepire che quella non fosse stata la sua prima birra della giornata. «Cos'è questa?» domandai con quella lettera in mano. «Me l'ha data per te e mi ha detto che voleva che tu la leggessi» confessò e un nodo mi si strinse forte in gola. Si alzò, e si diresse verso la chiesa. Io non avevo il coraggio di aprirla, né tantomeno di leggerne il contenuto. La misi nella borsetta e tornai dentro. La cerimonia proseguì nel cimitero della zona, dove la sua bara venne sepolta sotto ai miei occhi. Tanti fiori vennero posati sulla terra fresca sopra di lui, ed io vi posai un unica rosa bianca. Le rose rosse erano sempre state i miei fiori preferiti, ma in quell'istante sentii di aver perso qualcosa, di aver perso colore e parte di me. Fu allora che notai mia madre tra la folla di persone, che mi osservava. Non si era neppure avvicinata. Se ne stava lì, immobile e imperturbabile. Trasmetteva freddezza e ostilità. La loro faida durata anni era finalmente terminata. Lei era lì, ancora in vita, papà no. Scoppiai in lacrime e mi appoggiai alla spalla di Alex, che mi avvolse con le sue braccia. Quella giornata straziante giunse al culmine e finalmente, seduta nel mio letto decisi di aprire quella lettera. Ero nervosa, e addolorata come mai lo ero stata. Strappai la busta, e la presi in mano. «Alexis, quando leggerai questa lettera io sarò lì, accanto a te. Non potrai vedermi, ma voglio che tu sappia, che proprio lì, in quell'istante, io ti starò vicino. Probabilmente ti starò accarezzando la spalla, e tu sarai seduta sul tuo amato lettone rosa..» le lacrime si accumularono subito ai miei occhi «..Se ti conosco bene, in questo momento ti chiederai come mai non ti ho permesso di starmi vicino ma la risposta è che tu lo sei stata più di chiunque altro. Per me, la tua felicità, è stata l'unica cosa che alleviava il mio dolore. Questa è la risposta alla tua domanda. Mi hai aiutato in questo modo, solamente in questo modo. Sappiamo entrambi che a scrivere tu sei sempre stata la più brava.. Perciò, arriverò al dunque senza troppe congetture. È vero, non potrò più starti accanto come vorrei, ma sappi che mi hai reso un padre orgoglioso e felice, perché sei diventata la donna più bella e forte che mai ho conosciuto nella mia vita. E sapere che quella donna, è proprio tua figlia, è segno di una vita realizzata. Scusa, se non sono stato il padre che ora rimpiango di non essere stato. Spero che tu possa perdonarmi per questo, e nel giorno più lontano possibile, spero di abbracciarti di nuovo tesoro mio.» Diverse lacrime bagnarono la carta della lettera. Volevo solo che fosse lì, per dirgli che l'avevo perdonato, e per abbracciare mio padre di nuovo. Se solo avessi saputo che quello sarebbe stato l'ultimo abbraccio che gli avrei dato, l'avrei stretto più forte. Mi asciugai gli occhi con le mani, e mi portai la lettera al petto, senza riuscire a smettere di piangere. Avrei voluto rileggerla, ma era un dolore troppo forte. Mi addormentai con essa stretta addosso nel mio morbido letto, con un pizzico di forza in più, rispetto a quella che avevo perduto.

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