2. Run

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2. Corri!

La sveglia suonò e la zittii con un pugno indelicato. Perché si trovava proprio sul mio comodino? Perché io ero la prima a doversi svegliare e a dover svegliare le altre, come sempre, giusto.
Avevo fatto un sogno contorto. Mi piaceva sognare e ricordare i sogni scrivendoli nel mio diario, nascosto tra la rete e il materasso. Ma il batticuore che sentivo, le mani tremanti e la fronte imperlata di sudore, mi ricordarono di essermi appena svegliata da un incubo. I dettagli di quel sogno si erano persi nella mia memoria ma qualcosa mi disse che era legato alla mia infanzia, a mia madre. La mia famiglia era sempre stata una delle più influenti ed ammirate dell'Upper East Side. Mia madre dopo anni di servizio come avvocato penale, era diventata colei a cui tutta l'alta società di New York si rivolgeva e papà, d'altro canto, era il più stimato cardiochirurgo di tutta la contea dello stato.
Competere ed essere alla loro altezza era sempre stato impossibile su ogni fronte.
Peccato che l'immagine della nostra famiglia e la realtà delle sue dinamiche interne non coincidessero affatto.
Partire verso il capo opposto dello stato era stata la decisione più semplice quando tutto sembrava essere sul punto di tornare a galla.
Odiavo quando certe immagini tornavano ad aleggiarmi in testa, quando certi ricordi erano così vividi da sembrare reali. Sentivo un dolore acuto al centro del petto e non importava se fossi a lezione, per strada, in giro a fare shopping. La mia giornata si spegneva completamente e io diventavo assente.
Non avrei più assistito a nient'altro, qui alla Kingstom. Qui, tenere la bocca chiusa e non rimuginare sul passato era più semplice che a Mahnattan. Qui, ero lontana dai ricordi dei litigi dei miei genitori, litigi che spesso si erano trasformati in incubi, come l'incendio. E per me che da bugiarda riconoscevo i bugiardi, tutto era ancora più complicato. Avrei preferito essere come Jessie, come Jonas. Loro non si ponevano domande, non giungevano a dolorose risposte. A volte avevo rischiato d'impazzire. La mia mente era dannosa per me stessa.
Con uno scatto balzai in piedi goffamente, con i capelli ognuno per il verso suo, strofinandomi gli occhi con i pugni. Vacillante raggiunsi il bagno e mi lavai alla svelta.
Saltai in un paio di jeans e finii di prepararmi con un paio di rapide passate di mascara messe alla cieca.
Il mio armadio era pieno di vestiti che avevo comprato dopo essermi diplomata con il massimo dei voti. Papà mi aveva lasciato in possesso di una delle sue carte di credito, forse perché in quel modo pensava di poter riparare l'irreparabile. Quel giorno anche io lo sperai, ma poi mi dovetti ricredere.

Era l'unica volta che nelle compere mi ero lasciata così andare, non ostentavo il lusso come la maggior parte delle mie coetanee di Mahnattan, sebbene potessi permettermelo. La mia famiglia contava un patrimonio quasi inesauribile e quella era una delle ragioni per cui avevo deciso di andare via. Volevo dimostrare che me la sarei cavata da sola. Non avevo bisogno dei loro soldi. Non avevo fatto domanda per Harvard come avrebbe voluto mio padre, a poche ore di distanza da casa. Secondo lui avevo i requisiti per essere presa e sperava che in tal modo avrei seguito ogni sua orma, ma io non volevo più vivere solo per renderli fieri. Loro non erano mai stati fieri di me e soprattutto io, non ero mai stata fiera di loro. Provavo sentimenti contrastanti nei confronti dei miei genitori, non avevamo mai affrontato né risolto i nostri problemi. Forse perché a loro non importava abbastanza.
Avevo anche preso in considerazione di studiare alla Columbus di Miami, ad un'ora e mezzo da qui, per ottenere un po' di indipendenza da Julie ed Isobel, ma naturalmente brontolarono così a lungo che alla fine dovetti cambiare idea. Avevo sempre pensato che loro avessero scelto di studiare medicina solo a causa mia.

Mi convinsi che avrei dovuto raggiungere il corso di chimica da sola per evitare di fare ritardo. Odiavo entrare a lezione già cominciata.
Chiusi la porta, mi sistemai la borsa in spalla.
«Credimi, se Evans ha intenzione di rompere le scatole...»
Involontariamente il mio sguardo cadde verso quella camera dalle pareti spoglie e bianche.
Infondo ad essa una finestra era rimasta aperta, facendo penetrare una folata di vento che trasportava un odore di erba appena tagliata misto all'odore... Oh mio Dio, avevo già sentito quell'odore. L'odore che sembrava un supplizio in paradiso. Il ragazzo dello "scusate, ragazze" al falò dell'altra sera, uscì dalla camera col suo zaino in spalla. Mi riconobbe, lo percepii da quel mezzo sorriso che assunse dirigendosi verso la fine del corridoio.
«Vi aspetto a lezione!», aveva detto, voltandosi verso la sua camera. Non volevo fare il tragitto verso le classi assieme a lui. Così attesi che si allontanasse di qualche passo.
«Trav, se vieni strafatto a lezione come sempre, io ti lascio delirante nella classe di psicologia 'sta volta!»
D'un tratto Jake si affacciò oltre lo stipite. Il suo profumo mi travolse completamente.
Non si sarebbe aspettato di vedermi. Ingrandì gli occhi, poi mi esplose a ridere in faccia.
Accidenti, persino la sua risata aveva un suono indiscutibilmente gradevole. Aveva i capelli bagnati, indossava solo un paio di jeans probabilmente nemmeno abbottonati.
«'Sta tranquillo. Tu vedi di non farti rovesciare altre birre addosso!»
Trav si voltò verso di noi sghignazzando.
Non dissi nulla. Avevo scorso lo sguardo rapidamente da destra a sinistra, indugiando più del previsto su di Jake. Sembrava fosse stato disegnato da un'artista. Aveva il corpo di uno sportivo, un addome a dir poco perfetto e delle braccia che... accidenti. I bicipiti, mi piacevano anche i suoi bicipiti e gli avambracci. Quelle ragazze non avevano tutti i torti, era davvero il ragazzo più bello che avessi mai visto. In copertina, in televisione o di persona.

Amami nonostante tuttoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora