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Prima di uscire, ricordai tutt'un tratto di prendere il regalo di Roman, una piccola scatolina blu ancora sigillata, e lo tenni nascosto in una mano per tutto il tragitto segnato dai versi acuti di Hight che volava basso affinché non lo perdessi mai di vista.

Camminai più velocemente nei pressi della fattoria e del ruscello per far sì che i ricordi non mi tornassero in mente come una medicina troppo amara da poter mandar giù, e camminai a passo normale per la strada che portava alla collinetta verde.

Lì, ad aspettarmi, poggiato lungo il fianco erboso, vi era il mio migliore amico, la postura e lo sguardo stanco di chi aveva aspettato per ore qualcosa che non era mai arrivato.

«Roman!», lo chiamai e lui si accorse di me e, avvicinandomi correndo il più velocemente possibile, notai che era arrossito e che stava allisciando i vestiti spiegazzati con entrambe le mani, con fare nervoso, «Cosa ci fai qui?», gli chiesi e lui mi guardò sorridendo.

Stranamente mi parve diverso, a disagio, anche il suo sorriso non pareva più il suo e la cosa mi fece gelare il sangue nelle vene.

Non era nemmeno venuto alla veglia, a dire addio a mio padre, e la cosa mi ferì.

Sapeva quanto ci tenessi che lui fosse lì? Non riuscivo a darmi risposta mentre, passo dopo passo, la sua figura si faceva sempre più vicina. Infondo neppure io lo avevo capito, fino ad allora.

«Ti aspettavo», disse, aprendo le braccia come per abbracciarmi, «volevo sentire la tua risposta ma poi ho pensato che la morte di tuo padre ti avesse distratta dal biglietto, ma comunque ne volevo esser certo», poi però, prima che i nostri corpi si sfiorassero, lui si allontanò, lo sguardo confuso che, immaginai, ornasse anche il mio volto. Ma di che diavolo stava parlando?

Poi capii e aprì la mano che teneva la scatolina, fissandola a lungo come se potesse darmi tutte le risposte che volevo e che Roman desiderava così tanto sentire.

«Non l'hai aperta, vero?», la sua voce tradì un pizzico di delusione e non ebbi il coraggio di guardare i suoi occhi per capire se effettivamente fosse così.

Mi affrettai ad aprire la scatolina, nonostante le mani sudate e l'adrenalina che mi aveva spinta a correre fino a lì, mentre High mi urlava di muovermi con dei versi spaventosi.

Al suo interno trovai un sottile cerchio d'oro ornato da un piccolo fiore di pietra di un azzurro chiarissimo, cristallino. Il bigliettino recitava la testuale domanda: "Mi farai l'onore di essere mia moglie?" e due quadratini sotto il quesito con la risposta affermativa e negativa.

Voltai il bigliettino, sentendo lo sguardo di Roman pesare come un macigno e vi trovai un'altra frase, scritta frettolosamente con l'inchiostro rosso: "Stanotte alla collina".

«Non volevo metterti fretta ma non pensavo che l'ansia potesse farmi sentire così... così», Roman scoppiò a ridere e mi si chiuse un nodo allo stomaco.

Mi mancò l'aria per un momento e lo guardai, in allarme, sentendo le mani che tremavano forte.

«Roman, io...», allungai la scatola verso di lui e mi sentii avvampare.

«No, non ora», mi riportò le mani verso il mio petto e mi sorrise, sincero ma scoraggiato, «so che ora tutto sembra terribile, anche questo», mi strinse la mano vuota, intrecciando le dita alle mie come aveva fatto mille volte, ma ora era completamente diverso, «ma io ti aspetterò, però ti prego...», sospirò con l'espressione talmente atterrita da farmi sentire in colpa, «non metterci troppo», e mi lasciò, guardandomi dritto negli occhi.

«Mi dispiace», e pensai che quella frase sarebbe diventata il mio motto, un giorno o l'altro...

High mi condusse nella piazza di Città ma non potei salutare nessuno, o dire addio a Matilda, perché subito il falco riprese a volare sempre più lontano, a volte persino scordandosi di me.

The white knightDove le storie prendono vita. Scoprilo ora