3.Nove anni

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Nel momento in cui sentii bussare alla porta mi staccai da Thomas e mi alzai velocemente, come se nulla fosse. Come se le nostre labbra si fossero toccate per caso.
Mi appoggiai al muro, con la botta in testa che continuava a martellarmi nelle orecchie. Chiusi gli occhi e inspirai a fondo. Quando la stanza smise di girare ordinai a chiunque fosse a salvarmi da quella situazione di entrare.
Peter si affacciò dalla porta, lanciò uno sguardo a Thomas e dopo a me.
-Perché sei a terra?
Chiese dopo un po' posando di nuovo lo sguardo su Thomas.
-Mi sto alzando.
Thomas sorrise nella sua direzione e si mise in piedi velocemente. Al contrario mio, lui sembrava a suo agio, come se baciare un altro ragazzo fosse all'ordine del giorno. Peter e Thomas rimasero a guardarsi negli occhi per diversi secondi. Thomas continuava a sorridergli, mentre Peter gli rivolgeva delle occhiate accusatorie.
Solo in quel momento mi accorsi che nessuno stava più facendo caso a me. Eppure io ero il capo.
-Che cosa vuoi, Peter?
Chiesi con tono forse un po' scontroso. Eppure in quel momento gli ero riconoscente, perché mi aveva tolto da quell'impiccio. Peter sobbalzò, come se solo allora si fosse ricordato di me, si voltò e chinò la testa, forse in segno di sottomissione.
-Ero solo venuto a dirti che quel ragazzo, Stivie, continua a vedersi con la sua ragazza. Ho le prove.
A quelle parole sentii la rabbia ribollirmi nelle vene. Scattai come se volessi avere qualcosa da scaraventare a terra e distruggere, ma non trovai nulla contro cui prendermela, così feci due lunghi passi verso Peter e lo afferai dalla maglia.
-Quali prove?
Peter deglutì rumorosamente, si mise una mano tremante in tasca e tirò fuori dei fogli, li presi in mano per analizzarli. Erano foto.
Ritraevano Stivie e la ragazza mentre prendevano il gelato, mentre passeggiavano mano nella mano, sembravano felici, sorridevano. Ma una donna è solo una distrazione. E se Stivie avesse già detto qualcosa sulla società alla ragazza? Mi aveva promesso che non si vedevano più. Non avrei mai dato in futuro una seconda possibilità a nessuno, questo era poco ma sicuro.
-Ha disubbidito.
Dissi semplicemente. Lasciai cadere le foto a terra. Meritava di essere punito. Doveva soffrire per quello che aveva fatto, lui aveva messo a rischio la società. Nessuno lo avrebbe mai più fatto. Stivie doveva soffrire.
Raggiunsi la fine della stanza, aprii il mobile con le ante di vetro, contenente delle armi e afferrai una pistola. Raggiunsi Peter e gliela diedi.
-Devo ucciderlo?
Chiese rigirandosi la pistola in mano.
-No, devi uccidere lei.
Dissi. Così avrebbe sofferto di più Stivie, privato del suo unico amore, sapendo che era morta per colpa sua, perché non l'aveva lasciata andare quando ancora poteva.
Peter annuì e si diresse verso la porta, trascinando con sé Thomas. Sembrava arrabbiato, probabilmente anche lui voleva farla pagare a Stivie, anche se il modo in cui teneva stretta la mano di Thomas mi faceva penssare che in relatà ce l'avesse proprio con lui, il ragazzo che mi aveva baciato.
-Peter.
Lo richiamai prima che si chiudesse la porta alle spalle. Lui si voltò.
-Dopo fai sapere a Stivie che io ti ho mandato a ucciderla. Deve capire con chi ha a che fare.
Peter annuì e uscì in fretta, come se avesse qualche conto in sospeso da risolvere.

**

E così quella era la mia prima riuonione da capo di una delle società più importanti del mondo. Eravamo arrivati prima con Thomas, lì in Russia, il luogo dove si teneva annualmente la riunione di tutti i capi della società, per trattare di affari e accordi. Più volte avevo accompagnato mio padre, ma il mio unico scopo allora era stato quello di accogliere gli invitati. Adesso quello era il lavoro di Thomas, perché io ero il capo.
La situazione finalmente si era stabilizzata a New York. Tutti mi iniziavano a temere dopo il delitto alla ragazza di Stivie. In più anche Paul, Peter e Thomas adesso mi rispettavano. Avevo anche notato che i rapporti tra i tre si erano raffreddati, ormai non si parlavano quasi più. Paul restava solo a leggere nella sua camera, osservava tutto ciò che accadeva intorno, conosceva tutto di tutti ed era diventato il mio informatore personale. Peter eseguiva semplicemente le mie commissioni, ma diventava sempre più freddo con me. E anche più scontroso con gli altri. Un giorno Thomas era tornato nel mio ufficio con un occhio nero, come se avesse fatto a botte con qualcuno. Guardando poi le nocche nere di Peter avevo intuito che era stato proprio lui ad attaccare Thomas. Mi chiesi cosa gli avesse fatto, ma decisi di non indagare, perché poi li avrei dovuti uccidere o punire per un comportamento del genere e preferivo fare finta di non vedere più semplicemente.
Adesso speravo solo che anche gli altri capi delle altre società mi rispettassero. Con mio padre lo facevano, ma lui era forte, incuteva terrore, anche a me. Era duro, determinato. Mentre loro mi avevano visto crescere fin da bambino, non riuscivano a vedermi come un'autorità. L'unica cosa che li portava ad avere un po' timore e rispetto per me era il fatto che mio padre continuava a rinfacciargli che io ero forte tanto quanto loro, tanto che da mbambino avevo ucciso mia madre.
-Dove metto questo?
Ero così assorto nei miei pensieri che non mi accorsi che Thomas mi stava cercando di porre una domanda già da un po'. Indicò un vaso con dei fiori.
-Dove capita.
Risposi distrattamente. Eravamo venuti prima degli altri per aggiustare la residenza, in quanto persona più influente tra tutti i soci di tutte le società era mio compito farlo.
-Che cosa hai? Mi sembri distratto.
Disse Thomas posando i fiori sul mobile più vicino a lui e camminando nella mia direzione. Io mi sedetti su uno dei divani rossi appoggiati al ,muro, più che sedermi, in realtà, mi lasciai cadere.
-Stavo solo pensando.
Sospirai.
-A cosa?
Thomas si sedette accanto a me.
-A mia madre.
Sperai che la conversazione finisse lì, ma sapevo che Thomas non si sarebbe arreso finché non avesse capito cosa mi turbava.
-E cosa pensavi di lei?
Lo guardai negli occhi, lui era sempre così gentile con me, era l'unico di cui mi potessi fidare veramente.
L'ho uccisa e mio padre lo rinfacciava agli altri membri, come se fosse un trionfo, ma io mi sono sentito sempre un mostro per questo. Chissà come si sarebbe comportata con me.
-Nulla.
Dissi facendogli intendere che la conversazione doveva finire lì. Non mi piaceva espormi raccontando i fatti miei agli altri.
-Comunque se ti può consolare non credo che l'abbia uccisa tu.
Disse Thomas fingendosi distratto, ma io sapevo che non era così, lui non era mai distratto quando parlava di me. Lui mi amava. Lo avevo capito dopo quel bacio nel mio ufficio, ma io non ricambiavo i suoi sentimenti. Era buono, di lui mi potevo fidare. Ma non lo amavo, non ero fatto per queste cose io non avrei mai amato nessuno. L'amore è debolezza. E basta.
Però sicuramente Thomas era un ottimo amico, nessuno mi aveva mai trattato bene quanto lui, neanche mio padre. Ecco perché stavo con lui, perché avevo bisogno di avere qualcuno di cui fidarmi, non di certo perché lo amassi.
In quel momento Thomas si avvicinò a me e posò le sue labbra sulle mie. E cominciò a baciarmi, accarezzandomi la guancia. Non ci baciavamo spesso, non avevamo mai parlato neanche tra di noi della nostra relazione, in realtà, io neanche sapevo cosa potesse essere una relazione, ma quei pochi momenti bastavano per dire che forse eravamo davvero fidanzati. In realtà non sapevo assolutamente come gestire la cosa. Io non lo amavo.
Sentii dei passi e velocemente lo allontanai da me.
-Arriveranno a momenti.
Disse Alice attraversando la stanza in fretta, senza neanche guardarci. Fortunatamente non si era accorta di nulla.
-Alice, che ci fai qui? Ti avevo detto di pulire la cucina.
Lei alzò le spalle e dopo un po' si voltò verso di me, era più grande di me, ma io ero il capo, non lei. Mio padre voleva che il capo fosse un uomo, non una donna. Anche se nel codice non c'era scritto nulla riguardo a questo.
Mi alzai e in fretta la raggiunsi, lei mi guardava con il suo solito sguardo furbo, mentre i capelli neri e lisci le ricadevano sugli occhi. Non sembrava neanche che fossimo parenti. Lei aveva i capelli neri e io biondi, lei gli occchi scuri, e io chiari, lei era robusta, e io avevo messo su i muscoli solo grazie a Thomas. In fondo avevamo madri diverse, mio padre aveva avuto due storie con due donne diverse. Dopo la nascita di Alice, sua madre morì e mio padre si innamorò di mia madre, che poi io uccisi.
-Mi annoiavo.
Disse semplicemente. Lei non se lo aspettava, ma io le tirai uno schiaffo forte. Era normale per noi picchiarci, lo facevamo già da quando eravamo piccoli. Lei diceva che io non avevo sentimenti e io ero convinto che lo stesso valesse per lei. Non ci volevamo bene, affatto.
Alice indietreggiò e si toccò la guancia.
-Adesso che sei il capo ti comporti come un idiota, più di quanto lo eri prima.
Feci un passo verso di lei e lei continuò a indietreggiare. Aveva paura quindi. Mi sentivo potente, aggressivo e soprattutto arrabbiato, avrei potuto attaccarla senza rimorsi in quel momento. Era già tutto difficile senza che ci si mettesse lei.
-Tanto non puoi uccidermi, cosa vuoi fare?
M schernì Alice. Lanciai una manata al vaso contenente i fiori, che si rovesciò a terra spargendo i fiori sul pavimento. Lo stesso vaso che Thomas poco prima mi aveva chiesto dove posare.
-Decido io se posso ucciderti o no.
Digrignai i denti.
-So che non lo farai, significherebbe tradire papà.
Odiavo quando lo chiamava "papà", come se mi volesse ricordare che il padre era anche suo, come se me lo volesse rubare.
-Se vedesse come sei diventata, scioglierebbe il patto.
Dissi semplicemente, ma sapevo che aveva ragione. Io non avrei mai tradito mio padre. Lui aveva promesso alla madre di Alice che sua figlia non sarebbe mai stata uccisa per fare spazio a un'altra donna nella società. Per adesso non mi ponevo il problema, ma prima o poi sarebbe dovuto accadere, perché avrei avuto bisogno di alcuni eredi che ereditassero la società. Certo, avrebbe comunque potuto procurarmeli lei con qualunque socio, anche con quel Mike, il suo ragazzo.
-Non lo farebbe, papà mi voleva bene. Tu per lui eri solo debole, io sono quella forte.
Cercai di inspirare ed espirare a fondo per mantenere la calma.
-Ma la società l'ha ceduta a me, non a te.
Gli feci notare.
-Solo perché sei un maschio.
Detto quello se ne andò furiosa. Le nostre conversazioni finivano sempre in quel modo. Litigavamo ogni momento della nostra vita e la cosa peggiore era che lei sapeva dove colpirmi, ricordandomi ogni volta che io ero inferiore a lei e che mio padre lo sapeva. Mi distruggevano quelle osservazioni, perché erano vere. Mio padre non avrebbe voluto me come figlio, in tutti i modi da piccolo aveva cercato di fortificarmi, ma c'era riuscito solo dopo la sua morte. Ogni volta quando Alice mi diceva che ero debole mi sentivo triste, ma questa volta ero solo infuriato con lei, perché ormai io non ero più come una volta. Io ero aggressivo e forte, proprio come mio padre mi avrebbe voluto.
-Hai distrutto un vaso innocente.
Constatò Thomas avvicinandosi a me e chinandosi per raccogliere i fiori. Se cercava di farmi ridere, non ci stava riuscendo affatto.
-Non sono neanche veri quei fiori.
Dissi.
-Si nota molto?
Chiese Thomas.
-Non hai messo l'acqua nel vaso, per questo l'ho capito, idiota.
Lo guardavo dall'alto, mentre lui in silenzio raccoglieva tutti i cocci. Sapevo che non valeva la pena arrabbiarsi con lui. Thomas non se lo meritava, eppure mi sembrava che infuriarmi con lui era un modo per scaricare la rabbia.
-E poi che fiori dovrebbero essere? Sono bruttissimi.
E lo erano veramente. Piccoli, bianchi, più stelo che altro, sembravano raccoltti da chi sa dove e spennati fino a lasciare due o tre petali.
Detto ciò pestai i cocci con le scarpe e mi incamminai verso la mia camera da letto. Per scaricare la rabbia avevo avuto bisogno di distruggere qualcosa, ma solo mentre varcai la soglia della stanza mi accorsi di aver distrutto non qualcosa, ma qualcuno. Thomas.
Lo sentii sussurrare con tono malinconico:
-Questi fiori sono Iberis.
E subito dopo mi chiusi la porta alle spalle.

**

Continuavo a rigirarmi la foto di mia madre tra le dita. Chissà cosa avrebbe pensato di me, una volta cresciuto. Mi avrebbe amato anche come capo della società? Speravo solo che dovunque fosse vegliasse sempre su di me e che mi perdonasse per averla uccisa, avevo un anno, non era stata mia intenzione farlo.
Sentii qualcuno bussare alla porta, sobbalzai e nascosi la foto sotto la lampada della scrivania. Quella era l'unica cosa che mirimaneva di lei. Non le assomigliavo neanche, quando mi guardavo allo specchio non mi sembrava di essere fglio suo, ma nel mio riflesso rivedevo solo mio padre. Soprattutto adesso che avevo raggiunto i venti anni.
-Avanti.
Ordinai a chiunque stesse bussando.
Entrarono nella stanza Peter e Paul, che però si fermarono all'entrata.
-Che c'è?
Dissi senza neanche guardarli.
-Il ragazzo per gli esperimenti è morto.
Disse Peter. Posai lo sguardo su di lui.
-E allora?
Dissi alzando un sopracciglio.
-Rapiremo qualcun altro.
Continuò Paul.
-D'accordo.
Dissi semplicemente. Aspettavo che i due se ne andassero, invece rimasero lì, immobili sulla porta.
-C'è altro?
Chiesi avvicinandomi. Mentre camminavo verso di loro, Peter indietreggiava. Paul no.
-Sappiamo che giorno è oggi, ci dispiace.
Disse Paul. Non avevo bisogno del loro compatimento. Stavo bene così. Dovetti contare fino a dieci per non saltargli addosso. Nove anni mi avevano reso duro, forte e soprattutto immune da qualsiasi sentimento, verso di loro, verso mia sorella o verso tutti i soci.
-Andatevene.
Dissi semplicemente. Paul e Peter annuirono e in silenzio si voltarono per andarsene. Ormai non provavano neanche più ad avvicinarsi a me più di tanto. Ormai tutti avevavo paura di me. Non era più come nove anni fa. Ormai eravamo cresciuti. Io ero diventato maturo, non ero più un bambino che aveva bisogno dell'affetto di qualcuno per andare avanti. Stavo bene da solo.
-Ehy.
Disse Paul girandosi verso di me prima di uscire.
-Se hai bisogno di qualcosa noi ci siamo.
Detto ciò si chiuse velocemente la porta alle spalle. Solo in quel momento capii che non stava facendo riferimento al lavoro, ma intendeva dire che se avessi avuto bisogno moralmente di loro, loro ci sarebbero stati, come ai vecchi tempi. Ma non era così. Ancora di più, dopo la morte di Thomas, avevo capito che provare sentimenti nei confronti di qualcuno era sbagliato.
Dopo che morì in uno scontro, come mio padre, piansi per diversi giorni, di nascosto, anche se la nostra relazione non era stata duratura e profonda. Ma in quel momento mi ero accorto veramnete che per stare bene avrei dovuto essere solo.
Adesso, dopo esattamente nove anni dalla morte di mio padre, ero riuscito a diventare come lui. Ed ero fiero dei risultati.
Mi incamminai verso la scrivania e mi sedetti alla mia solita poltrona.
Tutto andava per il verso giusto, niente avrebe mai potuto rovinare nulla, la mia routine, la mia vita perfetta, senza amore, ma soprattutto senza dolore.
In quel momento mi arrivò un messaggio, presi il telefono dalla tasca e lo lessi.
"Ho appena mandato una pattuglia a prendere la nuova cavia, spero che la ragazza che abbiamo scelto possa andare bene.

Paul."
Non diedi neanche tanta importanza al messaggio. Anzi, lo lessi così distrattamente che non mi accorsi che la cavia in questione era una femmina e non un maschio, come era sempre stato. E fu proprio un errore non tener conto del messaggio, perché, come credevo, niente avrebbe potuto rovinare la mia vita, ma qualcosa, anzi qualcuno, a breve sarebbe riuscito a cambiarla.

E tutto iniziò proprio con quel messaggio di Paul.

R.E.C.O.V.E.R.YDove le storie prendono vita. Scoprilo ora