Dustan

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Lo squillo ripetuto di un cellulare mi costrinse ad aprire gli occhi. Controllai l'ora nella mia sveglia di Topolino e notai che erano le tre del mattino. Sbadigliai e mi rigirai nel letto, pregando che chiunque stesse chiamando a quell'ora smettesse, ma nulla, quel rumore mi era entrato nel cervello. Pensai che ormai riprendere fosse fuori questione, così mi alzai strofinando gli occhi e uscì dalla mia camera.
-Mamma?- sentii borbottare, e spalancai subito gli occhi riconoscendo vagamente quella vocina acuta e assonnata. A un certo punto una figura minuta mi superò, trapassandomi da parte a parte; era un ragazzino biondo, capelli arruffati e occhi caramello... per poco non svenni. Ero io, accidenti, io all'età di dodici anni!
Mi affrettai a guardare il mio riflesso su uno specchio lì in corridoio e mi riconobbi, ero quello di sempre, ma anche il bambino davanti a me ero io...
"Cosa sta succedendo? Se è un sogno posso andarmene" pensai iniziando a tranquillizzarmi, ma la mia porta non c'era, non potevo uscire.
-Mamma, sei sveglia?- il piccolo scese le scale e si guardò intorno, -Papà?- chiamò di nuovo.
No... devo andarmene.
Il ragazzino trovò sua/mia madre in cucina, con le dita fra i capelli, le occhiaie e il cellulare in mano.
-Ti prego, lo so che è il tuo lavoro ma...- disse lei fra i singhiozzi, non riuscendo nemmeno a terminare la frase.
Avevo appena capito cosa stava succedendo e non potevo permetterlo. Spalancai gli occhi e iniziai a guardarmi intorno cercando la mia dannata porta, in quel momento desideravo quel corridoio come l'acqua nel deserto, ma niente, nessuna via di scampo.
Non posso essere spettatore di questa scena...
Il me bambino si era appoggiato al muro, per origliare senza farsi vedere. Me lo ricordavo.
-Lo so che è il tuo dovere!- Gridò improvvisamente mia madre, -Promettimi solo che tornerai.- concluse poi, più pacata. Mio padre la chiamava sempre quando si rendeva conto che c'era anche solo una piccola percentuale di possibile non ritorno, ma quella notte il tono di mia madre era diverso. A quel punto il piccolo spalancò gli occhi, vedere la scena da esterno mi fece male allo stomaco, il me ragazzino aveva una faccia così terrorizzata mentre realizzava il tutto...
-Dustan?- Chiamò mia madre, asciugandosi le lacrime, ma nessuno rispose, lui rimase immobile per qualche minuto e poi scattò, iniziò a correre verso la porta trapassandomi di nuovo, la spalancò e oltre alcuni palazzi osservò una nube di fumo denso e luci gialle che gli davano sfumature inquietanti. Lanciò uno sguardo a uno dei camion dei pompieri che, a tutta velocità, aveva svoltato l'angolo, e rimase un secondo a fissare la scena per poi afferrare la bici in giardino e partire. Io iniziai a correre, seguendolo, il palazzo non era lontano da casa mia, lo ricordavo. Voltandomi vidi mia madre che urlava e saliva in macchina per inseguirmi.


******

-Dustan!- Spalancai gli occhi e mi alzai di fretta. Il cuore batteva all'impazzata, dovevo avere almeno 100 battiti al minuto, quando misi a fuoco la stanza e la persona che mi stava di fronte, con sguardo preoccupato. Un viso talmente rassicurante che non potrei fare a meno di stringerla a me.
-Juno.- borbottai, affondando il viso nei suoi capelli. Aveva di nuovo usato il mio shampoo e non appena mi fossi ripreso le avrei urlato addosso.
-Ehi.- sussurrò lei, accarezzandomi la schiena, -Va tutto bene.- in quel momento la sua voce così calma e così matura riuscì a rasserenarmi come una doccia bollente. Per la prima volta non dovevo comportarmi da 'uomo della situazione', come voleva la società contemporanea, perché con lei e Abey tutto era più semplice: io e Noah le proteggevamo così come loro proteggevano noi, potevamo mostrare le nostre debolezze, le paure, senza sentirci in imbarazzo perché uomini. Viceversa loro potevano essere le ragazze meno ossessionate dal trucco e i bei vestiti che a noi non ce ne sarebbe mai importato nulla. Ci piacevamo così, imperfetti, umani. Se Juno Gens non fosse apparsa dal nulla probabilmente non avrei mai apprezzato così tanto i miei amici, quel gruppo non sarebbe mai nato e io e Noah avremmo continuato a fare i galletti, mentre Abey sarebbe rimasta soltanto la cugina del mio migliore amico.

******

Poco tempo dopo eravamo già seduti davanti al tavolo della cucina a bere cioccolata calda. Si erano fatte le sette del mattino e quel giorno mi sarebbe toccato andare a scuola a piedi, cosa che non succedeva da quasi un anno. Il motivo? Troppa dannata neve per usare la macchina, mia madre aveva paura che potesse slittare sul ghiaccio, e persino il bus era off limits... vai a capirla, quella donna. Per quanto riguardava Juno, quella mattina aveva una visita oculistica, per cui non potevo contare nemmeno sulla sua compagnia per il tragitto.
Dopo averle spiegato la situazione eravamo rimasti in silenzio per qualche secondo, mentre io prendevo un'aspirina dopo l'altra.
-Accidenti.- borbottò pensierosa, -Perché non salti la scuola per oggi?-
-Sei pazza? Mamma mi ucciderebbe. Non posso raccontarle della nostra dannata situazione 'magica'.- enfatizzai l'ultima parola mimando delle virgolette con le dita, -E di certo non posso dirle del sogno che ho fatto. Ci rimarrebbe troppo male al pensiero.- E a quel punto, baaam! Ecco che i miei occhi si velarono di una tristezza estrema.
Schifosa terapista, mi avevi rassicurato che sarei stato bene! Grazie psicologa infantile dei miei stivali.
-So come la pensi Dustan...- disse a voce bassa, guardando ogni tanto la porta per paura che potesse entrare qualcuno, -Pensi che sia tutta una stupidaggine e che dovremmo smetterla di preoccuparci di cose più grandi di noi, che dovremmo lasciar fare a qualcun altro. L'hai detto centinaia di volte, sia a me che a Noah. Non so se il sogno che hai fatto è collegato al corridoio... o ai morti, ma ormai ci siamo dentro e non possiamo evitare di affrontare quello che abbiamo davanti.- allungò le maniche del maglione per coprirsi le mani dal freddo mattutino e mi guardò, -Non c'è bisogno di scappare. Come abbiamo superato i nostri traumi da piccoli, ora supereremo questo ostacolo, con la sola differenza che siamo insieme.- aveva accompagnato l'ultima frase con un sorrisino timido che trasmise tranquillità. Mi stritolò un'altra volta tra le sue piccole braccia, come se fossi un gatto, e io, senza dire nulla, ricambiai il gesto d'affetto. Non solo per educazione, come alcune volte all'inizio della nostra convivenza per fare il contentino ai nostri genitori, l'abbracciai perché ero d'accordo con lei sull'affrontare le cose insieme. Non sarei scappato, non mi sarei mai sognato di scappare e lasciare mia sorella indietro, l'avrei protetta a qualsiasi costo e tenuta sempre vicino a me.

I have a nightmare (IN PAUSA)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora