Capitolo diciasette-Eroi p2

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Elena's pov
"Si chiama Ian", sussurrai, mentre riprendevo il cellulare dalle mani di Andy.
Eravamo in un fast food, poco lontano dalla suo posto di lavoro e dalla mia meta. Mi aveva generosamente offerto il pranzo, che io però non avevo quasi toccato. Continuavo a giocherellare con le patatine, muovendole con la piccola forchetta di plastica. La foto di Jasper mi aveva dato da pensare: lui e Ian bevevano insieme, sembravano quasi brindare a qualcosa. Non sapevo cosa credere. L'aveva avvelenato? O Ian aveva creduto ad una delle sue stupide farse e stava dalla sua parte? Cosa stava succedendo tra di loro? Dovevo sbrigarmi.
Andy mi scrutava con attenzione, mentre buttava giù il suo secondo caffè. Mi aveva fatto centinaia di domande, informandosi su quel che mi era successo in questi due anni. Voleva testare la mia forza di volontà, vedere quanto la mia nuova vita mi avesse ammorbidita. Ero parecchio cambiata, quello era evidente. Ma Jasper mi aveva portato via una delle poche cose care che avevo nella vita e l'avrebbe pagata. Il rancore e la rabbia che provavo per lui, per tutto quello che mi aveva fatto durante la mia adolescenza, era niente in confronto alla furia per aver coinvolto Ian in tutta quella faccenda.
"Brutta cosa l'amore", bofonchiò Andy, mentre lasciava qualche dollaro di mancia sul tavolo e si alzava. "Andiamo?", chiese frettoloso.
Lo seguii in silenzio dentro al negozio, senza capire le sue intenzioni almeno fino a quando non chiuse a chiave la porta principale, abbassando tutte le serrande. Sorrisi: aveva deciso di darmi fiducia. Si mosse svelto dietro il bancone e spinse una delle vetrine. Un fastidioso cigolio riempii tutto il negozio, fino a quando la vetrina non toccò il muro della stanza adiacente. Andy, con un cenno del capo, mi fece intendere di seguirlo. Mi guardai intorno circospetta, con la strana sensazione di essere spiata. Mi feci coraggio e varcai la soglia, restando letteralmente a bocca aperta. Alle pareti erano appese un centinaio di armi differenti, alcune completamente sconosciute ai miei occhi. Pistole dai calibri infiniti, strani aggeggi da guerra e altre microscopiche, quasi invisibili. Armi per cecchini, silenziatori, giubbotti antiproiettile, guaine per vecchie rivoltelle, custodie per proiettili dai calibri più leggeri fino ad arrivare ai più pesanti. Allungai una mano verso un fucile da caccia, ma Andy l'allontanò con un leggero schiaffo. Mi lanciò uno sguardo severo e si diresse nel fondo della sala. Sapevo dove voleva arrivare, infatti riconobbi il modello delle due pistole che posò sul tavolino davanti a noi.
"Beretta U22 Neos", disse con tono piatto. "Pratica, sicura, affidabile, precisa e, soprattutto, adatta a te".
Alzai un sopraciglio, notando l'aria di sufficienza con cui mi parlava:"Adatta ad una principiante, giusto?".
"E' quello che sei, Gilbert", affermò seccato, sembrava volesse stare ovunque ma non lì, non lì con me.
Sospirai sconfitta e gli chiesi delle munizioni in più. Lui mi diede il minimo indispensabile e, quando feci per porgergli i soldi, ritirò la mano. Senza guardarmi, andò ad aprire la porta sul retro e mi fece cenno di uscire. Lo guardai interrogativa, mentre avvolgevo una delle pistole in una giacca e la infilavo nello zaino, lasciando l'altra in macchina, nel cassetto sotto il cruscotto, insieme ad un biglietto. Se tutto fosse andato secondo i miei piani, il diretto interessato l'avrebbe trovato. Ne scrissi un secondo, con le indicazioni per trovare prima la macchina e poi la pistola, e lo infilai nella tasca posteriore dei jeans. Chiusi a chiave la macchina e mi diressi verso l'uscita del vicolo, salutando Andy con un gesto della mano.
Stavo per girare l'angolo, quando la sua voce mi chiamò. Mi voltai e lo vidi fissarmi con un'aria alquanto strana:"Gilbert... Fai attenzione!", disse, e sembrava sinceramente preoccupato. "Non voglio averti sulla coscienza". Detto questo, sparì nuovamente nella porta sul retro.
Restai a fissare il punto in cui era sparito, fino a quando non venni ridestata dalla suoneria del mio cellulare. Guardai il numero sul display alquanto perplessa: la signora Thincker.
"Mona?", domandai, una volta risposto ma non fu lei a parlarmi dall'altra parte della cornetta.
"Come hai potuto?!". Bonnie.
Mi paralizzai in mezzo alla strada, tanto da beccarmi diversi colpi di clacson dalla macchina che mi stava per investire. Perché diavolo Mona le aveva permesso di chiamarmi? E come diavolo ci erano arrivati da lei così in fretta? Avevo dato a Paul delle indicazioni praticamente impossibili da seguire.
La grida di Bonnie si fecero sempre più forti. Molti passanti mi guardarono come se fossi pazza e altrettanto pazza fosse la persona con cui stavo discutendo. Be' su quest'ultimo punto non avevano poi tanto torto.
"Dov'è Mona?", le chiesi, senza ascoltare una parola dei suoi vagheggiamenti.
Potei quasi vederla alzare gli occhi e le braccia al cielo:"Lei è dalla nostra parte. Ti stai cacciando in guaio più grande di te! Sei totalmente accecata dalla rabbia, ma ascoltami, Elena...".
Non la feci finire di parlare:"Non voglio sentire niente, Bonnie! Ho intenzione di seguire i miei piani, quindi tornate a casa... Vi prometto che Ian starà bene", dissi tutto d'un fiato, prima di chiudere definitivamente la chiamata ed ignorare le successive.
Mi mossi svelta per le stradine, ormai quasi buie, di Manhattan. Si erano fatte ormai le sette, quando arrivai a pochi isolati dalla mia meta. Sentii il cuore iniziare a battere all'impazzata e le mani iniziare a sudare. Non avevo la benché minima idea di quel che avrei fatto una volta arrivata a destinazione. Avrei agito d'impulso, proprio come il giorno della mia fuga. Non potevo fare altrimenti. Da che ero arrivata in città, avevo fatto in modo di tenere a distanza tutte le voci che mi dicevano che stavo facendo la cosa sbagliata, che c'erano altri migliaia di modi per portare in salvo Ian, e anche me stessa. Ma avevo deciso di metterle a tacere: in un modo o nell'altro, uno dei due si sarebbe fatto del male e non doveva essere di certo Ian.
A pochi metri dall'angolo che mi separava da quel dannatissimo palazzo, tirai fuori dallo zaino la pistola e la infilai nella tasca posteriore dei jeans, nascondendola sotto la felpa. Alzai lo sguardo dal marciapiede e, preso un grosso respiro, mi avviai. Conoscevo alla perfezione quei vicoli, da potermi orientare anche ad occhi chiusi. Ma non lo feci. Restai con la guardia alzata, pronta a scattare ad ogni minimo segnale di pericolo. Mi mossi svelta, cercando di non attirare l'attenzione. Cosa che non fu poi così difficile: i pochi che bazzicavano quella zona sapevano benissimo a chi appartenesse quel territorio e si tenevano cautamente alla larga. La fama di Jasper era più influente di quanto credessi. Lo temevano e anche io, più di quanto dessi a vedere. La paura strisciava lungo la mia spina dorsale, facendomi tremare le ginocchia ad ogni passo. Avevo le gambe molli e quasi crollai, quando mi trovai davanti a quella porta. Color rame, piuttosto scolorita, alquanto anonima per un passante qualsiasi, ma non per me. Ricordavo alla perfezione la telecamera che inquadrava tutto il portico d'ingresso, così mi appiattii contro il muro, in un punto in cui, sapevo, non arrivava il raggio rilevatore e presi in mano la pistola. Non ero una principiante come Andy credeva: Jasper si divertiva a mostrarmi come funzionavano le sue armi, ogni qualvolta mi chiamava nella sua stanza. Così non fu affatto complicato mettere fuori uso la telecamera con un sol colpo. Se non ci avevo perso la mano, dovevo essere anche in grado di aprire la porta senza problemi. E così fu, con una semplice penna feci scattare la serratura.
L'ingresso era libero, nessuno scagnozzo di Jasper. Il che, inizialmente, mi insospettii, poi realizzai che, se le cose non erano cambiate, il sabato Jasper non ammetteva clienti. Il primo piano fu facile da percorrere, non mi aspettava nessun incontro ravvicinato, così accelerai il passo ed arrivai alle scale antincendio in meno di tre minuti. Man mano che gli scalini diminuivano ed il piano superiore si avvicinava, il mio cuore prese a battere all'impazzata. Mi fermai qualche secondo per cercare di riprendere il fiato che, improvvisamente, era diventato corto. Le mani avevano iniziato a sudare e la pistola stava scivolando. Le passai sulla maglietta per asciugarle al meglio. Chiusi gli occhi e presi un bel respiro. Cercai di riportare alla mente il motivo per cui mi trovavo lì: Ian. Dovevo salvarlo. Portarlo via dall'orrenda situazione in cui l'avevo cacciato. La colpa era solo mia e io dovevo rimediare. Lanciai un'occhiata ai pochi scalini che mancavano e li percorsi a due a due.
Una volta davanti alla porta, la aprii lentamente, lasciando solo un piccolo spiraglio. L'andito, sul quale mi affacciavo, era vuoto. Camminai svelta, strisciando lungo il muro e lanciando continue occhiate alle mie spalle, per paura di un eventuale attacco. Ma quale attacco poi? Gli scagnozzi di Jasper sapevano chi ero ed ero più che certa che gli avrebbe fatti fuori, se mi avessero uccisa al suo posto. Sorrisi tra me e me e proseguii decisa e sicura per i corridoi, sapevo dove trovare Jasper verso quell'ora.
Stranamente, non incontrai nessuno. Quel palazzo non era mai stato così tranquillo. Di solito le ragazze girovagavano per le stanze, per andare a trovarsi e quelle chiamate da Jasper si dirigevano nella sua stanza. Probabilmente non avevo notato eventuali telecamere, quindi mi stavano aspettando. Perfetto, lavoro in meno. Tenni ben stretta la pistola nella mano destra, con l'indice pronto sul grilletto. Ero pur sempre un'infiltrata in un luogo in cui nessuno poteva entrare, se non sotto specifica richiesta.
Arrivata davanti alla porta, mi fermai per prendere il controllo di me. Dovevo mantenere i nervi saldi. Avrei rivisto il viso di quel bastardo dopo più di due anni. Dovevo cercare di rispettare i miei piani, non potevo ucciderlo altrimenti lui avrebbe fatto far fuori Ian. Non dovevo agire con impulsività. Infilai, così, la pistola nella borsa ed entrai in quello stramaledetto studio. Ad accogliermi trovai un Ian, voltato di spalle, che si reggeva alla sedia di fronte a lui e parlava furiosamente con Jasper. Quest'ultimo, che aveva visto la porta aprirsi, mi sorrideva, facendomi gelare il sangue nelle vene. Ancora non avevo idea con quale coraggio avrei attuato il mio piano.
"Gilbert..", mormorò, senza allontanare lo sguardo dal mio viso. Non si mosse, restò dietro la sua scrivania ad osservare la reazione di Ian che, pochi secondi dopo, si voltò. Alla vista dei suoi occhi rossi, lucidi e gonfi, qualcosa in me scattò. Persi tutta la freddezza che mi ero imposta e percorsi i pochi passi che ci separavano di corsa, lanciandogli le braccia al collo. Mi lasciai andare in quell'abbraccio, come se nessun altro fosse presente in quella stanza, come se l'uomo che mi aveva posseduta per tutti quegli anni non ci stesse osservando con disprezzo. Le braccia di Ian mi avvolsero e le sue mani si posarono sulla mia schiena, mentre io nascondevo il viso sulla sua spalla. Sentivo le lacrime iniziare a spingere, ma cercai di trattenermi. Non potevo abbandonarmi alle emozioni proprio in quel momento. Strinsi di più Ian tra le mia braccia, come se sperassi che con quel contatto i nostri corpi si volatilizzassero da quello studio e tornassero nel Campus, alla nostre normali vite. Ma così non fu. Un suo leggero gemito di dolore mi riportò alla realtà. Mi scostai e lo vidi portarsi una mano alla spalla. Lo guardai preoccupata.
"Cosa ti ha fatto?", gli chiesi ansiosa, senza osare lanciare neanche uno sguardo a Jasper.
"Niente, stai tranquilla", mormorò, scostandomi i capelli dal viso, sapevo che moriva dalla voglia di baciarmi, ma il nostro piccolo siparietto fu interrotto da un leggero e singolo applauso.
Contemporaneamente, ci voltammo verso Jasper che ci osservava con occhi carichi di odio.
"Che bel quadretto", disse sprezzante. Non era cambiato per niente: poco più alto di Ian, i capelli chiari sempre corti e ben pettinati, gli occhi gelidi come il ghiaccio e il sorriso macabro che mostrava quell'orrendo dente d'oro.
"Jasper...", dissi, quasi sputando quel nome.
Lui mi sorrise:"E' un piacere rivederti, Gilbert".
"Vorrei poter dire lo stesso", risposi, allargando un falso sorriso sul volto. La mano di Ian stringeva la mia, con l'intenzione di non lasciarla. Aveva paura, lo sentivo. Paura di perdermi di nuovo, ma dovevo lasciarlo andare, per il suo bene. Osservai le nostre dita intrecciate per qualche secondo, poi tornai con gli occhi su Jasper, che aveva intuito i miei pensieri. Aveva sempre saputo cosa mi passasse per la testa, tranne il giorno della sua fuga e quello doveva averlo fatto imbestialire. Ian era troppo stanco e provato da qualcosa che non conoscevo, per riuscire a mettere a fuoco la situazione. Sentivo che sapeva di essere al sicuro adesso, ma teneva sempre dentro un po' di timore. Timore di non vedermi più. Chiusi gli occhi e strinsi un'ultima volta la sua mano, talmente forte da farmi quasi male.
"Suppongo tu immagini quali siano le mie condizioni", dissi secca, tornando a Jasper.
Lui annuì, sempre col sorriso sulle labbra, il sorriso di chi si pregustava una vittoria fin troppo facile. Sentii la porta scricchiolare alle mie spalle, almeno due dei suoi dovevano essere in agguato. Con una mossa svelta, infilai il biglietto che tenevo nella tasca posteriore dei miei jeans, in quella di quelli di Ian. Lui non si accorse di nulla, ma Jasper probabilmente sì. Comunque mi lasciò fare, magari pensava a qualche smielato biglietto d'addio. Lentamente, poi, distesi le dita della mano che stringeva quella di Ian e le feci sgusciare fuori dalla sua presa. Lui mi guardò, disorientato e perplesso, mentre lasciavo andare a terra lo zaino. Il doppio fondo avrebbe nascosto la pistola agli occhi di Jasper e dei suoi segugi. Cercando di trattenere le lacrime, mi allontanai da Ian che, impotente, mi guardò affiancare Jasper, il quale non perse tempo a riappropriarsi di quel che era suo, avvolgendo le sue braccia intorno ai miei fianchi. Annusò i miei capelli, spostandosi poi lentamente verso il collo, dove vi posò le labbra.
"Mi sei mancata, Gilbert...", mormorò, sfoderando il tono seducente che era solito usare quando eravamo soli. Voleva distruggere Ian, spezzargli il cuore più di quanto non stessi facendo io. Strinsi i denti e cercai di ignorare il suo fiato caldo e impregnato dall'alcool. Ian ci osservava con la bocca semi spalancata, senza essere in grado di fare una mossa.
Decisi di essere io a parlare:"Vai via Ian", dissi, con un filo di voce. "Sapevi che doveva finire così".
Jasper, che era come se si fosse dimenticato della sua esistenza, alzò il viso dal mio corpo e fece un cenno in direzione della porta. In meno di un secondo, due uomini grandi come armadi si precipitarono nella stanza e prelevarono Ian con la forza. L'ultima cosa che vidi, prima che la porta si chiudesse davanti ai miei occhi, furono i suoi occhi gonfi di lacrime.
L'unica cosa che potevo sperare in quel momento era che capisse.

Ian's pov
Elena.
Era tornata. Era lì. Stava affrontando quel bastardo per me. Le immagini nella mia testa erano sconnesse e poco chiare, il dolore alla spalla era ancora quasi accecante, ma la visione di lei, che entrava in quella stanza e correva verso di me, mi aveva svegliato da qualsiasi torpore. Mi aveva abbracciato, le si leggeva negli occhi che moriva dalla voglia di baciarmi, aveva stretto la mia mano e poi... Poi si era allontanata. Mi aveva voltato le spalle e si era lasciata andare tra le braccia di Jasper. Ed io mi ritrovai disorientato, incapace di reagire, confuso, catapultato fuori da quella stanza, bendato e scaraventato in un auto che mi avrebbe portato lontano da quel luogo, per non ritrovarlo mai più. Sentivo i due grizzly che confabulavano tra loro sul ritorno di Elena, sul fatto che Jasper era stato troppo clemente con lei, che avrebbe dovuto farla fuori e me con lei. Cercai di ignorarli e di seguire il rumore degli pneumatici. Era ormai un quarto d'ora che eravamo in moto. Non avevo idea di dove mi avrebbero portato, ma l'unica cosa che volevo era tornare indietro. Tornare da Elena, portarla in salvo da quel pazzo. Ma non potevo, non potevo nulla in quel momento. La mia testa scoppiava e il fatto di essere lanciato fuori da una macchina in corsa non contribuì ad alleviarne il dolore. La mia faccia incontrò un muro, mentre la schiena colpì dolorosamente un palo della luce. Nei minuti successivi in cui cercai di riprendermi e di tirarmi a sedere, la macchina era sparita.
Quando ripresi coscienza di me, riuscii ad inquadrare il marciapiede sul quale mi trovato ed i palazzi di fronte. Un anonimo marciapiede, degli anonimi palazzi, in una New York più che sconosciuta.

Una rondine nella tempesta| IN REVISIONEDove le storie prendono vita. Scoprilo ora