Spesso accade che le persone ti chiedano come stai, fingendosi relativamente interessati al tuo stato d'animo, e tu sorridi, tiri più che puoi gli angoli della bocca, mostrando i tuoi denti bianchi e splendenti. Sorridi e menti. Menti spudoratamente, convinta che nessuno riesca a leggere veramente il tuo sguardo. E così avviene, sempre.. o quasi.
Io, nel corso degli anni, ero diventata bravissima a fingermi felice, coraggiosa.. Insomma, ero una campionessa a far credere di essere ciò che non ero. Sorridevo, ridevo, scherzavo, ma sentivo sempre gli occhi pungermi e le lacrime spingere sempre più forte. Avrei voluto gridare a tutti quelli intorno a me:"Guardatemi! Sono a pezzi!", ma sapevo che nessuno mi avrebbe mai aiutata. Nessuno, da quando ero scappata dalla mia realtà, aveva mai fatto caso a me. Ero diventata anonima. Non ero più la perla più preziosa del gruppo. Non ero più niente. Ma non agli occhi di tutti. Uno solo mi guardava con occhi diversi, solo lui sembrava capire cosa mi passava per la testa. E questo mi faceva paura. Sembrava poter riuscire ad avvicinarsi alla vera me anche da solo, senza bisogno che gli svelassi alcun segreto. Era un acuto osservatore lui. Restava in silenzio e mi guardava, anche dal fondo della sala mensa, proprio come in quel momento. Lo salutai con un sorriso, che lui ricambiò immediatamente, mentre servivo il caffè ad un paio di miei colleghi. Mi fermai a chiacchierare con loro, lanciando, ogni tanto, qualche occhiata alle loro spalle, per cercare di capire cosa stesse passando nella testa di Ian.
Era un giorno particolare quel venti gennaio. Una data ben impressa nella mia mente. Era l'anniversario della morte Lisa, nonché quello della mia fuga. Tra il caos che si era creato nel palazzo, nessuno si accorse di me. Era stato più facile del previsto, ma ne portavo ancora l'ansia addosso. Il rumore assordante delle sirene della polizia, l'alternarsi dei lampeggianti rossi e blu, il sudore che imperlava la mia fronte, nonostante la temperatura sottozero dell'inverno Newyorkese. Quello non era un giorno qualunque per me e avrei preferito stare da sola, piuttosto che fingere calma ed allegria.
Congedai i miei colleghi, non appena Caroline venne a darmi il cambio, con la scusa che avevo un po' di studio arretrato per il prossimo esame. Loro compresero e mi augurarono buona fortuna. Senza più guardare nel punto in cui era seduto Ian e salutando Caroline con un semplice gesto della mano, uscii dalla porta più vicina al bancone che portava direttamente all'esterno. Percorsi velocemente il prato che separava l'edificio della mensa dal dormitorio femminile e, finalmente, mi chiusi la porta della stanza alle spalle. Chiusi gli occhi e presi un grosso respiro, cacciando indietro le lacrime. Mi sedetti alla scrivania ed accesi svelta il portatile. Sapevo cosa cercare. Era quel sito a cui mi affidavo sempre, quello che trattava delle notizie che non dovevano trapelare. Quelle che non dovevano uscire dai sobborghi di Manhattan. Subito la pagina si aprì con le notizie che temevo: altre due ragazze scomparse. Una di loro la conoscevo: Sharon, diciassette anni. L'altra no, doveva essere nuova vista la giovane età: Crystal, dodici anni. C'era un video, allegato all'articolo. Lo aprii: riconobbi subito gli occhi verdi e lucenti di Jasmine, velati di lacrime ormai già versate. Mascherava la paura, si vedeva lontano un chilometro. Parlava svelta, con gli occhi che non incontravano mai la telecamera. Disse che era stata un'amara sorpresa, un ennesimo brutto incidente. Ma mentiva, lei sapeva cosa era successo. Glielo si leggeva in faccia. Erano state trovate troppo fuori città, per essere state uccise da chi le aveva pagate per le loro prestazioni. Erano state uccise dallo stesso uomo che dava loro vitto e alloggio, dallo stesso uomo che le sfruttava, dallo stesso uomo a cui io avevo dato piacere, prima di fuggire. Erano state uccise da quegli occhi gelidi. Avevano tentato di scappare e non ce l'avevano fatta.
Stavo per chiudere tutte le finestre e spegnere il computer, sentendomi miseramente colpevole, quando qualcosa nel video catturò la mia attenzione: Jasmine aveva alzato svelta il braccio, portandosi una mano dietro al collo, per grattarsi la nuca. Sgranai gli occhi e stoppai immediatamente il video. Allargai l'inquadratura sul suo polso e il mio cuore si fermò. Una scritta leggera e un po' tremante, fatta con la penna, che si sarebbe cancellata con un po' d'acqua:"Stai attenta Elena".
Rimasi paralizzata, con gli occhi fissi sullo schermo per non so quanto tempo. Il mio corpo tremava ed io non riuscivo a controllarlo. Sentivo la paura attanagliarmi lo stomaco. Non riuscivo a capire. Da cosa mi stava mettendo in guardia? Mi stavano forse cercando? Non poteva essere.. la mia pace si era già conclusa.
Con il briciolo di autocontrollo che mi era rimasto, controllai la data riportata nell'articolo. Era di due giorni prima. Sentii il respiro affaticarsi sempre di più e l'aria mancare. Lo stomaco si rivoltò per l'ennesima volta e, a quel punto, cedetti. Corsi in bagno e mi piegai sul water. Parte delle mie paure si riversarono lì, fino a quando qualcuno non bussò alla porta. Mi alzai dal pavimento, barcollante ed intontita, e mi avvicinai quel tanto che bastava per sentire la risposta al mio:"Chi è?".
"Ian", rispose la voce attutita dalle pareti.
"Entra", mormorai.
Lo salutai e gli sorrisi incerta, prima di socchiudere la porta del bagno e dare al mio viso una parvenza di tranquillità.
STAI LEGGENDO
Una rondine nella tempesta| IN REVISIONE
أدب الهواةUna delle migliori sensazioni al mondo è quando abbracci la persona che ami e lui ti ricambia stringendoti più forte.