Capitolo 2

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<<Celeste>> rispose stringendomi la mano.
"Celeste", pensai, "che nome splendido". Aveva un non so che di affascinante, artistico. Aveva 2 occhi sicuri, penetranti, coraggiosi. Era strano, era come se di colpo volessi conoscere tutto di lei. Mi ricordavo la sera prima, ma trovavo comunque assurdo che alle 4 di mattina quella ragazza fosse venuta in quella strada e mi avesse soccorso, era assurdo, e allo stesso tempo era un qualcosa di bellissimo. Mi faceva tenerezza perché aveva una coda un po' spelacchiata e 2 occhiaie profonde, probabilmente non aveva dormito per controllare che stessi bene. Avevo un mal di testa allucinante, mi ero ubriacato di brutto e mi sentivo la febbre a 40, avevo preso un freddo tremendo. Mi porse una tazza di tisana, anche se in quel momento avrei preferito un caffè e una sigaretta, anche se comunque per il mal di testa non sarebbe stato il caso. Mi guardò dolcemente, come se le facessi pena.
<<Senti>> mi disse, <<visto che anch'io sono di Somma Vesuviana ed è già un po' che non vado a trovare la mia famiglia, è un problema se ti accompagno a casa?>> chiese timidamente.
<<Ma no figurati anzi, mi fa piacere avere un po' di compagnia, non mi sento neanche tanto bene...>> dissi accasciandomi sul divano.
<<Eh immagino, avrai la febbre alta, ieri eri veramente in uno stato pessimo...>> disse mettendomi la sua mano fredda sulla fronte. Poco sopra le sopracciglia corrugate, aveva uno di quei gioiellini che hanno le ragazze indiane. Era bellissimo, e le stava anche bene.
<<Ehy, ha un significato quello?>> le chiesi indicandolo.
Rise, guardando il pavimento.
<<Vuol dire libertà>> rispose tornando a guardarmi negli occhi. Erano umidi, come se ci tenesse tantissimo a quell'argomento. Tornò con gli occhi bassi, sfregandosi le mani sulle gambe.
<<Ti lascio giusto 10 minuti per riposarti e mettere le scarpe, così prendiamo il primo autobus che passa ok? Aspettami>> disse correndo dall'altra parte della casa.
Mi alzai, misi le scarpe, e cominciai a guardarmi intorno. La testa mi girava, ma ero curioso, volevo conoscerla di più. Andai in cucina, e l'unica cosa che mi attirò furono le numerose calamite sul frigo. Ma non ci feci troppo caso, e proseguii. Passai davanti alla camera da letto, ma era chiusa e probabilmente si stava cambiando, non potevo di sicuro entrare. Andai fino al bagno, pieno di prodotti e trucchi, passai davanti a una porta-finestra che si apriva su un balconcino con la ringhiera piena di fiori, una sedia sdraio e un tavolino. Infine, di fianco alla porta finestra, un'altra porta. Poteva anche essere un altro bagno, pensai. Ma ero esageratamente curioso, così entrai. Rimasi senza parole. Era una stanza grandissima, con i muri bianchi ricoperti di fotografie e il pavimento di legno. Appoggiato a una parete c'era un grande armadio di legno chiaro, di fianco una sbarra di quelle che usano le ballerine di danza classica, e una pianola elettronica affiancata da una chitarra. Su un muro c'era scritta una frase, probabilmente fatta a mano con una bomboletta, multicolore, che diceva: "Quello che non ci aspettiamo è quello che cambia la nostra vita". La trovai una frase meravigliosa. C'era un cavalletto di legno con sopra una tela bianca e di fianco una tavolozza di colori e un pennello. Su una scrivania, uguale all'armadio, un album da disegno con uno schizzo sopra raffigurante un paesaggio al tramonto e un paio di pennarelli vicini. C'era anche una macchina fotografica piuttosto nuova, collegata ad un computer della Apple, e di fianco un quaderno per gli appunti e una penna. E infine, vicino alla scrivania, un manichino con solo un busto. Avrei voluto curiosare nel suo computer, sentivo che lì dentro c'era di tutto e di più, ma avevo poco tempo, mi avrebbe scoperto. Allora aprii l'armadio, in preda alla curiosità. Dentro c'era di tutto: abbigliamento da ballerine, accessori per capelli, bombolette spray, materiale da disegno, diversi obiettivi da macchina fotografica, copioni teatrali e materiale da cucito. Ero stupefatto, non potevo neanche immaginare che dietro a quella ragazza riservata ci potesse essere tutto questo. Era come essere in un mondo parallelo. Mi sentii chiamare dall'altra parte della casa.
<<Genn? Genn dove sei? Muoviti che perdiamo l'autobus!>>
Mi aveva chiamato Genn e amavo questa cosa, aveva subito capito che non volevo essere chiamato con il mio nome per intero. Tentai di uscire velocemente dalla stanza per non farmi beccare, ma non feci in tempo, mi raggiunse. Non disse niente, arrossì e basta. Io la guardai meravigliato. Si era cambiata in 5 minuti, con i capelli a posto, truccata per bene e vestita di tutto punto. Era un razzo. Ma non era tanto per la sua bellezza, ma per la meraviglia che possedeva dietro quegli occhi. Quella stanza raccontava tutto di lei, era il suo mondo, lei faceva tutto quello che c'era lì dentro.
<<Cosa vuol dire tutto questo?>> chiesi meravigliato, indicando quella stanza magica dietro di me.
Lei sembrò alterarsi un po', ma si vedeva che non era arrabbiata, piuttosto non sapeva bene cosa dire.
<<Non è il momento Genn, rischiamo di perdere il pullman!>> disse fintamente aggressiva, sorpassandomi ed entrando nella camera. Afferrò uno zaino dall'aria molto vintage e ci mise dentro un po' di tutto quello che avevo visto al suo interno. Dopodiché uscì di nuovo, afferrandomi per un braccio e trascinandomi per la casa nervosa. Entrò nella sua camera da letto. Ci sbirciai dentro. Una classica camera tumblr, molto carina e ordinata. Assomigliava un po' alla mia. Ne uscì con una semplice felpa grigia con il pelo. La guardai stranito.
<<Beh? Non penserai mica di uscire così, si gela fuori! Mettitela, e non fare storie>> disse autoritaria, porgendomi la felpa. Capii di non avere scelta, così la misi. In effetti, stavo gelando, e quella felpa era molto comoda, e forse quella meno femminile che aveva quindi mi era andata bene. Mi trascinò fino fuori dalla porta di corsa. Mi accorsi solo passando del grande pianoforte che occupava gran parte del salotto. Pensai che suonasse anche quello oltre la chitarra. La apprezzai ancora di più, era davvero una persona interessante. In autobus le avrai fatto l'interrogatorio. Si mise a correre giù per le scale, e io di seguito a lei, ma a stenti, era veloce la ragazza. Corremmo per le deserte vie di Napoli come pazzi, mentre il freddo sembrava levarci via la pelle. Arrivammo alla fermata dell'autobus appena in tempo e ci salimmo sopra. Con un gran fiatone scoppiammo a ridere tutti e 2 e non ci fermammo più. L'autista ci guardava infastidito, come se le risate di 2 giovani potevano solo fargli male. L'unica signora invece con noi nell'autobus sorrideva, compiaciuta. Una volta calmati, Celeste si accasciò sul sedile e chiuse gli occhi. La osservai, a lungo. Sembrava non se ne accorgesse della mia presenza. Era la prima volta che mi sentivo a mio agio con una persona appena conosciuta. Dopotutto, non sapevo nulla di lei. Ci conoscevamo da un paio d'ore e già mi stava simpatica. Sapevo che non stava dormendo. Stava solo cercando di evitarmi.
<<Ti chiedo scusa per prima, per essere entrato in quella stanza>>
<<Non importa>> mugugnò.
<<Cosa volevano dire tutte quelle cose? Cioè...>>
<<È il mio materiale da lavoro>>
Non capii.
<<Potresti spiegarti?>>
Sospirò, riaprì gli occhi e si sistemò meglio sul sedile, girandosi verso di me sorridendo sotto i baffi.
<<Io di lavoro sono un'artista. Tutte quelle cose che hai trovato nella camera, è il mio materiale, dalla danza alla moda, dalla musica alla scrittura. E tanto altro>> mi spiegò soddisfatta.
Ero senza parole. Pensavo fosse una studentessa come le altre, o piuttosto una cameriera, una commessa, una ragazza normale. E invece era un'artista. Non mi spiegavo come facesse a permettersi quell'appartamento facendo solo l'artista di strada.
<<Che c'è? Perché mi guardi così?>> mi chiese ridendo e arrossendo.
Dovevo avere una faccia tipo innamorata, tanta era la meraviglia che provavo per quella ragazza.
<<E tu? Che fai nella vita?>> chiese.
Mi sentivo in imbarazzo a rispondere. In confronto a lei, ero un fallito.
<<Ehm, ecco io... Sono un "cantante">> dissi, sottolineando con le dita le virgolette nella parola cantante. Lei sembrò illuminarsi di colpo. Probabilmente, visto lo stato in cui mi aveva trovato ieri, pensava che fossi un gran coglione e fallito.
<<Davvero? Anch'io canto! Spiegami esattamente cosa fai>> mi chiese, presa da un improvviso entusiasmo.
Sorrisi, compiaciuto.
<<Beh, ho un contratto discografico con una casa discografica di provincia, però non canto da solo, ho un gruppo con il mio migliore amico, Alessio, ci chiamiamo "Urban Strangers". Beh, stiamo lavorando ad un EP, e nel frattempo giriamo per i locali in cerca di soldi. Abito... Con i miei genitori, non ho abbastanza soldi per un appartamento. E... Risparmio insieme ad Alex per... Trasferirci a Londra, prima o poi>> spiegai, tutto d'un fiato. Per la prima volta sentivo le guance rosse di vergogna, e non capivo il perché. Quella ragazza mi metteva in soggezione. Era evidentemente rapita, con un sorriso demente sulla faccia.
<<Perché Urban Strangers?>> chiese.
Rimasi sorpreso dalla sua domanda. Non pensavo potesse chiedermi quello come prima domanda.
<<Io e Alex siamo molto diversi. Lui è Urban, è allegro, solare, fa casino, cerca sempre di divertirsi... Io invece sono Stranger, beh perché...>>
Mi bloccai. Non riuscivo a continuare. Ero totalmente in soggezione. Mi guardò comprensiva.
<<Ehy, tranquillo. Non sono qui per giudicarti. Tu sei tutto il contrario di lui vero?>>
Annuii appena. Di colpo mi sentivo così vuoto e solo.
Si ri-accasciò sul sedile, stavolta però guardava il soffitto. Stava pensando. Non riuscivo a guardare fuori dal finestrino come mio solito. I miei occhi ero inchiodati su di lei, e non riuscivano a staccarsi.
<<Perché eri lì ieri sera?>> chiese all'improvviso, senza staccare gli occhi dal soffitto.
Sentii la vista annebbiarsi di colpo. Levai gli occhi da lei e mi concentrai su un punto davanti a me, indefinito. Sentii i suoi occhi addosso. Dovevo rispondere, glielo dovevo.
<<Io ero fidanzato con una ragazza meravigliosa, credevo fosse l'amore della mia vita. Roberta, si chiamava. Ci amavamo alla follia. Esattamente un anno fa e un giorno, lei venne da me. Le dovevo parlare, volevo raccontarle del mio sogno di trasferirmi a Londra con Alex. Si arrabbiò così tanto che mi spaventai. Pensò che non me ne importasse di lei, che la volessi abbandonare. Piangeva, quanto piangeva. Scappò, prese la macchina e si allontanò da me. La chiamai 40 volte, a un certo punto mi rispose per insultarmi e...>>
Singhiozzai. Mi ripresi e continuai.
<<Sentii le sue urla. Le ruote che premevano sull'asfalto e i vetri che si rompevano, scontrandosi contro qualcosa di grosso. La chiamai, la chiamai tante volte, ma c'era il silenzio, un tombale silenzio. Presi la macchina, seguii le sue tracce con il gps fissato nel suo telefono. Proprio dove mi hai trovato, era morta la mia piccola. Tutto per colpa mia. La mia idiozia, la mia poca delicatezza nel spiegarle i miei pensieri... È morta per colpa mia, e io da quel momento non ho più vissuto davvero. Ieri sera, Alex, per cercare di non farmici pensare, mi ha portato a Napoli a suonare in un locale. Come è andata a finire, ero così a pezzi che ho cantato di merda e il proprietario non ha voluto pagarci. Allora ha chiamato alcuni amici che abbiamo a Napoli e mi ha portato in una discoteca. L'ho perso di vista, mi sono andato ad ubriacare di brutto e poi sono scappato, ho corso fino a dove se ne è andata per sempre. Nel tragitto ho perso la mia felpa, e il mio telefono si è spento. Poi non mi ricordo niente, solo te che mi salvavi...>> finii di raccontare. Dopo di che i miei occhi non ressero la forza delle lacrime e una scese. Sentii la sua mano tremante sulla mia guancia asciugarmi. Sembrava insicura, come se non lo avesse mai fatto. Più mi asciugava e più lacrime mi scendevano lungo le guance. Finii per piangere a dirotto. Istintivamente mi gettai sulla sua spalla e la abbracciai. Lei tremava, e insicura mi abbracciò delicatamente, per poi stringermi di più e sussurrarmi cose tenere per tranquillizzarmi. Finalmente arrivammo. Scendemmo dall'autobus accompagnati dal dolce sorriso di quella donna che ci sedeva vicino. Camminai con lei silenziosa al mio fianco fino a casa, titubante di cosa avrebbero detto i miei genitori.
Appena arrivato sotto la porta, mi sentii chiamare dalla finestra.
<<GENNARO! DOVE CAZZO ERI FINITO? VIENI SUBITO QUI, DOBBIAMO PARLARE!>> strillò mia madre, non curante di Celeste al mio fianco. Era evidentemente in imbarazzo.
<<Beh, io vado...>>
<<Aspetta! Ehm, senti... Mi daresti il tuo numero? Mi farebbe piacere rivederti, per andare a bere qualcosa magari...>> chiesi timido.
Mi fissò un attimo perplessa, poi sorrise.
<<Mi stai simpatico. Va bene, dammi il tuo che poi ti mando un messaggio>>
Le diedi il mio numero, se lo segnò e mi sorrise.
<<Beh, allora a presto e... Buona fortuna!>> rise, indicando la finestra.
<<Aspetta, e la felpa?>>
<<Tienila pure, me la darai quando ci rivediamo, ci conto eh. E riprenditi!>> mi disse, facendomi l'occhiolino.
Cominciò a camminare verso il semaforo, si bloccò di colpo, e corse indietro. Mi abbracciò di slancio. Rimasi pietrificato da questo suo gesto, ma mi ripresi subito e la strinsi forte. Si staccò, i nostri occhi chiari si incrociarono, mi sorrise e mi sussurrò:
<<Ciao>>, poi corse via.
"Che ragazza assurda", pensai.

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