Capitolo trentatrè

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GRACE'S POV

I giorni continuavano a trascorrere. La vita andava avanti e, come era sempre successo, lasciandomi indietro.

Subito dopo aver detto il mio segreto a Justin me ne pentii immediatamente. Avevo paura che mi lasciasse sola, ma, per fortuna, non lo fece.
Inizialmente ci fu un leggero imbarazzo tra noi. Lui cercava di capire più cose, ma dopo un po' capì chiaramente che non velevo parlarne.
Tutto tornò normale.

I giorni erano sempre gli stessi. Era cambiata solo una cosa. Io ero cambiata.

Vedevo la vita in modo diverso. Vedevo il mondo, le persone in modo diverso. Addirittura vedevo me stessa diversamente.

Facevo cose che per tutti possono sembrare banali, ma per me erano fottutamente fantastiche.

Ogni fine settimana, uscivo con Sara. A volte ero arrivata perfino ad uscire con altri suoi amici. Andavamo al cinema a vedere stupidissimi film per poi commentarlo in senso negativo. Facevamo shopping, anche se facevo ancora fatica ad accettarmi esteriormente e soprattutto faceva male vedere quelle cicartici sulle braccia che ormai non mi rappredentavano nemmeno più.
Uscivo soprattutto con Justin. Avevo ricominciato a mangiare come fa una persona normale. Avevo conosciuto la sua famiglia, la quale mi colpì subito in modo molto positivo.
Insomma, in poche parole, avevo incominciato di nuovo a vivere.

L'ultimo passo per essere definitivamente normale era uscire dall'ospedale.

Dopo tutti quegli anni passati lì dentro. Dopo tutte quelle lacrime quelle urla. Dopo tutti quegli anni fatti di psicologi, farmaci, infermiere. Dopo tutti quegli anno trascorsi a odiare se stessa per aver sprecato la parte migliore della mia vita. Dopo tutti quegli anni trascorsi a fissare un muro bianco. Forse, dopo tutti quegli anni ne sarei uscita.

Ripensai come era iniziato tutto questo. Come avevo fatto a cadere così tanto in basso. Come ero cambiata. Come erano tristi le mie giornate.

'"Tu sei Grace, giusto?" Mi domandò la donna dietro il bancone. Era parecchio sorridente.
Magari io avessi una ragione per sorridere.

I suoi occhiali erano talmente sulla punta del naso, che temevo le cadessero giù. Ero già pronta a prenderli nel caso le scivolassero.

"Si, sono io" risposi con voce tremante. Avevo paura. Avevo tanta paura.

Perché la mamma aveva accettato a portami qui? Perché non potevo stare a casa mia? Che avrebbero detto i miei compagni di classe? Mi avrebbero presa in giro. Più di quanto già lo facessero.

Facevano male, quegli insulti. Erano sempre gli stessi, ma ogni volta ferivano in modo diverso.

Volevo scappare. Scappare da tutto questo. Andarmene per sempre. Magari avrei potuto prendere un treno per qualche cittadina sconosciuta. Farmi una nuova vita. Lasciarsi alle spalle i problemi.

La voce acuta della donna mi risvegliò da un sonno di riflessioni e paure.
"Lei deve essere la madre" disse guardano mia mamma.
Annuì.

"Dovrebbe attendere qui cinque minuti, signora. Deve riempire dei moduli" continuava a guardare mia madre come con compassione. Come se volesse dire 'Mi dispiace signora. Sua figlia è pazza. Dovrà rimanere qui a vita. Si riempirà di pillole inutili, incontrerà psicologi che non la aiuteranno. Non mangerà più niente. Non vorrà più vedere nessuno. Piangerà, urlerà tutta la notte. Fino alla morte'.

Non volevo essere un peso, anche se sapevo di esserlo. L'unica soluzione era scomparire.

"Mentre tu tesoro, vieni con me" disse venendo accanto a me.

Angel Guardian; jdbDove le storie prendono vita. Scoprilo ora