Speranza

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Kurt e Blaine prendevano sempre tutto quanto molto seriamente.
Finn e Rachel questo lo sapevano, ma non potevano immaginare quanto gravi potessero diventare le loro paranoie, soprattutto se a causarle era una futura piccola Hummel-Anderson di cui si sapeva poco o niente, a malapena il periodo della sua nascita e le spese che avrebbero dovuto pagare per l'intervento: ai medici e ai legali non serviva altro, e nient'altro avevano detto ai due quasi neo-papà.
La madre biologica, Kate, era stata troppo indaffarata con terapie pre-natali e doglie improvvise per segnalare loro le sue condizioni psico-fisiche ogni ora e mezza, come prefissato dall'accordo. All'inizio i due si erano perfino preoccupati ed avevano fatto irruzione a casa sua per vedere come stava, ma se ne pentirono amaramente sentendosi dei veri complessati, dal momento che l'avevano trovata sdraiata sul divano con due chili di gelato -di quello Kurt le avrebbe parlato più tardi, tutti quei zuccheri potevano danneggiare l'equilibrio intestinale della bimba!- e in sottofondo una dolce melodia di Wicked, come concordato. Conveniva rassegnarsi: la loro già totalmente amata figliola non sarebbe nata a comando, e attendere il fatidico momento rosicandosi le unghie in estrema angoscia non avrebbe di certo aiutato. O almeno, questo era quello che avevano pensato Finn e Rachel, nel giorno in cui si erano decisi ad andarli a trovare per prelevarli fuori da quella che una volta poteva essere definita "casa": adesso assomigliava più ad un bunker antiatomico, con i tappeti arrotolati e messi da un lato, fasciatoi, pupazzi, trenini e dvd disney sparsi per tutta la casa, tavoli una volta bellissimi e splendenti ridotti a cumuli di scotch concentrato soprattutto sui bordi, assumendo così un aspetto somigliante ad un ovale sproporzionato; Kurt e Blaine avevano preso la cosa molto seriamente, come doveva essere; ma la linea di confine che divide il comportarsi da persona matura e responsabile dall'essere in piena crisi genitoriale è davvero molto, molto sottile. E loro l'avevano valicata completamente.
I due arrivati non erano stati minimamente degnati di uno sguardo dopo essere stati accolti nella casa con un cenno del capo di Kurt; molto silenziosamente, si sedettero sul divano di fronte a loro in perfetta contemplazione - o meglio, codifica dei loro comportamenti.
Perchè Kurt teneva in mano un libro enorme senza copertina, molto simile a quelli impilati uno sopra all'altro poco distante da lui? E perchè Blaine sembrava sudare freddo e fissare concentrato un punto indecifrato nel vuoto, come un adolescente che sta riflettendo ad una domanda nel giorno dei suoi esami di Stato?
"Allora, Blaine?" La voce di Kurt riecheggiò per tutta la camera -ora sonorizzata, essendo stata privata delle tende-.Quest'ultimo deglutì vistosamente, e alla fine, esclamò:
"Fattorie biologiche controllate, concimazione organica non chimica...e priva di ogni sorta di infestazione o batteri!"
"Bravo amore mio!" Cinguettò l'altro, sporgendosi verso di lui per dargli un caldo bacio.
Finn e Rachel si scambiarono un'occhiata, interdetti.Entrambi stavano pensando alla stessa domanda, ed entrambi avevano paura di farla ad alta voce.
"Ragazzi...che state facendo?"
"Ci prepariamo." Risposero in coro.
"Per cosa, esattamente?"
"Secondo voi? -stavolta era stato Kurt a parlare, voltandosi con uno scatto secco - Rose Maria Barbra Hummel-Anderson potrebbe nascere a momenti!"
Finn inarcò le sopracciglia, e Rachel lo squadrò.
"Ma non dovrebbe nascere tra tre settimane?"
"Barbra non può essere messo come terzo nome, come minimo dev'essere il primo!"
"Tre settimane, tre giorni...che differenza fa? Manca poco ormai. Coraggio Blaine, ritorniamo al nostro latte in polvere. In che modo va riscaldato?"
"Con un pentolino a ottanta gradi diluito pochissimo con acqua. E poi bisogna sempre provarlo sulla nostra pelle prima di darlo alla bambina."
Kurt sorrise, soddisfatto della preparazione del suo degno marito. I loro sguardi ammirati divennero ben presto scettici quando la voce squillante di Rachel ripiombò come un vulcano.
"Ok questo è troppo: Kurt, Blaine. Adesso noi quattro ce ne andremo al cinema. Non potete continuare a vegetare per le prossime tre settimane: la bambina non nascerà stasera!"
"Ma dobbiamo essere pronti!" Replicò il controtenore.
"Lo siete. Ok? E adesso per favore usciamo."
Blaine, di certo quello più calmo e riflessivo dei due, esitò per un momento: era da molto tempo che studiavano quei libri, tanto da conoscerli pagina per pagina; certo, anche lui era impaziente e voleva essere perfetto per quando sarebbe arrivata la bambina, ma l'ansia li stava logorando, e loro meritavano davvero un po' di svago. O come minimo, un po' di vita sociale.
Fu più difficile convincere Kurt di quest'ultima opinione, ma alla fine tutti e tre lo trascinarono fuori dalla casa ricattandolo con il suo nuovo cappotto di Armani.
New York era in fiore, o forse, era solo l'opinione dei due ragazzi che da troppo tempo non vedevano la luce del sole; eppure quella città sembrava brillare con tutti i suoi grattacieli, le persone sembravano più felici, il caffè più buono. Ben presto si lasciarono andare alla magnificenza di quella città che non poteva lasciare indifferenti e camminarono per la 14° Avenue accompagnati da vetrine di alta moda, per poi prendere un taxi e recarsi nel posto che tutti e quattro preferivano: Broadway.
Quel quartiere era...beh, era qualcosa di indescrivibile. Gli striscioni, i teatri, gli artisti che si esibivano per strada ballando in modo sensazionale o cantando come se volessero farsi sentire da tutta la Grande Mela: non esisteva qualcosa di più unico al mondo, e Kurt e Blaine si ritrovarono inaspettatamente a pensare a quanto fossero fortunati, con il loro amore, la loro casetta nel West Side, e la compagnia di due cari amici come Rachel e Finn.
E poi, ovviamente, c'era lei. La loro bambina.
"Ci credi?" Esordì il moro, stringendo un po' più fortemente la mano dell'altro. "Tra qualche settimana cammineremo per queste strade assieme ad un bel passeggino."
Kurt trattenne il fiato: quel piccolo sogno che aveva coltivato, sin dal primo momento che Blaine gli aveva chiesto di sposarlo proprio lì, sotto al manifesto di Wicked, stava pian piano diventando sempre più reale e lui faticava a tenere il passo.
"Con un vestitino di Baby Dior e una collanina di Gucci." Fece eco Kurt, con voce sognante. "Chissà da chi avrà preso?"
"Io spero da te. Spero che abbia preso i tuoi occhi, la tua bocca, il tuo naso e..."
"Blaine! -Esclamò l'altro, ridacchiando- E di te che rimarrebbe?"
"Oh, beh, niente. Ma io non sono bello quanto lo sei tu."
Il controtenore diede una piccola spintarella contro la sua spalla. "Smettila. E dal canto mio, spero che abbia preso i tuoi bellissimi occhioni nocciola."
Blaine sorrise, e così facendo quegli occhi tanto amati si illuminarono ancora di più: il chè era incredibile, visto che riuscivano a splendere come se fossero due stelle.
La verità era che, in qualsiasi modo fosse, quella bambina sarebbe stata l'essere più bello sulla faccia della terra; perchè era loro figlia. Ed era davvero loro, il frutto e la manifestazione del loro amore, fuso insieme, non avevano mai avuto dubbi a riguardo: il seme sarebbe stato l'unione dei loro due, perchè era quello che volevano. Perchè loro erano una cosa sola.
E quella notte, quando avevano fatto l'amore per dar concepimento alla loro figlia, era stata un'esperienza talmente bella che loro la ricordavano come la notte più romantica della loro vita. Non avevano smesso di abbracciarsi, di baciarsi, e la parte sessuale in fondo era stata soltanto un attimo immerso in tantissime ore di puro amore. Un attimo piccolo, effettivamente uguale a molti altri; un attimo, in cui venne infusa la magia della vita.
E la piccola Rose, o Maria, o Barbra, o Elphaba -quest'ultimo nome doveva ancora essere approvato da Blaine- quella notte aveva cominciato a farsi spazio in quel grande e magico mondo.
Kurt si era accorto soltanto dopo di essersi incantato nelle sue fantasie, senza dare una vera risposta a suo marito. Gli lasciò un soffuso bacio a fior di labbra, e gli sorrise nel modo più dolce, gentile, innamorato ed entusiasta possibile. E Blaine, lui si crogiolò nella sua espressione come se fosse la dichiarazione d'amore più bella che avesse mai sentito.
"Sono contento di essere uscito", ammise.
"Lo sono anche io. Anche se dobbiamo continuare a studiare per bene tutti gli effetti del latte in polvere."
Finn e Rachel, a qualche metro di distanza, scoppiarono leggermente a ridere; non avevano mai visto Kurt così agitato, tantomeno Blaine: eppure, quell'ansia così bella li faceva emozionare.
Kurt e Blaine, sposati, con una figlia in arrivo.
Se glielo avessero detto ai tempi del liceo, probabilmente l'avrebbero preso come un grande scherzo.
Eppure, eccoli lì. Mano nella mano, fieri l'uno del proprio partner, con un sorriso tremolante che da otto mesi a quella parte non accennava a scomparire. Finn e Rachel, a qualche metro di distanza, li seguivano felici, e per un momento provarono un piccolo moto d'invidia: in effetti Rachel, ultimamente, aveva sfogliato con un certo interesse le riviste di Kurt e Blaine, cercando di non farsi vedere da Finn. Ma quest'ultimo, col tempo, aveva imparato ad essere più attento, in particolar modo ai movimenti della donna che amava.
E anche lui, di tanto in tanto, poteva aver sgraffignato qualche rivista del fratellastro, strappando perfino qualche pagina che riteneva importante.
"Un giorno ci arriveremo anche noi." Buttò lì, senza neanche pensarci più di tanto.
La ragazza si fermò di scatto nel bel mezzo del marciapiede, gli occhi puntati sul fidanzato, le mani che erano diventate improvvisamente di ghiaccio.
Finn si voltò, e con un'innocenza incredibile, le tese la mano.
"Vuoi?"
Le lacrime avevano già cominciato a rigarle il viso ancor prima di dire la risposta.
"Sì Finn. Ovvio che sì."
Si baciarono. Proprio come quella volta alle Nazionali. Proprio come quella prima volta dentro la loro nuova casa di New York. Proprio come avrebbero fatto per il resto della loro vita.


Alla fine, i quattro decisero di andare al cinema.
Con tutti quegli spettacoli teatrali si erano quasi dimenticati della sensazione della poltrona, del megaschermo e dei pop-corn rigorosamente senza burro - Kurt non voleva che la prima cosa che vedesse sua figlia fossero due genitori grassi e brufolosi-.
C'era un film carino in programmazione, di quelli non troppo complicati che avevano il solo scopo di svagare e far ridere: giusto quello che ci voleva per loro, insomma.
Ovviamente, essendo in una sala altamente insonorizzata, i cellulari cominciarono a perdere campo, finchè non venne eliminato del tutto una volta arrivati nella stanza sotterranea.
"Ecco New York: zone a decine di metri sotto terra, e neanche una tacca sul cellulare."
"Andiamo Blaine, non ci pensare. -Lo invitò Finn- Insomma, due ore senza telefono non è di certo la fine del mondo."
Il ragazzo abbozzò un sorriso: "Hai ragione. Questa giornata è solo per noi." E così dicendo strinse a sè Kurt, che in risposta assunse uno sguardo raggiante.
Dopo tutto quel tempo, quelle cose non erano cambiate di una virgola: sembravano lo stesso quartetto di adolescenti che si infilava in un cinema di Lima per sfuggire al bullismo o allo stress del Glee Club.
Erano passati tanti anni. Kurt non aveva più subito maltrattamenti, Blaine non era più insicuro e assieme a lui aveva imparato a conosere e difendersi dal mondo; Finn ormai era diventato un uomo maturo e responsabile e Rachel stava per debuttare in un grande teatro di Broadway, come aveva sempre sognato.
In effetti, tutto quello sembrava un sogno.
E mentre scorrevano i titoli di coda di un film di cui ricordava poco o niente, Kurt pensò che niente, assolutamente niente sarebbe stato capace di smuoverlo in quel momento, non ora che era circondato dall'amore di suo marito e dall'affetto di quelli che ormai erano diventati fratelli e compagni di vita.
Cullati dalla musica di sottofondo, le due coppie si scambiarono un tiepido abbraccio: Blaine cinse le spalle di Kurt, baciandogli candidamente la fronte adulta, e Rachel si accoccolò a Finn canticchiando il motivetto della canzone.
"Rachel? Finn?"
I due si voltarono, richiamati dalla voce calda e sicura di Blaine.
"Grazie per averci tirato fuori di casa, oggi. Ci serviva proprio."
"Visto?" Canzonò la ragazza, "Sono le nove di sera, la giornata è quasi finita e il mondo non ci è crollato addosso!"
Ma, forse, aveva cantato vittoria troppo presto.
Il cellulare di Blaine si rianimò con uno squillo, al quale susseguirono diversi suoni allarmati e piuttosto inquietanti. Fissò lo schermo, e corrugò la fronte con aria perplessa.
"Ho dieci messaggi in segreteria."
"Dieci?" Ripetè Kurt, allibito, avvicinandosi quanto bastava per udire la voce del messaggio dal cellulare del marito.
Primo messaggio: "Blaine? Sono...Sono Kate. Ho provato a chiamarti ma il tuo cellulare sembra irraggiungibile...in ogni caso, volevo soltanto avvisarvi di una piccola cosa. Chiamatemi quando potete."
Secondo: "Blaine? Sono di nuovo Kate, potresti chiamarmi? Grazie."
Terzo: "E' successsa una piccola cosa di cui volevo informarvi. Niente di grave, è solo che ne volevo parlare con voi. Chiamatemi."
E così via, di volta in volta i messaggi erano sempre più corti, più taglienti, e quando Blaine premette il numero per ascoltare l'ultimo messaggio, lanciò un'occhiata a Kurt e questo gli afferrò la mano con aria tutta tremante.
"Sto andando in ospedale. Il dottore è venuto a visitarmi, e mi ha detto di fare qualche controllo. Non sembrava preoccupato, ma in volto ha un'espressione che non riesco a decifrare...sono al Seattle Hospital, quando potete, raggiungetemi."
Ok.
Cosa avevano detto, prima Finn, e poi Rachel?
Perchè due ore senza telefono avevano fatto sì che il mondo crollasse esattamente addosso alle loro teste.

A Blaine non piacevano gli ospedali; per troppo tempo era stato in una di quelle fredde stanze cercando di curarsi le ferite, e non soltanto quelle superficiali causate dalle botte dei bulli; a Kurt, invece, riaffioravano alla memoria ricordi ancora più tristi legati alla morte di sua madre o al coma di suo padre.
Entrambi, allora, varcarono la soglia di quell'edificio con passo tremante e le lacrime agli occhi.
"Stiamo cercando Kate" disse in fretta Finn, dal momento che nessuno -nemmeno Rachel - aveva la forza per parlare. "Kate Hobbes, si trova qui?"
L'infermiera controllò per un momento il registro sul suo computer degli anni '90.
"Sì. E' entrata in sala operatoria qualche minuto fa."
Ed ecco che, con la velocità di un lampo e la crudeltà di una pugnalata, i cuori dei due ragazzi si spezzarono amaramente.
"Cosa vuol dire sala operatoria!? -Continuò Finn- Che è successo?"
"Mi dispiace, sono informazioni riservate e posso dirle soltanto a parenti della donna, oppu-"
"Lo dica a noi." Blaine fece un passo avanti, il tono fermo, il viso incolore. Dietro di lui, Kurt aveva già iniziato a piangere sommessamente.
La segretaria li fissò confusa: "Chi dei due è il padre del bambino?"
Blaine rispose senza alcuna espressione: "Lo siamo entrambi."
"Questo non può essere."
"Sì invece, lo siamo entrambi. E adesso, la prego, ci dica che è successo a Kate e nostra figlia."

Il dottor Sage era un bravo medico. Uno di quelli dall'aspetto indecifrabile, ma che riserbano sempre una parola di conforto per i pazienti. Blaine e Kurt si fidavano ciecamente di lui, dal momento che aveva seguito Kate e la bambina sin dalla prima, tenera, dolce, splendida ecografia.
Sapevano che, se c'era qualche problema, lui avrebbe avuto modo di dirglielo senza prenderli in giro.
"La situazione non è facile." Disse subito. I suoi picccoli occhialini di acciaio vennero strofinati con delicatezza contro il camice pulito ed immacolato. "Kate ha cominciato ad avvertire delle fitte addominali ad intervalli regolari, ed ha attivato un'ipertensione respiratoria."
Kurt fece una piccola smorfia. "Troppe parole da dottore." Sussurrò.
"Chiedo scusa." Fece il medico, abbassando appena lo sguardo dai suoi interlocutori. Era un mestiere difficile il suo, Kurt e Blaine lo sapevano bene. Come sapevano anche che, quando un discorso iniziava in quel modo, non presupponeva esiti positivi.
"La placenta di Kate...ha subito dei danni, e siamo stati costretti ad intervenire per salvaguardare la sua salute. Non è un intervento rischioso, in riferimento alla madre..."
Esitò un secondo, prima di continuare quella frase che ormai era ovvia.
"Ma la bambina nascerebbe in modo prematuro, e subirebbe un intervento piuttosto invasivo. Se sopravvive all'operazione, sarà tenuta nell'incubatrice per un paio di settimane."
La mente dei due ragazzi era offuscata da due, piccole, fatali parole.
Se sopravvive.
Era un'ipotesi. Era un rischio. Era un qualcosa, che avrebbe potuto determinare la fine di tutto.
No, non era semplicemente un qualcosa. Era tutto. Significava tutto. E conduceva al niente.


Burt Hummel e Susanne Cooper furono i primi ad arrivare.
Kurt e Blaine non volevano nessun altro, perchè nessun altro sarebbe stato in grado di capire.
E vedendoli lì, in piedi, con gli occhi velati da una grandissima tristezza e le mani strette a pugno, fu come se fossero tornati ad essere ragazzini, e l'unica cosa in grado di donar loro sollievo erano le braccia del proprio genitore.
"Devi essere forte." Sussurrò Susanne a Blaine, accarezzandogli dolcemente una guancia rigata dalle lacrime. "Devi essere forte, per tua figlia e per Kurt. Non lasciarti abbattere."
Kurt fissò suo padre. Lo fissò inerme, con la dolcezza di un bambino.
"Ho paura."
"Lo so."
"Papà?"
"Dimmi, Kurt."
"La morte mi sta perseguitando?"
Il cuore del povero uomo si fece improvvisamente piccolo ed inerme.
"Vieni qui."
Affondò completamente nell'abbraccio del padre, e scoppiò a piangere senza nemmeno aver la forza di impedirlo. Dopotutto, perchè non doveva piangere? Perchè non poteva disperarsi, urlare, dilaniarsi l'anima per via di un mondo terribile ed un destino crudele?
Era stato tutto un sogno. Un bellissimo sogno, finchè era durato, e che ora si era trasformato in un incubo.
Burt comprendeva bene il dolore di suo figlio: l'aveva provato.
"Sai cosa direbbe tua madre adesso?"
Il ragazzo alzò appena lo sguardo, arrossato e distrutto.
"No." Rispose, semplice.
Sul volto del padre si dipinse un piccolo sorriso.
"Non devi mai smettere di sperare."


Era difficile attendere.
Blaine cercava di essere forte, perchè Kurt ormai non riusciva più a trattenere le lacrime e si era addossato a lui affondando il viso nell'incavo del suo collo. Blaine cercava di non pensare al peggio, perchè altrimenti non avrebbe avuto la forza di respirare.
Il mondo, per quei otto significanti mesi, era stato troppo benevolo con loro: non potevano semplicemente avere un figlio, non potevano essere una famiglia normale. Non avevano mai avuto una vita come tutte le altre, e il destino glielo aveva dimostrato ancora una volta.
E quindi, era quello il risultato a sfidare ciò che alcuni chiamano Natura?
Era quella la loro condanna?
"Blaine..."singhiozzò Kurt, e questi si strinse a lui sopprimendo un sospiro spezzato.
"Ti amo."
Si guardarono negli occhi, e si abbracciarono come se da quel gesto dipendesse tutta la loro salvezza.
"Ti amo. Ti amerò sempre Blaine, qualunque cosa succeda."
"Qualunque cosa succeda." Ripetè.
Perchè ci sono dei momenti in cui tutto ti sembra perduto; perchè ci sono dei momenti in cui l'unica cosa che puoi fare è aggrapparti alla speranza; perchè ci sono dei momenti in cui soltanto l'amore è in grado di andare avanti; perchè ci sono dei momenti in cui non si può tornare indietro.
Ma quel momento, per loro, non era ancora arrivato.


"Vostra figlia è viva."
Non avevano mai sentito delle parole così belle.
"Pesa un chilo e due, e strilla come una matta. E' scossa dall'intervento e sarà ricoverata per un paio di settimane, ma è molto forte. Starà bene."
Starà bene.
Un dottore non parla mai a sproposito: non assicura cose di cui non ha la certezza.
E adesso i due ragazzi quasi non riuscivano a credere alle loro orecchie mentre il medico, con modi lenti e calcolati, li condusse in reparto neo-natale indicandogli una piccola culla contornata da un fiocchetto rosa.
E sul loro mondo aveva ricominciato a splendere una tenue luce, come un'alba.
Finalmente, si lasciarono andare a delle lacrime e si abbracciarono mossi dalla più semplice e totale felicità.
La piccola Hummel-Anderson se ne stava lì, sdraiata su se stessa, gli occhietti chiusi e le manine che si muovevano come alla ricerca di qualcosa, di qualcuno.
Attraverso un'imbracatura fu permesso ai padri di toccarla; e fu allora che sentirono la pelle morbida e fresca della bambina, le dita che si attorcigliarono ai due indici -uno di Kurt, l'altro di Blaine-, il rantolo appena accennato dalla boccuccia secca e priva di denti; fu allora che capirono, che quella era la loro piccola, splendida bambina; che avrebbe dovuto lottare sin dalla nascita, per sopravvivere in quel modo tanto difficile. Che per un periodo che era sembrata una tragica eternità aveva rischiato di non vedere mai i volti commossi dei suoi padri, il sorriso dei nonni, le carezze di Finn e Rachel, degli zii che non erano dei veri parenti, ma che avevano tutto l'affetto necessario per esserlo. E sì, sarebbe stata dura, sia per lei, che per i due papà. Nessuno aveva detto il contrario.
Ma sarebbe stato anche bellissimo.
Sarebbe stato perfetto. Perchè avevano una rinnovata speranza.
Portava il nome di Elizabeth Hummel-Anderson.

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