Senza parole

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Ho guardato dentro una bugia
E ho capito che è una malattia
Che alla fine non si può guarire mai
E ho cercato di convincermi
Che tu non ce l'hai
E ho guardato dentro casa tua
E ho capito che era una follia
Avere pensato che fossi soltanto mia
E ho cercato di dimenticare
Di non guardare
E ho guardato la televisione
E mi è venuta come l'impressione
Che mi stessero rubando il tempo e che tu
Che tu mi rubi l'amore
Ma poi ho camminato tanto e fuori c'era un gran rumore
che non ho più pensato a tutte queste cose
E ho guardato dentro un'emozione e ci ho visto dentro tanto amore che ho capito perché non si comanda al cuore
E va bene così
Senza parole
E va bene così
Senza parole
E va bene così
E guardando la televisione
Mi è venuta come l'impressione
Che mi stessero rubando il tempo e che tu
Che tu mi rubi l'amore
Ma poi ho camminato tanto e fuori
C'era un grande sole
Che non ho più pensato a tutte queste cose
E va bene così
Senza parole
E va bene così
Senza parole
E va bene così
Senza parole
E va bene così
Senza parole
E va bene così
Senza parole

Cantava Vasco Rossi dallo stereo acceso della sua Mini color puffo sfrecciante sotto un cielo tutt'altro che terso.
Un cartello ad indicare i limiti di velocità mentre dentro me correva il cuore spaesato sul da farsi.
Ignazio guidava ed io ascoltavo attenta alzando il volume alle stelle.
Mai coincidenza più azzeccata.
Mai parole più vere.
Mai colonna sonora di un breve periodo più adatta senza il bisogno di sceglierla.
Io ero entrata fin dentro casa sua, nei suoi angoli più nascosti e puntigliosi, ma era stata una follia credere che fosse stato solo mio.
Avevo cercato di non guardare e avevo chiuso gli occhi di fronte a silenzi inappropriati e volontari.
Avevo avuto davvero l'impressione che lui mi avesse rubato l'amore e quel mio tempo, che valeva più di un fiore, più di una parola e più di stupidi regali.
E avevo fatto in modo che andasse bene così.
Fino a quel momento avevo accettato tutto senza fiatare.
Senza parole, perché essere innamorati può diventare un problema, una malattia da dipendenza.
Si perdona l'imperdonabile.
Si accetta l'inacettabile.
Si acconsente all'inamissibile.
Si tollera l'intollerabile.
Quella persona diventa la tua esigenza più assurda.
Anteponi lui a te stessa.
È il tuo primo ed ultimo pensiero e senza chiederti il permesso, ha già affittato i locali della tua mente.
Senti una canzone e pensi a lui.
Guardi qualcuno per strada e cerchi le sue somiglianze, i suoi gesti, i suoi tratti.
Annusi i tuoi vestiti e vorresti trovarci i residui del suo profumo.
Ancora assonnata allunghi la mano sul materasso e vorresti toccare la sua presenza.

Era ancora il giorno del mio compleanno quando Senza Parole echeggiava nel nostro silenzio.
18 dicembre.
Nel tardo pomeriggio ma era venuto.
Me lo aveva promesso e lo aveva fatto.
Due mesi e quindici giorni da quella data scritta sulla fototessera in cabina.
Due mesi e quindici giorni di una nuova vita, che si faceva già vecchia, ed era ancora da inventare e mettere in piedi in quel suo costante barcollare.
Più di un mese dalla prima notte insieme.
Quaranta giorni frenetici e caldi nonostante tutto il freddo.
E in quaranta giorni, dopo treni presi, aerei decollati e fermate di una metropolitana, avevo fatto più viaggi di quelli affrontati in vent'anni della mia vita.
In quaranta giorni non avevo mai fatto così tante volte l'amore e non mi erano mai parsi così brevi e intensi i minuti.

Eravamo su un tratto di via a pochi metri dall'autostrada che portava a Salerno.
Dovevamo vedere le luci d'artista allestite fra i vicoli della bella provincia campana in onore del Natale.
Quell'anno fra le tipiche e tradizionali costellazioni, aurore boreali, pianeti e fiori ecologici, ad animare le strade in festa, anche delle luminarie a forma di segni zodiacali.
Doveva essere il mio regalo simbolico andare lì insieme, il più bello e vero fra i suoi più sfarzosi, ma ero giunta alla conclusione che tutto ciò non avesse più il minimo senso.
Era una sorta di forzatura che avevo deciso di sganciare.
È stato in quel preciso istante che io ho capito, ho preso coscienza che allontanarmi era il mio male minore, il mio regalo migliore.
È stato allora che ho guardato fuori dal finestrino e non ho pensato più a nient'altro, se non a riprendermi la mia dignità e anche quel poco di orgoglio.
La canzone finiva, la voce del radiofonico risuonava inappropriata, ed io con tutta la calma del mondo, spegnevo lo stereo.
Adesso immaginate la musica che svanisce, il rumore delle ruote in sottofondo e noi soltanto.

La Storia In Una Fotografia (#Wattys2016)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora