Perché non rispondi al telefono?
È vero che sei a Napoli? Marco chiede di te
Tua madre ha pianto tutta la notte mentre tu chissà cosa combinavi
Se non torni subito a casa vengo a cercarti
Ti metterai nei guai da sola
Cosa non ti piaceva qui a Frosinone?
Da sola non andrai mai da nessuna parte
Che prospettiva di vita credi di trovare facendo così?
Qui posso darti tutto
Marta anche se sei maggiorenne e vaccinata non hai il diritto di sparire improvvisamente, parliamone prima!
Sei la mia unica figlia e non posso permettere che ti rovini così
Questi erano i messaggi di mio padre.
Perché mai avrei dovuto rispondergli?
Lui non capiva. Voleva vedere le cose a modo suo.
Il mio comportamento secondo lui era solo un capriccio da figlia viziata, e non un problema esistenziale.
Lui non capiva che io da sola stavo finalmente respirando, perché il suo fiato perenne sul collo, mi intrappolava in una rete che non faceva per me.
Lui voleva tenermi in gabbia, ma io volevo volare.
Lui da uomo ricco e imprenditore voleva vedermi andare all'Università, approfondire fino allo sfinimento gli studi, voleva vedermi andare all'altare con Marco, fare la moglie perfetta, prendere lavoro come contabile nei suoi uffici e voleva diventare nonno di un bambino dalle immense possibilità.
Contava ciò che voleva lui.
Contavano i suoi ideali, i suoi progetti, i suoi disegni perfetti, i suoi modi di guidarmi con le sue mani sotto fili intransigenti.
Ma a me, il suo mondo stava stretto.
I suoi vestiti cuciti su misura per me, si strappavano appena cercavo di entrarci.
Le strade che sgombrava per me avevano troppi cartelli, troppi limiti entro cui stare, e le mie manovre erano fatte per un'autostrada senza transenne e senza divieti di sosta.
Io ho sempre provato ad adattarmi ai suoi disegni.
Io ho sempre provato ad incastrarmi ai suoi progetti abbozzati su carta dorata.
Io ho sempre cercato di adeguarmi, di coordinarmi su punti che non avevo tracciato io.
Non ci sono riuscita più.
Sono esplosa.
È stato forse questo a farmi fuggire via.
Il problema era il nostro stesso difetto: la testardaggine.
Lo amavo mio padre e lui amava troppo me.
Io ero la sua principessa, il suo tesoro, la sua bambina, ma certe volte lo odiavo.
Noi così identici nel riflesso di uno specchio, eppure, così distanti e così diversi dentro.
Noi dagli stessi occhi verdi, eppure, io vedevo tutto anche dove non c'era niente, mentre lui si limitava nei suoi spazi.
Io con i miei sogni da giramondo pur sempre modesti.
Lui con i suoi ritmi scanditi da appuntamenti, segretarie e pc.
Io dietro ad un IPod e senza meta.
Lui dietro una scrivania con un nuovo contratto in cartella.
Per lui la vita era un agenda col calendario.
Tutto un programma, tutto sotto controllo e gli imprevisti lo spaventavano perché gli sfuggivano di mano.
Io ero il suo imprevisto.
Io gli sfuggivo sempre in qualche modo.
Io chiedevo solo che strappasse i miei fili dalle sue mani.
Io chiedevo di non guidarmi più.Così era trascorso un mese.
Camminavo dimenticando quello che lasciavo dietro.
Mi fermavo sognando quello che volevo avere davanti.
Il lavoro al bar della stazione era mio definitivamente e avevo trovato anche una piccola stanza da Gennaro con un affitto bassissimo.
La casa aveva cinque stanze piccole, un solo bagno, un soggiorno con angolo cottura e la dividevamo in cinque.
Gennaro, suo fratello Antonio che non c'era mai e due studentesse di scienze umane iscritte all'Università di Suor Orsola Benincasa: Monica e Anna.
Eravamo diventati amici tutti, ma Gennaro sicuramente era quello più affine a me, forse perché ci parlavo di più e ci lavoravo insieme.
Era simpatico e sempre disponibile.
Mi trovavo bene insomma.
Non avevo intenzione di restare lì per sempre, ma nel frattempo mi divertivo.
Io mi godevo Napoli e non leggevo più quei messaggi.
Tutti avevano cercato di parlare con me, persino Marco, che continuava a fare il disperato, ma io raccontavo solo a Giorgia come stavano proseguendo le cose.
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La Storia In Una Fotografia (#Wattys2016)
FanfictionSono solo gli occhi di Marta, che in una consolle ritrova una di quelle fotografie che si fanno nei photomaton. È un pezzo di carta che fa balugginare nella mente immagini e momenti mai sopiti. È il caso di uno scatto inaspettato fatto dodici anni p...