Ancora tu

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(Ragazze vi chiedo fortemente scusa per i ritardi con cui sto postando questa storia e per quelli che ci saranno ancora. È un periodo molto impegnativo e spero possiate capirmi, perdonarmi e soprattutto spero di non deludervi troppo.
Detto questo, vi lascio alla lettura, avvisandovi che fra questo capitolo e il prossimo, assisterete ad enormi cambiamenti nella vita di entrambi i protagonisti.
Un bacio)

Quattro anni dopo. Estate 2020 Roma....ore 22:00

"Su su bambolina, forza con quei capelli che fra due minuti ti voglio sul palco!" ripeteva per l'ennesima volta Gennaro battendo le nocche tese sul legno della porta.
"Arrivooo"
Un'altra sera.
Un'altra canzone e la mia solita chitarra.
Il solito locale da già un anno oramai: Il Playguitars.
Un'altra volta io che facevo, rifacevo e poi disfavo uno chignon, ma alla fine li lasciavo sciolti quei miei lunghi capelli ondulati, naturali come mi erano sempre piaciuti.
Ed in fondo era proprio il mio essere naturale a farmi apprezzare.
E adesso, se mi guardavo allo specchio, fisicamente mi sembravo un'altra un po più donna, ma negli occhi mi tradiva sempre quella luce con un'immancabile espressione distratta e da bambina.
Perché in fondo io ero semplicemente Marta, e Marta, senza movenze sbarazzine non poteva esistere.
Ora il taglio era più scalato, una frangia lunga ad infastidire le ciglia, il colore più chiaro di una tinta color rame che si abbinava bene alle mie iridi verdi.
Un fiore rosa fra i capelli a darmi l'aria quasi hippy e un rossetto rosso fuoco sulle labbra a truccarmi di sicurezza, quella che non avevo.
Ed ero sempre io.
Più io che mai, perché avevo finalmente trovato quel posticino nel mio mondo.
Ero caduta.
Mi ero ritrovata in un posto fuori dai miei binari e poi, come un inevitabile percorso ciclico, attraverso lente tappe e guerre con me stessa, ero ritornata sul mio gradino più alto.
Ero stata la colla dei miei cocci rotti e il contenitore di impulsi esorbitanti.

Comunque avete capito bene.
Gennaro.
È che gli addii non esistono in fondo e non sono mai certezze firmate.
Sono solo false convinzioni.
Sono prospettive così perfette e definitive che diventano surreali, perché in realtà può succedere di tutto.
Il mondo talvolta è piccolo, il passato è un bagaglio invisibile che non si scolla mai di dosso e nel ritornare non c'è mai niente di male.
Nel ritornare talvolta c'è l'inconsapevole viaggio con uno spicchio di maturità e crescita in più.
Un ometto invisibile, che saccente del fatto suo, ti cammina affianco.
Tornare sui propri passi è segno di miglioramento di se stessi e di prontezza a cui prima, invece, non si era preparati per lasciarsi andare.
Tornare è accettare compromessi, aver riflettuto abbastanza e soprattutto, è saper riconoscere i propri sbagli e trovare la soluzione.
È fare a calci con i propri immancabili difetti, saper chiedere scusa se necessario, chiudere un occhio sul passato e aprire un sorriso per affrontare il presente.
Tornare è cambiare percezione delle cose ed è sintomo di diventare un po' più grandi di allora.
E poi chi siamo noi per decidere di dire addio?
Chi siamo noi per tessere trame che possono essere sconvolte dalle coincidenze e dalle circostanze che ci travolgono?
Nessuno.
Noi non siamo nessuno per decidere di rendere definitivo un addio.

Io ho lasciato Napoli alla fine.
Ho lasciato quella piccola casa e il tepore di un letto che aveva saputo proteggermi da notti di pianti e pizzichi al cuscino per rendere silenziosi i sussulti e i singhiozzi.
Sono ritornata a Frosinone, a casa mia, come era giusto che succedesse.
Ho valicato quel confine chiamato orgoglio, che spesso ci chiude in bolge spesse di inutili impedimenti.
Ho riabbracciato forte mia madre.
Ho tentato di fare pace con mio padre, ho cercato di scendere a compromessi giusti per entrambi.
Non è stato facile per due testardi come noi, ma ci siamo riusciti almeno per metà.
L'Università era per lui l'unico modo per riavvicinarci e perdonarci.
L'Università era per me, invece, una strada che proprio non volevo intraprendere.
Allora alla fine abbiamo chiarito lo stesso, perché volerlo veramente con tutto il cuore a volte può bastare.
Perché se si vuole, la ragione si trova sempre.
Dopo musi lunghi e sprechi di riluttanza siamo riusciti ad abbracciarci.
Ha accettato il fatto che approfondissi gli studi di chitarra e canto in modo serio e professionale, ed io in cambio ho lavorato temporaneamente come segretaria nei suoi uffici.
Ho seguito corsi privati e ho cercato di essere una spugna per apprendere il più possibile.
Sono stati tre anni di lavoro intenso su me stessa per raggiungere ambizioni e traguardi per la mia più grande passione: la musica.
Ci sono riuscita.
Sono ritornata, ho abbassato la testa di fronte alle mie sprovvedute avventatezze e di quello scelta, io, non me ne sono mai pentita.
Poi però ho viaggiato.
Sono stata di nuovo a New York per un paio di mesi, ho rivisto apposta Mary e gli artisti di strada.
Ho racimolato esperienze, conoscenze e buoni consigli, ho suonato e cantato vecchie canzoni italiane nei locali americani.
Ho creato un mio personaggio, ho trovato la mia personalità in quel campo tanto magico quanto complesso per riuscire a farsi largo fra carreggiate già troppo affollate.
Mi sono trasferita a Roma, a pochi chilometri da Frosinone e ho comprato il mio primo appartamento: un bilocale in periferia non troppo moderno.
Ho trovato la felicità e la pace seduta sugli sgabelli alti a gambe incrociate, la chitarra in grembo, il microfono davanti alla bocca, gli occhi chiusi e le luci abbassate nelle sale per puntare un faretto bianco su di me.
Ho trovato la soddisfazione negli applausi ricreduti della gente, che troppo spesso giudica senza sapere.
Ho testato il cuore traboccante di gioia fra i visi ravveduti e il loro mutare opinione dopo avermi ascoltata.
Ho cominciato a fare da gavetta nei piccoli pub notturni della capitale italiana, partendo da pochi spiccioli, ma non erano i soldi ad interessarmi quanto il farmi conoscere per dimostrare fino a dove potevo aspirare, arrivare.
Ho seguito un sogno perseverando, azzardando, rischiando, prendendo molte porte in faccia e i portoni, quelli dei santi in paradiso, non si erano mai aperti per me.
Non ancora.
Perché non è mai facile quando si comincia da zero.
Perché non c'è la stessa soddisfazione senza il sale amaro delle fatiche.
Mi si sono aperte solo piccole finestre ed io ho imparato ad apprezzare anche quelle.
Ho fatto serate evento, quelle per matrimoni, nei ristoranti, pianobar e tutte le possibile feste che mi capitavano per mano.
In un giorno qualunque mi aveva chiamata Gennaro.
Da un semplice "come va la vita?" è nata la grande idea, quella dal sapore marcato del riscatto.
Lui aveva deciso di aprire un'attività tutta sua e di distaccarsi dal capezzale di zio Eugenio.
È nata così l'idea di diventare soci di quello che sarebbe stato poi Il Playguitars.
Si era trasferito a Roma con suo fratello e così, da ormai un anno, gestivamo insieme un sorta di bar-pizzeria abbastanza apprezzato di fronte alle rive del Tevere.
E non era solo un caso se il locale si chiamasse proprio IlPlayguitar, perché io era la ragazza che suonava con la sua chitarra ogni sera.
E non era solo una coincidenza se venivo chiamata Il Sagittario acustico lì, fra i caffè e i discorsi romani persi davanti ad un match calcistico della padrona di casa.
Ero divenuta un personaggio abbastanza noto nelle sere tarde di quella movida pulita.
Il Playguitars era un locale notturno frequentato da una clientela varia: dai nonni che giocavano una partita a carte con un sigaro ammaccato fra i denti, ai bambini con le mamme e i papà che si divertivano a giocare alla pesca dei pupazzi, poi c'erano i ragazzini che si spartivano fra una birretta fredda e una scommessa vinta al biliardo, ed infine le giovani coppiette abbracciate al tavolino scambiandosi bacetti e morsi freddi ai gelati.
In tutto questo c'eravamo io e Gennaro.
Io che cantavo cover per intrattenere la gente e lui con il grembiulino rosso attaccato dietro la schiena e il blocchetto in mano per segnare le ordinazioni.
Io che accontentavo la richiesta di un ragazzino per fare una dedica alla sua fidanzata e Gennaro, che serviva panini caldi o pizzette appena sfornate da suo fratello Antonio, che si era trasferito con lui nella bella città eterna.
Eravamo noi gli artefici di una piccola nuova avventura.
Non era stato semplice fra pratiche burocratiche, permessi comunali per la tenda da sole, l'insegna da accendere, per le luci, le mille tasse, la SIAE da pagare per diffondere ufficialmente la mia musica modesta, le spese da affrontare, il forno a legna da sistemare, ma gli sforzi ripagavano dopotutto.
Non era stata una passeggiata staccando il cordone ombelicale dalla mia famiglia, ma insieme avevamo creato una squadra affiatata, caparbia e capace di realizzare gli obiettivi prefissati.
Il sudore alla fine non bagnava solo la pelle, ma asciugava anche gli sforzi.
Il persistere e il lottare aveva dato frutti abbastanza maturi e saporiti.

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