"Ignazio l'ho vista l'intervista, sai?" "E ti è piaciuta?" aveva chiesto con il tono quasi asfittico.
Era sparita la magia.
Era stata sciolta tutta la sensibilità del momento.
Era stato come cadere all'improvviso in un tombino aperto e non visto oppure come svegliarsi di soprassalto da un sogno invitante.
Così meritava solo un calcio ben piantato laggiù.
"Doveva piacermi? Tutto quello che hai detto non mi è sembrato così entusiasmante per me"
"In che senso?"
"Hai detto che sei giovane e ti diverti con le ragazze. Insomma Ignazio, io a te non ti capisco! Cosa dovrebbe piacermi dei tuoi discorsi? Ma ti sei accorto che mi hai chiamato amore a Milano? Perché non lo capisci che mi stai mandando in confusione?"
Era scoppiata quella bomba inesplosa che mi portavo dentro.
Riuscivo quasi a sentirmi veramente più leggera, come se parole ricche di un sentimento chiamato speranza, potessero davvero avere un peso concreto sulle spalle.
Il problema è che le emozioni sono così intangibili che ti toccano l'anima.
"Aspetta, aspetta...io ti avrei chiamato amore? Quando?"
Dal suo sbattere repentinamente le ciglia sembrava sinceramente spaesato.
Dal suo gesticolare con movenze allarmate sembrava veramente confuso.
"Nel backstage del concerto a Milano. Quando ci siamo salutati"
"Io...io...no...non lo ricordo nemmeno!"
Non se lo ricordava.
Non era vero.
Non avevo fiatato più restando immobile davanti a lui, interdetta e sospesa con me stessa.
Meditando se fosse ancora opportuno nascondere il mio sentire per lui.
E restavo in bilico e più piccola di fronte a lui.
Di fronte ad incertezze rese amaramente certe.
Di fronte a quella briciola di speranza che cadeva e toglieva il dubbio più morbido del cuore.
E allora al posto del verde mi dipingevo di nero.
Non è vero che si spezza il cuore con un dispiacere.
Non è vero che il battito smette di funzionare per qualche istante di troppo.
Quando succede ciò che non vorresti, senti il grugnito dello stomaco che si contrae e si spacca un due.
Si chiude ermeticamente cime una zip e senti un senso di vuoto, un buco nascere nel profondo.
Senti quella morsa, quello scatto che sobbalza dentro come un cancello sbattuto da una repentina folata di vento.
Il rumore che c'è dentro è solo quello di un silenzio insopportabile che non ti vuol far parlare.
"È solo una parola Marta....probabilmente l'ho detta in un momento di confusione. Perché reagisci così? Ci hai dato così tanto peso?"
E con un morso sulla lingua e un pizzico sulla pancia, avevo già fatto la mia scelta, quella più semplice: avevo deciso di fingere indifferenza ancora e ancora.
Per l'ennesima volta negare era più facile.
"No. Non ci ho dato peso. Volevo solo che tu fossi più chiaro con me"
Mi fingevo addirittura sollevata davanti all'assenza di un sentimento che invece bramavo di avere.
Davanti alla mia ingenuità nell'aver creduto ad un'emozione in realtà mai concepita nemmeno.
Io fingevo, fingevo sempre.
Sembravo quasi un'attrice.
Peccato che quel film nessuno sapeva che lo stavo girando.
Peccato che non mi sentivo protagonista dei miei gesti.
Io non mi sentivo più la stessa Marta.
Non ero la Marta che desiderata teneva testa.
Non ero più quella che Marco cercava continuamente e rifiutava con la scusa di un mal di testa.
Ero diventata la Marta di Ignazio che pendeva dai suoi voleri.
Sottostavo ai suoi desideri e non mi riconoscevo nel mio accontentarmi.
Quella che taceva e restava non ero io.
Quella che stava zitta regalando amore in cambio di niente di spirituale, era solo la dannata disperazione.
La tormentata perseveranza che non deve esistere in amore se amore non c'è dall'altro lato.
L'intollerabile ostinazione che nessuno deve implicare di fronte ad atti non corrisposti.
Quel mio insistere era l'eufemismo di una caduta.
Capita a tutti prima o poi.
Di cadere e farsi male in amore, prima o poi, tocca a tutti.
È una legge di vita non scritta, ma letta negli occhi di chi è più grande.
Questo percorso altalenante lo raccontavano anche le rughe di un'anziana donna seduta su una panchina a pochi metri da me con la sua nipotina in braccio, che ci guardava da lontano senza capire.
A chi non è successo di innamorarsi della persona che non ci merita o che non sente l'esigenza mentale di noi?
Succede.
Quasi troppo spesso.
È un dosso in cui imbattersi e incespicare.
Io lo sapevo quello che stavo vivendo.
La vita è una continua giostra che gira.
Era successo a Marco e l'artefice del suo dolore ero stata io.
Adesso stava accadendo a me.
Tornava indietro quel boomerang lanciato involontariamente.
Non si è mai solo vittime nelle circostanze.
Io ero stata la carnefice di me stessa e di qualche altro cuore rotto.
In casi come questi, puoi anche essere la persona più forte dell'universo, ma il coraggio di alzare i tacchi e andare via, non arriva mai prima di farti male sul serio.
Non arriva mai quella scossa che ti scosta di riflesso senza un vero ematoma attaccato addosso.
Non puoi rialzarti se prima non cadi scorticandoti la pelle.
Io dovevo cadere ancora e ancora.
Dovevo inciampare nei suoi occhi, intoppare fra i suoi vestiti tolti e caduti dalle mie dita, sciogliermi insieme ai lacci delle sue scarpe, staccarmi come il suo bottone della camicia prima di fare l'amore.
Dovevo impigliarmi ancora come i suoi capelli stretti fra le mie dita sottili.
Dovevo urlare ancora nella sua bocca, graffiare la sua schiena e sudare sulla sua pelle ancora e ancora.
Dovevo ancora abbracciare quelle spalle di cui non sapevo più fare a meno e mordere le sue labbra per restare in silenzio.
Dovevo, perché io volevo ancora testardamente rimanere.
Con l'incoscienza della mia età che mi portavo addosso, dovevo sbagliare per imparare.
Dovevo vivere fino a farmi sanguinare il cuore per dire di aver vissuto.
Esiste sempre una differenza abissale fra il riempire un vuoto e il colmare uno spazio.
Io occupavo sicuramente un posto nella sua vita, ma era solo il riempire temporaneamente dei buchi che non potevano concedere più di quello già dato.
Il mio era un prendere il tempo che trovavo e che lui lasciava.
Io ero il cerotto che poi andava rimosso una volta rimarginata la ferita.
Il nostro era un continuo tacere e far parlare e guardare le mani.
Era un convulso leggersi addosso senza mai stamparsi.
Era un spasmodico cercarsi e volersi fra lenzuola appena sfatte.
Era un irrefrenabile chiudersi in una bolgia di sapori proibiti.
Era un tumultuoso restare senza rimanere.
Era la frenesia, l'armonia temporanea e febbrile.
Era smarrirsi, cadere, alzarsi e ritrovarsi in due in un campo di mine.
Era una smania di aversi, impeti senza briglie sciolti come tori contro tovaglie rosse.
Una sorta di voluttà, cupidigia, sete che non si idrata mai.
Era un qualcosa che poi ineluttabile si rivolta contro.
Io lo sapevo tutto questo.
Lo stavo scegliendo senza rendermi conto di essere di fronte ad una scelta.
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La Storia In Una Fotografia (#Wattys2016)
FanfictionSono solo gli occhi di Marta, che in una consolle ritrova una di quelle fotografie che si fanno nei photomaton. È un pezzo di carta che fa balugginare nella mente immagini e momenti mai sopiti. È il caso di uno scatto inaspettato fatto dodici anni p...