Alla ricerca della felicità

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Faceva freddo quella sera, o almeno l'aria mi sembrava più prepotente del solito. Vagavo ormai da una settimana senza nemmeno sapere se quello che stavo cercando era reale o meno. Da quando mamma era morta io non mi davo pace, odiavo restarmene con le mani in mano e tutto ciò che desideravo era un posto che mi rendesse felice.
Ero stata in Montana, dalla zia di mio padre, ma per tutti lì ero solo la piccola ribelle orfana. Provai pure a trasferirmi da nonna Anne ma capii che quello non era il mio posto quando nonno Joe mi chiese di mungere una vacca insieme a lui.
Con i soldi che avevo ereditato ero riuscita a spostarmi un po', ma sarebbero finiti presto visto che più o meno ero riuscita ad arrivare alla meta con solo due mila dollari.

Erano le tre del mattino e Brooklyn era ancora lontana, mi sedetti su una panchina a testa in giù, come ero solita fare perché adoravo vedere il mondo da un'altra prospettiva. C'era freddo si, ma pensare a lei mi faceva stare bene, come se venissi improvvisamente avvolta da un caldo abbraccio.

<<Quei ragazzini ne hanno di strada da fare!>> balbettava un signore seduto nella panchina affianco, rigirandosi nelle mani una bottiglia di birra ormai finita.

<<Parla con me?>> chiesi, vedendolo da solo nel buio di quella stradina.

<<Cantano qui ogni sera, credono di essere i padroni del pub. Arrivano, sbattono fuori i vecchi abitudinari come me e fanno un po' di casino, ignorando di essere solo delle capre tatuate.>> sputò a terra e alzò i piedi per sdraiarsi completamente sulla sua panchina.

Ricordava vagamente braccio di ferro, aveva la mascella pronunciata e sembrava non avere più neanche un dente. Comunque ascoltai le sue parole e non potei fare a meno che scoppiare in una fragorosa risata.

<<Ridi eh? Tutti quelli che vengono da Brooklyn sono fatti così. Spero che tu non ne incontri mai uno!>> balbettò ancora, attirando la mia attenzione stavolta.

<<Da Brooklyn ha detto? E sono ancora dentro al pub?>>

<<Già, purtroppo si.>>

<<Oh ma è meraviglioso!>> urlai alzandomi dalla panchina. <<Lei è un angelo, grazie!>>

<<O ma che?!>> biascicò lui, lasciandomi andare senza dire nulla riguardo al mio comportamento da pazzoide.

Attraversai la strada correndo, cosa che non avrei mai dovuto fare visto che rischiai di finire sotto ad un'auto in corsa, ma arrivai sana e salva davanti al pub. Non sapevo esattamente fino a che punto la mia fosse una buona idea ma sapevo che provare non costava nulla.
Sentii subito la musica metal rimbombare sulle pareti e una folla di gente scalmanata urlare e saltare insieme alla band che immaginai fosse composta dai ragazzi di cui si stava lamentando il vecchio signore là fuori.

Cercai di avvicinarmi al palcoscenico spintonando un po' di gente, qualcuno mi toccò il sedere ma quando mi voltai trovai solo un mucchio di idioti salterini che non avrebbero mai ammesso di aver commesso il fatto così evitai e continuai ad avanzare.
Tra un "permesso" e un "mi scusi" finalmente riuscii ad arrivare all'estremità del palco che però non portava da nessuna parte, così decisi di attendere lì che l'orribile rumore cessasse per poi parlare con quei ragazzi subito dopo.
Non li conoscevo e probabilmente mamma mi avrebbe detto di non accettare passaggi da loro, ma ero in cerca della mia felicità e questo valeva il rischio.

Quando il concerto finì, il locale non impiegò molto a svuotarsi e la maggior parte della band rimase sul palco per smontare gli strumenti.
Al microfono c'era un ragazzo rossiccio, aveva le braccia interamente tatuate e teneva un stecchino di legno in bocca. Parlava e rideva, ma sembrava che quel legnetto fosse stato appiccicato alle sue labbra sottili. Ci pensai un po' prima di avvicinarmi.

ESCAPE / Cameron Dallas #Wattys2017Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora