16. Diversamente utile

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"Ci spaventiamo sempre delle novità e del cambiamento, quando l'unica cosa di cui dovremmo aver paura è l'abitudine."

I polmoni mi bruciano, ogni respiro mi procura una fitta al petto, mi accascio quindi a terra, consapevole che alcuni sconosciuti mi stanno fissando ed altri ignorando. Il dolore è intermittente, ed in cuor mio mi auguro di smettere di respirare, piuttosto che continuare con questa spiacevole sensazione. Respiro facendo attenzione, ascoltando i battiti accelerati del mio cuore. Guardarmi attorno è strano: credevo di ricordarmi le vie, i negozi, i parchi di questa stupida cittadina, invece mi rendo conto che tre anni possono essere davvero significativi per le sciocche persone che vivono qui. Sono aumentati i negozi, con le loro stupide vetrine che ti assicurano la felicità grazie ad un inutile acquisto: ti promettono la gioia e la soddisfazione con stoffe acriliche e scarpe made in china. Ma il problema non è questo: loro fanno solo il loro lavoro, vendere. Il problema è la gente che ci crede. Vedo ragazze che fanno la fila per entrare da Victoria's Secret, donne che sbavano davanti ad un diamante di Tiffany, ragazzi che escono soddisfatti dal negozio di videogiochi e uomini impettiti che scelgono una nuova valigetta in pelle per l'ufficio. Li osservo, mentre mi stringo nella mia felpa extra large e tremo nei miei pantaloni del pigiama. Mi alzo lentamente, e spaventata mi dirigo verso uno dei miei posti preferiti: un parco con un lungo viale di salici, dove spesso mi rifugiavo quando a scuola era impossibile tenere duro. La vita scolastica era il maggiore dei miei problemi ed una delle mie più grandi soddisfazioni: mi permetteva di essere quella che ero, mi concedeva di sentirmi la migliore, senza vergognarmi di possibili fallimenti. Anche perchè io non fallivo mai. Ma contemporaneamente era il peggiore dei miei incubi, un luogo di continui insulti e scherzi, un luogo in cui era impossibile essere lasciata in pace. Un luogo che ti rendeva debole, anche se avrebbe dovuto farti diventare forte. Un luogo di sogni e speranze, di adolescenza ed allegria. Per tutti, ma non per me. Cammino lentamente, il cappuccio calcato sulla testa, sbirciando di tanto in tanto l'orologio: fra 5 minuti, i miei si accorgeranno che non sono nel mio letto. Si accorgeranno che non sono in casa, che la loro unica figlia ha preso coraggio ed è uscita. Positivo, certo, ma pericoloso: non hanno la più pallida idea di dove io possa essere. E non so se esserne felice o se esserne spaventata: non sono più nella mia scatola di vetro, ma sono alla mercé della vita, che è molto peggio. So di dovermi allontanare il più possibile da qui, so che se resto nei paraggi mi troveranno, so che ho paura di tutto e di tutti, che ho bisogno di una nuova piccola teca di cristallo dove rintanarmi, senza che siano gli altri a controllare la mia vita. Devo essere libera di consumarmi da sola, senza che le persone mi facciano da carcerieri e senza dei medici con la speranza di guarirmi. Voglio stare in un posto libera di essere me stessa. E per farlo devo raggiungere quel parco e salire sull'autobus che ferma li accanto.

Del bellissimo salice su cui adoravo arrampicarmi non è rimasto nulla, se non un cumulo di terra e qualche parcheggio. La mentalità umana non concepisce più l'idea di spazio verde: ogni spazio va cementato, usato per costruire grigi grattacieli o stupidi centri commerciali. La mia piccola oasi di sicurezza è stata spazzata via da qualche ruspa, per lasciare spazio a qualche Mustang di vecchia data. Le persone non aiutano: mi passano accanto parlando al telefono, spingendo i bambini piangenti verso le auto, aprono i bagagliai da cui tirano fuori valigie colme o buttano dentro borse piene di nuovi acquisti. Alcuni mi fissano bisbigliando, altri mi squadrano schifati, altri ancora sussurrano  ai ragazzini a non guardarmi.  Mi avvicino piano all'autobus rosso che è in attesa al capolinea, e rimango paralizzata quando mi specchio nel finestrino della porta secondaria: ho i capelli in disordine, un ginocchio sbucciato e sanguinante, la felpa è macchiata del sangue che mi cola dal naso. Non mi ero accorta di sanguinare, ne di avere un livido sopra l'occhio: merito della caduta e di essermi buttata verso il muro senza fiato. Sembro una di quelle ragazze che mostrano nelle pubblicità progresso contro la violenza sulle donne: ora capisco perchè mi fissavano tutti. L'orologio trilla, segnalandomi che l'ora è giunta: i miei hanno appena scoperto che non sono in casa. Ma io lo ignoro, non mi interessa. Perchè sto salendo sull'autobus rosso dall'altra parte del vecchio parco.

L'autista non fa domande, continua a bere il suo caffè ed a mangiare la sua ciambella rosa senza degnarmi di uno sguardo; ciò mi permette di sgattaiolare infondo al bus, dove mi sistemo in un posto da due, nella speranza che non si riempia mai a sufficienza da portare qualcuno a sedersi accanto a me. Guardo fuori dal finestrino la distesa di cemento che una volta era un folto tappeto d'erba, colmo di fiori e di panchine dove leggere. Mando giù il groppo che ho in gola ma l'immensa voglia di piangere continua a farsi sentire: non posso mollare ora, non dopo essere giunta fino a qui. Sono stanca di essere controllata, cercata e spinta a fare ciò che non voglio. Voglio la libertà: voglio prendere 5 pastiglie di Valium senza sentire mia madre che si lamenta perchè ne dovrei prendere solo 3, voglio fumare senza sentire mio padre sbuffare, voglio piangere ed urlare senza che Popper mi dica che devo parlarne con lui. Vorrei fare un sacco di cose, ma non ho mai avuto il coraggio di fare nulla, fino ad ora. L'autista mette in moto il mezzo, facendomi destare dai miei pensieri: ciò mi fa notare una signora dai capelli bianchi che mi fissa insistentemente da due posti avanti al mio. Distolgo subito lo sguardo, ma lei lo intercetta e si avvicina velocemente verso di me. "Ciao Bambina, stai bene?" mi chiede con la voce appena roca. Annuisco decisa, nella speranza che si dimentichi velocemente di me. E poi, Bambina?! Ho 23 anni, per la miseria! "A me non sembra, piccola, sei sicura di stare bene? Che è successo?" insiste. Prendo un bel respiro e mi giro verso di lei: "Sto bene, Signora, grazie per l'interessamento. Ora, se non le dispiace, potrebbe tornare al suo posto? Devo affrontare un lungo viaggio e mi piacerebbe dormire." dico scocciata. La sua espressione si addolcisce appena, si avvicina ed appoggiando una mano rugosa sulla mia spalla sussurra: "Ho capito, Bambina, non hai bisogno di me. Ma, ecco, in realtà io non sono così impicciona" dice sorridendo e coprendosi la bocca con la mano, "vedi, mi è stato chiesto di chiederti cosa ci facevi qui. Quel giovanotto mi è sembrato abbastanza sorpreso." Disse indicando una scompigliata testa bionda nascosta fra i sedili e tornando poi a sedere al suo posto, due poltrone avanti al mio.

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