Canto XXX

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CANTO XXX

-Maggior difetto men vergogna lava –

Disse'l maestro – che'l tuo non è stato;

però d'ogne trestizia ti disgrava:

e fa ragion ch'io ti sia sempre a lato,

se più avvien che fortuna t'accoglia

dove sien genti in simigliante piato;

ché voler ciò udire è bassa voglia.

(Inferno XXX 142-148)

Nel tempo in cui Giunone era crucciata per via di Semele contro il sangue tebano, come mostrò in due occasioni, Atamante divenne tanto insano, che vedendo la moglie andare caricata da ciascuna mano con due figli, gridò: - Tendiamo le reti, sì ch'io pigli la leonessa e i leoncini al varco -; e poi distese gli spietati artigli, prendendo quello che aveva nome Learco, e lo roteò e lo percosse contro un sasso; e quella s'annegò con l'altro carico. E quando la fortuna volse in basso l'altezza dei Troiani che tutto ardiva, sì che insieme col regno fu annientato il re, Ecuba trista, misera e prigioniera, poi che vide Polissena morta, e poi che la dolorosa si fu accorta del suo Polidoro sulla riva del mare, forsennata latrò sì come cane; tanto il dolore le fece torta la mente.

Ma né furie di Tebe né troiane si videro mai tanto crudeli nell'infierire su bestie, nonché su persone, quant'io vidi due uomini smorti e ispidi che stavano arringando una piccola folla. Benché urlassero, parlavano in un misto di una lingua che non conoscevo e volgare, così sentii poco, ma quel poco bastò: "guerra santa", "bomba", "Occidente", "cristiani". Parole che messe nella stessa frase suonavano molto inquietanti.

E Arama che rimase, tremando ci disse: - Quei due si aggirano rabbiosi tenendo banco da quando sono arrivati.

-Oh! – le dissi io – non ti sia fatica dire chi sono.

Ed ella a me: - Non li conosco, ma potrebbero essere...-. La sua voce si spense in un borbottio.

Io rivolsi gli occhi a guardare quei due malnati, appena in tempo per vedere due custodi furibondi correre verso di loro. E uno saltò addosso al primo che si avvicinò e col pugno gli percosse l'epa: quella sonò come fosse un tamburo. L'altra guardia, imprecando, lo abbrancò da dietro e glielo staccò di dosso.

-Cane infedele! – urlò l'immobilizzato. – Miscredenti! Imporremo l'unica vera legge di Dio!

Io ero del tutto fisso ad ascoltarlo, e ci misi un po' ad accorgermi che Clarissa mi tirava per una manica e che Arama si era affrettata a dileguarsi.

-Dante, ti prego, andiamo...

-Ma chi è quell'infatuato?

-Dante, se non ti muovi ti do un pugno anch'io! – esclamò Clarissa.

Quando la sentii parlarmi con ira, mi volsi verso di lei con tale stupore, che ancora mi si gira per la memoria.

Qual è colui che sogna una cosa dolorosa, che sognando desidera sognare, così che agogna quel che è come se non lo fosse, tale mi feci io che, non potendo parlare, desideravo scusarmi, e già lo stavo facendo comunque, pur non rendendomene conto.

-Non fa niente – disse la maestra – però vieni via! -. E mi trascinò dall'altra parte della strada.

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