Capitolo 13

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Victoria.

Percorro i corridoi come una furia.
Dylan, Dylan, Dylan.
Dylan è sempre lui.
Non lo sopporto.

Sai che nessuno potrà mai credere alle tue parole?

Zitta. Mi mancavi solo tu adesso.

Ed eccomi qui! Visto che lo odi così tanto e che, soprattutto, non lo sopporti affatto, come mai il tuo cuore per poco non esplodeva quando lui era a circa trenta centimetri da te?

Non è vero affatto. Il mio cuore aveva una palpitazione normalissima.

Certo, normalissima per un qualcuno che capisce di poter, in fondo, in fondo, capire che magari quella determinata persona le piace.

A me lui non piace. È solo un amico...penso: non so se ci possiamo definire neanche quello.
C'è un rapporto sì, ma non è nulla di così speciale.

Sei così ingenua...

Non è vero.

Arrivo in classe non appena la campanella suona e mi vado a sedere al mio posto. Dopo molto tempo finalmente, posso affrontare una lezione della signorina Ashley che, non appena la classe è piena, incomincia il suo discorso introduttivo. L'ora di arte è la più rilassante: posso completamente abbandonarmi al mio pensiero e alla mia fantasia per poter disegnare e parlare di me. Da sempre, soprattutto dopo la scomparsa di mia madre, non ho fatto altro che disegnare e a casa ho conservato un album pieno di disegni che ritraggono quel periodo e in particolar modo i due mesi dopo la sua fuga.
Non ci sono colori: è tutto in bianco e nero e i disegni sono totalmente riferiti a lei, a quella donna così strana e disturbata da un qualcosa che non potrò mai capire.
Non perché non voglia, ma perché non la rivedrò mai più.
La signorina Evans è molto più magra dall'ultima volta che l'ho vista...forse è solo una mia impressione.

-oggi ragazzi disegneremo e rappresenteremo la tristezza- perfetto, proprio quello che più temevo - la tristezza, anch'essa un'emozione presente in tutti noi- inizia -c'è chi la nasconde bene e chi si ostina a dire che va tutto bene quando in realtà niente segue la linea del bene; altri ancora che fanno capire, invece, esattamente i suoi pensieri- dice- adesso, voglio che voi disegnaste qualcosa che rappresenti la vostra tristezza, che rappresenti quel qualcosa, anche un ricordo, che vi riporta alla tristezza. Voglio che su quella tela alla fine di quest'ora ci sia rappresentata la tristezza racchiusa in voi- sorride appena- perché in ognuno di noi c'è della tristezza, perché in ognuno di noi c'è qualcosa che non va e non diciamo, perché dentro di noi c'è qualcosa che ci fa star male, che ci fa soffrire e che ci fa cadere- vedo le sue mani chiudersi leggermente in un piccolo pungo, per poi rilassarsi di nuovo. I suoi occhi azzurri sono lucidi, ma non troppo da rischiare di piangere, sono solo immedesimanti nel discorso –dolore che ci farà rialzare più forti di prima: bisogna solo avere il coraggio di affrontare e sopravvivere- conclude sorridendoci- buon lavoro-.

Respiro un po' prima di iniziare. Le sue parole mi hanno scosso e mi ha dato l'ispirazione. Ho capito cosa devo disegnare e la mia mano, dopo avere impugnato la matita, parte e incomincia a disegnare qualcosa sulla mia tela.

I mio pensiero vola a mia madre e al fatto che non so dove sia e se ora stia bene, alla sua figura e al suo stato d'animo l'ultima volta che la vidi: era persa, i suoi occhi spenti e il suo viso apatico; raggomitolata su quel letto che sembrava il triplo di lei, avvolta in quel buio artificiale che creava chiudendo le pesanti tende nere che ha voluto che papà appendesse alle finestre.

Un ricordo triste.

Mia madre è il primo ricordo triste che riaffiora nella mia mente.
La mia mano si muove ancora sulla tela e una figura incomincia a farsi spazio sopra tutto quel bianco: la sagoma di una donna sdraiata su di un letto matrimoniale. Dalla porta, poi, si vede il corpicino di una bambina avvolta in un vestitino che, stringendo il suo orsacchiotto preferito per una zampa, osserva la madre distruggersi da sola.
Disegno tutto questo usando la prospettiva della porta, cioè, faccio in modo che chi guardi il quadro si trovi, praticamente, dietro la bambina.

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